El Salvador: profilo storico
del pulgarcito de las America*



di Massimo De Giuseppe

Cenni sulla stagione precolombiana

L'attuale territorio di El Salvador si trova nel cuore dell'antica regione mesoamericana, compresa tra la fascia semidesertica del Messico centro-settentrionale e la ragione tropicale dell'istmo di Panama. Le origini antropologiche del paese risalgono all'insediamento, in tempi diversi, di tre principali gruppi etnici: un gruppo arcaico (chorotegas) poi dislocatosi nell'attuale Nicaragua di cui rimangono tracce molto scarse; un gruppo di ceppo etnolinguistico maya (pocomanes), migrato verso il Sud attorno al sec. VII; un gruppo di lingua náhuatl, costituito da successive migrazioni, iniziate con quella dei toltechi (sec. XI) e terminate con quelle di comunità di principi-mercanti e coloni aztechi (sec. XV). A questo ceppo di "conquistatori" esterni appartiene la civiltà pipil che ebbe il suo epicentro nell'area compresa tra Nahuizalco (dal náhuatl "quattro quetzal", nell'attuale distretto di Sonsonate), Cuzcatlán e i vulcani che circondano l'altipiano di San Salvador. Ai pipil di derivazione mexica, che assunsero un ruolo dominante nel centro del paese (mantenendo contatti intensi con la Valle del Messico), si devono poi aggiungere altri ceppi autoctoni precolombiani, come i lenca, lungo la frontiera con l'Honduras, nella regione di Chalatenango, e piccoli gruppi chontal, provenienti dalla regione del Golfo e migrati dall'entroterra tabasqueño, attraverso i grandi fiumi del Petén (il cuore delle civiltà maya della Mesoamerica del periodo classico). Gli abitanti del Salvador precolombiano svilupparono una civiltà contadina articolata, sedentaria e urbana; pur privi di animali da tiro, da sella e da carico (e non conoscendo l'aratro), si dedicarono alla coltivazione, adattando alla fertile terra vulcanica della regione un gran numero di colture alimentari, tra cui mais, fagioli e zucche. In una struttura sociale in cui le categorie erano ben differenziate (a una base comunitaria della società contadina, riunita attorno al campo di mais, la milpa, nella struttura comunitaria del calpulli, faceva da contraltare un sofisticato sistema teocratico-scientifico di matrice urbana e un dualismo di caste guerriere che riproduceva direttamente il modello olmeco), il potere direttivo era prerogativa originaria della classe nobiliare, che esprimeva al suo interno un leader (per i pipil uno tlatoani, dal náhuatl, "colui che parla") politico-militare. Uno di questi, Tutecotzmit, introdusse una riforma istituzionale che instaurò una forma di monarchia semi-ereditaria e rafforzò i caratteri della casta burocratico-nobiliare con funzioni di governo. Sia quella pipil che quella pocomane erano società agricole sedentarie, caratterizzata da un forte legame città-campagna, di cui restano oggi purtroppo poche vestigia archeologiche (il sito di Tazumal) ma molti elementi culturali, custoditi nelle matrici dominanti e di resistenza socio-antropologica-religiosa di molte comunità rurali.

Conquista e resistenza

Nel 1524, appena quattro anni dopo la caduta della capitale dell'impero azteco, Tenochtitlan, per mano di Hernan Cortés, prese il via la conquista spagnola dell'attuale El Salvador. Già due anni prima una spedizione spagnola che stava esplorando l'istmo di Panama alla ricerca di oro attraccò sulle coste salvadoregne, scontrandosi con le popolazioni locali. La conquista del paese si lega però alla fama del "conquistador del Centroamerica", Pedro de Alvarado, uno dei più stretti luogotenenti di Cortés, penetrato in El Salvador dal Guatemala nel 1524, subito dopo aver sedato la prima rivolta dei maya cachickueles. Pocomanes, lencas, ma sopratutto pipil, opposero una strenua resistenza alle spedizioni militari spagnole; queste, nonostante la superiorità militare e tecnologica (i militari europei disponevano di cavalli, armi in ferro e bocche da fuoco, totalmente sconosciute ai popoli amerindi, la cui risorsa principale in guerra erano fionde, scuri e frecce d'ossidiana), faticarono ad ottenere il controllo del territorio e le sollevazioni continuarono anche molti anni dopo il consolidamento della colonia, in particolare nei più isolati "pueblos de indios" ed enclave indigene. Particolarmente famosa divenne la resistenza di Atácatl, signore di Cuzcatlán, che per oltre 15 anni condusse una serie di ribellioni alle pressioni dei conquistadores, impegnati a raccogliere manodopera per il lavoro nelle miniere e piantagioni. Nel 1525 Gonzalo de Alvarado fondò la futura capitale San Salvador e tre anni dopo Diego de Alvarado riuscì a ottenere una precaria pacificazione. L'attuale territorio di El Salvador divenne quindi provincia della capitanía general del Guatemala, nel Vicereame della Nuova Spagna (con capitale Città del Messico) che comprendeva tutti i territori dell'America istmica. Sotto il profilo ecclesiastico il territorio di El Salvador fu aggregato alla diocesi guatemalteca, eretta nel 1534. Con la dominazione spagnola, rapidamente esauritasi la "fase dell'oro" furono quindi introdotti tutti i tradizionali istituti coloniali, dall'encomienda (assegnazione di terre a signori locali, secondo un sistema d'impronta feudale, che garantiva la disponibilità di popolazione indigena utilizzata come manodopera servile) al patronato (sistema di controllo statale della penetrazione religiosa nel territorio). L'evangelizzazione fu affidata in un primo tempo a frati minori, quindi a domenicani e gesuiti, mentre la cronica scarsità del clero secolare, concentrato nelle aree urbane, sarebbe stata una costante della storia religiosa salvadoregna. L'introduzione dei modelli coloniali provocò, come nel resto del vicereame della Nueva España, una forte stratificazione sociale e una conseguente gerarchizzazione della società che incideva pesantemente sull'elemento comunitario-rurale indigeno. A causa della conformazione del territorio, a differenza del vicino Guatemala (dove la particolare collocazione geografica delle diverse etnie indigene, in particolare negli altipiani, e la presenza del più rigido sistema di "separazione" dei pueblo de indios domenicani, provocava un maggior "distanza" tra comunità bianca e maya), escludendo alcune enclave pipil, più rapido apparve il processo di "mestizaje" del territorio. La componente puramente indigena andò infatti riducendosi notevolmente (fino alle 300.000 unità circa della prima metà del XX secolo), prima per effetto di malattie ed epidemie, poi per effetto delle trasformazioni sociali, economiche e culturali (dall'impiego del bracciantato alle emigrazioni forzate, dal processo di evangelizzazione e hispanizzazione), mentre aumentava il numero di meticci (oggi la gran parte della popolazione del paese). Ciò non impediva la presenza di un classico dualismo città/mondo rurale tipico delle colonie spagnole centroamericane e che tanto influsso avrebbe avuto nel passaggio dall'età moderna a quella contemporanea. Durante tutta la stagione virreynale, le leve del potere rimasero saldamente nelle mani di una ristretta élite spagnola prima e criolla poi (i salvadoregni di origine spagnola). Questo provocò un processo di forte concentrazione della ricchezza d'impronta rigidamente oligarchica, incentrato principalmente attorno al controllo della terra ed alla formazione di latifondi. Questi da un lato rompevano il tradizionale sistema di gestione collettiva dei terreni, portando gradualmente ad una divaricazione tra colture povere di sussistenza e colture da latifondo e d'esportazione, introducendo un processo di graduale costituzione di una vera e propria oligarchia terriera. Il tentativo di riforme borboniche, intrapreso nell'ultima parte del '700 si scontrò quindi con l'accresciuto potere di potentati locali e con una chiesa poco disposta ad abbandonare i privilegi ecclesiastici basati per due secoli dal sistema del patronato.

La stagione postcoloniale

Il processo di decolonizzazione del paese fu piuttosto tormentato. Nel 1811, come in Messico, in Guatemala e nei vicini paesi centroamericani, sull'onda dei fermenti giacobini europei, scoppiarono i primi moti indipendentisti, animati dai criollos che intendevano porsi nel ruolo di mediatori tra la colonia e l'autorità spagnola. Tra questi vi erano anche esponenti del basso clero come il presbitero José Matías Delgado, "eroe indipendentista", protagonista di un episodio semi-scismatico nel 1822 (quando fu nominato vescovo di una diocesi riconosciuta dagli indipendentisti ma non ancora dalla S. Sede). La lotta per l'indipendenza esplose infatti nel 1821; l'anno successivo El Salvador si oppose all'annessione al Messico votata dalla giunta consultiva dell'ex capitanía, ormai sottratta al dominio spagnolo, e, dopo aver resistito ad un attacco delle truppe guatemalteche, fu invaso dall'esercito messicano, guidato dall'imperatore Augustín de Iturbide. Nel 1823 i Salvadoregni, sotto la guida di Juan Vicente Villacorta, sconfissero le truppe messicane. Venne quindi proclamata, nel 1925, l'indipendenza della Confederazione delle Province Unite dell'America Centrale (con Costa Rica, Guatemala, Honduras, Nicaragua), in cui El Salvador si trovò a competere con il Guatemala per la supremazia. La federazione fu inoltre presto agitata da una lotta interna tra conservatori (sostenuti da esponenti della Chiesa locale e, indirettamente, da Spagna e Gran Bretagna) e liberali di Arce y Delgado (che, come in tutto il Centro America, guardavano con crescente interesse al modello statunitense). Nel 1830 assunse la presidenza federale Francisco Morazán, che avviò una politica d'impronta radicalmente liberale, secondo il modello messicano, abolendo molti privilegi della Chiesa (dal foro ecclesiastico alle decime), concedendo la libertà di culto (che portò alla prime presenze di chiese protestanti nordamericane, principalmente presbiteriane e metodiste) e favorendo la nascita di nuovi giornali. Il nuovo contesto politico non eliminò certo le sperequazioni sociali e anzi il tentativo di modernizzazione forzata del settore rurale incontrò una serie di resistenze, culminate nella ribellione indigena del 1833 dei pipil di Nonualco, guidati da Anastasio Equino. Nel 1834 fu trasferita a San Salvador la sede del governo federale, alle soglie di una stagione di nuove tensioni, alimentate dalla consueta contrapposizione tra liberali (al potere in El Salvador) e conservatori (al potere in Honduras e Nicaragua). La Federazione centroamericana si sciolse quindi definitivamente nel 1839, quando presero il via i lavori della seconda Costituente e nel 1842 la S. Sede eresse formalmente a diocesi San Salvador (vent'anni dopo l'annuncio di Delgado), staccandola da Città del Guatemala. La ridefinizione dei confini istituzionali ed ecclesiastici non spense però il clima di scontro che segnava una regione sempre più caratterizzata da nuove forme di caudillismo locale. Durante il governo del liberale Vasconcelos (1845-1850), El Salvador dichiarò guerra al Guatemala di Carrera, uscendone sconfitto; ne approfittò allora il reazionario Dueñas che, ottenuta la presidenza, la difese con pugno di ferro in una stagione (1851-1858) di crescenti pressioni esterne, segnata dal dualismo franco-britannico nella regione (si veda il trattato Clayton-Bulwer in vista della costruzione di un canale nell'istmo) e dalla rocambolesca impresa dell'avventuriero statunitense Walzer nel vicino Nicaragua. La seconda metà del secolo XIX fu infatti una stagione particolarmente delicata per il paese, che oltre alla lotta politica, registrava una crescente penetrazione di capitali stranieri, in particolare connessa alla produzione di indaco, colorante ampiamente esportato per le crescenti richieste dell'industria tessile internazionale, trascinata dal boom della rivoluzione industriale. Nonostante questi cambiamenti strutturali incidessero sul sistema-nazione salvadoregno (dopo l'indaco conobbero un forte impulso altre colture d'esportazione come il cotone, la canna da zucchero e il cacao), la gestione del potere continuava ad essere prerogativa di una ristretta oligarchia, che stringeva sempre più i propri legami con finanziatori internazionali da un lato e con l'esercito dall'altro, raggiungendo, a differenza del Messico impegnato nelle guerras de reforma, una sorta di tacito status quo con la Chiesa nazionale. Dal 1859 al 1864 il presidente Barrios introdusse una serie di riforme liberali (laicismo dell'insegnamento, separazione tra Stato e Chiesa, riforma giudiziaria), prima di essere costretto all'esilio dalle pressioni incrociate della coalizione Guatemala-Honduras e di una parte dell'oligarchia terriera. Il potere tornò allora a Dueñas che impose un regime di terrore e nel 1865 fece fucilare Barrios, consegnatogli dal governo del Nicaragua. Dopo una nuova sollevazione, assunse quindi il potere il maresciallo González (1871) che promulgò alcune riforme nei settori educativo e bancario, annunciando una riforma agraria mai effettivamente portata a termine. Nel 1885 un nuovo levantamiento, appoggiato dal Guatemala, portò alla presidenza Francisco Menéndez, sotto il cui mandato fu approvata la nuova Costituzione. Il suo successore Ezeta (1890-1891) applicò qualche moderata riforma sociale, che interessò principalmente i salari dei lavoratori urbani. Nel 1895 il presidente Gutiérrez appoggiò la proposta di costituzione dell'unione del Centro America, ma il suo successore Regalado disconobbe il patto già nel 1898, inaugurando una nuova stagione di scontri che si sarebbe conclusa solo nel 1906 con la pace tra El Salvador e Guatemala, ottenuta grazie anche all'impegno diplomatico di Washington. Centrale in questo caso erano risultate le pressioni dei produttori alimentari statunitensi, interessati a dar maggior stabilità alla regione, così da favorire la sicurezza degli investimenti stranieri, in particolare per quanto concerneva l'emergente industria bananiera dell'Honduras e del Nicaragua e quella del caffè di El Salvador e Guatemala.

La Repubblica "cafetalera"

Fu proprio nell'ultimo ventennio del secolo XIX, durante la grave crisi economico-finanziaria che colpì la regione centroamericana, che cominciò ad intensificarsi in maniera sempre più radicale il ruolo delle compagnie commerciali straniere ed il legame di queste con le élite al potere. Fu questa la stagione che gli storici hanno ribattezzato anche come l'età delle Repúblicas bananeras o, per restare al caso salvadoregno, della República cafetalera, il cui tratto dominante era contrassegnato da una sorta di tacito accordo tra i detentori del potere locali, esercito ed investitori stranieri. In questo senso un ruolo dirompente fu svolto in El Salvador dalla rapida diffusione, tra la fine dell'Ottocento ed i primi decenni del Novecento, del caffè, tipica coltura d'esportazione (passato in pochi anni, dal 1882 al 1910, a coprire oltre il 35% delle esportazioni, per toccare addirittura l'85% nel 1929). Questo processo economico accentuava notevolmente la dicotomia tra colture destinate ai mercati stranieri e colture di sussistenza, per il consumo locale, aggravando la situazione di dipendenza in cui si trovavano i contadini, duramente investiti dal processo di spoliazione dei terreni, ma anche contribuendo ad aumentare la specificità di El Salvador nel contesto centroamericano. L'assenza infatti di una posizione egemone di enormi potentati monopolistici stranieri, come la Standard Fruit o la United Fruit Company, in grado di orientare l'intero sistema politico nazionale verso la priorità dei propri interessi (si pensi al caso guatemalteco o, in termini diversi, honduregno) si legava proprio alla predominanza della coltura del caffè. Questa, per la sua particolare eterogeneità (il caffè si poteva coltivare in fincas di un ettaro così come in grandi latifondi di 25 chilometri quadrati) permise infatti un significativo consolidamento dell'oligarchia terriera, allargandone però al contempo il bacino di inclusione e il raggio d'azione ben oltre le famose "14 famiglie", grazie al dinamismo (parzialmente inedito nel contesto centroamericano) di molti piccoli e medi imprenditori e ad una serie di efficaci programmi di reinvestimento locale. Questo processo di cambiamento socio-economico, basato essenzialmente sul dualismo microfondi-medie-grandi piantagioni di caffè, pur modificando significativamente i caratteri dell'oligarchia nazionale, in assenza di riforme agrarie e di una solida classe media, non permise però una diffusa redistribuzione dei proventi del boom cafetalero né una diminuzione della polarizzazione della ricchezza. Nemmeno la riforma del salario minimo rurale, approvata dal governo Rivera, riuscì a sollevare dallo stato di miseria le famiglie contadine, sempre più vittime di complessi processi d'indebitamento e costrette a contare sul minifondo e sui prodotti dell'agricoltura di sussistenza (ancora una volta la milpa). Insieme ai capitali stranieri e a nuovi canali d'immigrazione europea (anche italiana) giunsero nel paese in quella stagione anche inediti investimenti in infrastrutture, benché rigidamente orientate al mercato d'esportazione, come dimostra l'esperienza della ferrovia panamericana, che tagliava le regioni dell'istmo (il '14 fu l'anno del varo del canale di Panama), così da rifornire i porti della regione. Il fenomeno d'intensivo sfruttamento commerciale delle risorse nazionali non solo contribuì a produrre una serie di importanti trasformazioni socio-economiche (a cominciare dal processo d'urbanizzazione), ma in assenza di efficace politiche pubbliche e bancarie, si accompagnò paradossalmente al progressivo indebitamento estero del paese.

Tra crisi e riforme mancate: il consolidamento di un sistema autoritario

Nel 1913, mentre la S. Sede procedeva a un drastico riassetto della mappa ecclesiastica della regione (in El Salvador, instaurata la Provincia ecclesiastica, nascevano le diocesi di San Miguel e Santa Ana, mentre San Salvador veniva elevata al rango di arcidiocesi), salì al potere la dinastia Meléndez-Quiñones, che governò con metodi dittatoriali fino al 1927, quando il nuovo presidente Romero Bosque, pur non abbandonando una politica autoritaria, concesse una serie di libertà formali. Negli anni Venti infatti, sulla scia anche della ricostruzione "socialista" del Messico postrivoluzionario e della resistenza "antigringa" di Cesar S. Sandino in Nicaragua, iniziarono a costituirsi i primi organismi sindacali (del 1924 è la Federazione regionale dei lavoratori). In particolare El Salvador subì forti contraccolpi dall'esplosione della crisi del '29 che scosse il sistema produttivo-distributivo degli Usa e dei suoi principali partner economici nella regione centroamericana; con il drastico abbassamento della domanda di prodotti agricoli, le rendite legate alla produzione di caffè (crollata in pochi mesi di oltre il 30%) subirono infatti un immediato contraccolpo e molti contadini, braccianti e cortaleros di caffè restarono senza lavoro e privi di altre forme di introito garantito. Le tensioni sociali cominciarono allora ad assumere una forma sempre più marcatamente politica, anche a seguito dell'attivismo del nuovo Partito Comunista, approdato nel paese nel 1931. In quello stesso anno venne eletto presidente della Repubblica Araujo, che aveva condotto una campagna elettorale in favore della riforma agraria, della ripartizione delle terre (si proponeva di introdurre un modello di ejido come quello utilizzato da Obregón in Messico dieci anni prima) e della lotta alla disoccupazione. Al culmine della tensione sociale e, entrò quindi in scena un attore parzialmente nuovo per gli equilibri politici interni salvadoregni: l'esercito. Un golpe militare fu orchestrato dal generale Maximiliano Hernández Martínez, che rovesciò il governo civile e attuò una durissima repressione delle agitazioni popolari. Questa sarebbe culminata nel impressionante massacro di migliaia di contadini (i bilanci redatti dagli storici variano da un minimo di 13.000 a un massimo di 31.000 vittime, nell'arco di pochi mesi), principalmente delle regioni occidentali produttrici di caffè, noto anche come la matanza de los comunistas. Alle rivolte di natura politico-sindacale e campesina (guidate rispettivamente dal leader della sinistra Farabundo Martí e dall'esponente sindacale Francisco Sánchez), si erano infatti aggiunte in questa particolare congiuntura le contestazioni di gruppi indigeni (coordinati dal nauhatleco Feliciano Ama) e studenteschi (con Alfonso Luna) e proprio questa particolare miscela aveva suscitato più di una preoccupazione nei vertici dell'esercito e dell'oligarchia salvadoregna. Hernández Martínez, acclamato dalla classe dirigente come il "salvatore della patria", instaurò allora un regime dittatoriale, che durò fino al 1944. Nonostante l'irrigidimento politico e l'eliminazione di qualsiasi forma di dissidenza e possibile centralina di agitazione sociale, grazie anche alla significativa ripresa della domanda di caffè e altri prodotti tropicali, nella seconda metà degli anni Trenta, il paese conobbe una stagione di stabilizzazione economica, durante la quale si costituì un sistema bancario nazionale (1934) e venne varata una legge agraria (1942) che non risolse comunque la questione terriera. Seguì una breve stagione di governi più liberali, in linea con gli interessi della nascente, seppur ristretta, borghesia, una delle poche in America centrale che, almeno in questa particolare fase storica, preferì investire nell'industria nazionale anziché esportare i capitali all'estero. Nel 1948 un nuovo colpo di stato militare depose il presidente Castaneda. Il colonnello Osorio, fondò in quello stesso anno del Partido Revolucionario de Unidad Democrática (Prud), ispirato al messicano Pri e nel 1950, l'anno del varo della nuova Costituzione, ottenne la presidenza. Grazie anche allo stabilizzarsi della situazione centroamericana nei nuovi equilibri della guerra fredda (nel 1954 il generale Castillo Armas rovesciò con un golpe, sostenuto da Washington, il presidente riformista Arbénz) proseguì il processo di "modernizzazione dall'alto" sulla base dello stretto legame tra forze armate e oligarchia. In quella stagione El Salvador conobbe un graduale sviluppo economico, favorito dalla crescita della piccola industria e dall'aumento del prezzo internazionale del caffè, senza però che si registrassero significativi progressi sul fronte della libertà politica, né tantomeno della redistribuzione sociale. Nella seconda metà degli anni '50, il presidente Lemus non osteggiò in un primo tempo il risorgere di organizzazioni democratiche, sindacali (la Confederación General de Sindicatos Slavadoreños, Cgss, nel 1958) e della società civile; quando poi tentò invano di reprimerle, nel 1960, un anno dopo il successo della rivoluzione castrista a Cuba, in un contesto socio-culturale e politico ormai in ebollizione in tutta la regione, dovette lasciare il potere ad una giunta militare di ispirazione progressista che tentò di avviare un effimero esperimento riformista.

La democrazia monopartitica e i segni della crisi

L'esperimento di riformismo "dall'alto" (ispirato a modelli di terzomondismo autoritario come quello peruviano), fu però destinato a durare ben poco. Un altro contro-golpe dell'esercito, riportò infatti già nel 1961 El Salvador sulla strada del conservatorismo, proprio mentre, nell'ambito della kennedyana "Alleanza per il progresso" si ricominciava seriamente a discutere un progetto di integrazione economica centroamericana che proprio quell'anno si concretizzò nella creazione di un'area di libero-scambio ribattezzata Mercomunca. Sul fronte politico interno, mentre a San Salvador si instaurava una sorta di "democrazia monopartitica", con presidenti espressi dal Partito de Conciliación Nacional (Pcn), nato da una costola del Prud e gradito ai vertici delle forze armate, nella stagione kennediana si registrò una significativa serie di fermenti socio-politici e sul fronte delle mobilitazioni popolari. Il processo di riorganizzazione messo in moto in seno sia alla sinistra che ai cattolici diede infatti vita negli anni Sessanta al sindacato Unoc e a nuovi movimenti politici come il Partito Demócrata-Cristiano (Pdc), la Unión Democrática Nacional (Udn) d'ispirazione comunista e il Movimento Nacional Revolucionario (Mnr), socialdemocratico che misero in crisi l'egemonia del Pcn. Ancora nel 1969 si sarebbe formata la Federación Cristiana de Campesinos Salvadoreños (Feccas). La seconda metà degli anni '60, nonostante lo stallo istituzionale manifestatosi durante il governo Rivera , in una buona congiuntura economica (il Pil andava crescendo con una media del 4,8% annuo) fu all'insegna di significativi mutamenti sociali, culturali e politici che investirono non solo il mondo sindacale, studentesco e della società civile ma anche la chiesa salvadoregna nella sua complessità. Se la nascita di nuove diocesi (San Vicente nel 1943 e Santiago de Maria nel 1954) aveva aumentato la collegialità della Conferenza episcopale salvadoregna, i segnali di più significativo rinnovamento venivano allora dalla cosiddetta "chiesa popolare", in linea con i fermenti postconciliari metabolizzati a Medellín nella II Conferenza del Celam (Episcopato latinoamericano) del 1968. La cosiddetta teologia della liberazione avrebbe infatti trovato diversi interpreti sensibili nella realtà salvadoregna, sia sul fronte del clero regolare (i gesuiti, attraverso l'Universidad Centroamericana - Uca - e con la proposta di "inculturazione del Vangelo" di Ignacio Ellacuria e Jon Sobrino, ma anche i passionisti a Santiago de Maria e molti preti-operai e preti-contadini affascinati dai documenti di Melgar e Medellín sulla opción por los pobres), sia su quello delle "comunità ecclesiali di base". Queste erano sorte in diverse realtà rurali del paese e della periferia della capitale spesso sovrapponendosi a preesistenti forme di tutela e difesa della religiosità e della dimensione sociale della comunità di villaggio. Queste organizzazioni popolari, molte volte in difficoltà nell'instaurare un dialogo con la gerarchia ecclesiastica, non si limitavano ad un'attività eminentemente religiosa ma consideravano necessaria una coscientizzazione sociale e politica che partisse dal basso e valorizzasse la dimensione comunitaria del mondo rurale ma anche in un contesto urbano e non è un caso che le Ceb si sarebbero trasformate in un "laboratorio della contestazione". Il tema della rivendicazione dei diritti socio-culturali ed economici divenne spesso un canale di dialogo con altre organizzazioni popolari nate in seno alla sinistra sindacale e politica, proprio mentre alcuni piccoli gruppi (minoritari) andavano raccogliendo e rielaborando la proposta del foquismo guevarista intorno all'ipotesi di una possibile sollevazione armata. La tensione interna generata dal radicalizzarsi delle forze sociali, cristiane e di sinistra, spinse il governo a rispondere con un crescente irrigidimento dell'indole autoritaria e l'oligarchia a fare un uso sempre più spregiudicato di gruppi paramilitari attivi nelle campagne (su tutti il famigerato Orden costituitosi già nel 1966). La scelta dell'irrigidimento invece di affrontare riforme e di tentare di "governare" le trasformazioni del paese avrebbe presto accelerato la spirale della violenza. La polarizzazione sociale e politica crebbe d'intensità alla fine del decennio, proprio mentre si riaccendeva la crisi anche nel vicino Guatemala e a fronte del progressivo sgretolarsi del progetto d'integrazione regionale (cui indubbiamente le amministrazioni Johnson e Nixon non credettero così come aveva fatto J. F. Kennedy). La crisi del Mercomunca si associò alla crescente tensione tra El Salvador e Honduras, culminata nel 1969, durante la presidenza del colonnello Sánchez Hernández, in una breve quanto sanguinosa guerra (nota anche come la guerra de las cien horas o la guerra del fútbol, dal momento che esplose dopo una serie di incidenti tra opposte tifoserie durante le partite di qualificazione ai mondiali di calcio), che pose fine di fatto all'area di libero-scambio. Militarmente il conflitto si risolse con una netta vittoria dell'esercito salvadoregno che oltrepassò il confine di Chalatenango e inflisse una dura lezione militare ai vicini, ma la vittoria rappresentò un boomerang per il paese. Non solo la fine del mercato comune fece perdere all'industria salvadoregna il suo ruolo di esportatore regionale di manufatti (il Mercomunca assorbiva ormai il 40% dei prodotti nazionali) ma il rientro forzato e improvviso di oltre 150.000 salvadoregni, da tempo insediati in Honduras con attività redditizie, provocò una serie di ripercussioni sociali e contribuí a un'immediata impennata del tasso di disoccupazione. Tra rivendicazioni politiche e tensioni sociali, con un debito estero quadruplicatosi nel corso dell'ultimo decennio, la decade dei '70 iniziò così in modo assai burrascoso e sarebbe stata destinata a finire in maniera ancor più traumatica e violenta con lo scoppio della guerra civile, alla fine di una stagione segnata da un crescente dinamismo delle organizzazioni popolari e dal radicalizzarsi della repressione. La mediazione dell'Organizzazione degli Stati Americani che aveva posto fine alla guerra con l'Honduras non servì infatti ad aprire un effettivo processo di dialogo interno e nel 1972 la situazione sembrò precipitare. Grande agitazione seguì infatti alla contestatissima vittoria alle presidenziali del colonnello Arturo Molina, del Pcn, che sconfisse il leader dell'opposizione, riunitasi per l'occasione nella Unión Nacional Opositora (Uno), il democristiano José Napoleón Duarte, solo grazie a una consultazione elettorale palesemente irregolare. All'indomani dell'insediamento, Molina dovette sventare, con il supporto degli "uomini forti" dei vicini Guatemala e Nicaragua, Arana Osorio e Anastasio Somoza, un tentativo di golpe da parte di una frangia riformista dell'esercito e diede il via a una vera e propria campagna di persecuzione dell'opposizione che aveva come principali obiettivi Duarte (arrestato, torturato e poi espulso dal paese) e il leader socialdemocratico Guillermo Ungo. In una fase di crescente polarizzazione, segnata dal fallimento del Plan de desarollo nacional varato nel 1973 con lo scopo di riattivare investimenti stranieri e di calmare le tensioni grazie a una riduzione della disoccupazione, ma che fallì proprio per l'assenza di una riforma agraria (ostacolata da un'oligarchia terriera sempre più preoccupata dalle agitazioni di campesinos sempre più "sin tierra" e dalle fluttuazioni del prezzo del caffè), il governo si trovò ad affrontare crescenti difficoltà. Questo produsse un radicale irrigidimento dell'élite al potere, uscita economicamente rafforzata dal decennio precedente e sempre più disposta a dialogare con formazioni di estrema destra quali il Frente Agrario de la Región Oriental (Faro) o la Unión Guerriera Blanca (Ugb), ispirate da un viscerale anticomunismo e odio per l'azione delle ceb e di movimenti popolari. Dall'altra parte si riorganizzarono le opposizioni e fecero la loro comparsa le prime formazioni di guerriglia rivoluzionaria. Mentre cresceva il dinamismo di movimenti sociali quali il Bloque Popular Revolucionario (Bpr) o il Frente de Acción Popular Unificada (Fapu), con la crisi del '72 iniziarono la loro attività clandestina piccoli gruppi armati antigovernativi, quali Forze Popolari di Liberazione (Fpl), gruppo fuoriuscito dal Partito Comunista Salvadoregno organizzato dal noto attivista Salvador Carpio, le Forze armate di Resistenza Nazionale (Farn) e le Forze Armate di Liberazione (Fal), cui si sarebbe aggiunto l'Esercito Rivoluzionario del popolo (Erp). Voci critiche verso il governo si levarono, a partire dal 1975, anche da parte di esponenti della Chiesa cattolica, e in particolare dei gesuiti (ma anche dello stesso arcivescovo di San Salvador, Luís Chávez y Gonzáles, protagonista nei primi anni '70 di una coraggiosa e a suo modo inedita azione pastorale) preoccupati da una questione sociale sempre più accesa (accelerata anche dal boom demografico), specie nelle campagne. La tensione crebbe ulteriormente con l'avvento al potere del generale Carlos Humberto Romero, salito alla presidenza nel 1977 in seguito ad elezioni ancora una volta fraudolente (nonostante nella Uno fosse entrato anche un partito il Movimiento Unitario Nacional, fondato dai militari riformisti) e disposto a ristabilire l'ordine con qualsiasi mezzo a sua disposizione. Il triennio 1977-1979 fu segnato in effetti da una costante escalation delle violenze (spesso ad opera della Policia de hacienda e della Guardia Nacional) che colpirono in particolare contadini ma anche membri delle comunità di base, delle organizzazioni sindacali e dello stesso clero, accusati dall'estrema destra di simpatizzare con la guerriglia, mentre alcuni rappresentanti dell'oligarchia venivano rapiti e giustiziati dai gruppi ribelli. Al culmine della crisi e dello stallo politico, il generale Romero fu deposto nell'ottobre del 1979 da un golpe orchestrato da alcuni giovani ufficiali, riuniti nel movimento 2Mr, che diedero vita ad una giunta rivoluzionaria. Pochi mesi prima (in luglio) il Centroamerica era tornato nell'occhio del ciclone, apprestandosi a vivere la stagione della "nuova guerra fredda", in concomitanza con la vittoria sandinista nel vicino Nicaragua. Si apriva allora una delle stagioni più turbolente e drammatiche per la storia del Salvador.

Una terribile guerra civile

La nuova giunta insediatasi nel 1979 in un primo momento lasciò intravedere una possibile svolta di tipo "riformista", impegnandosi nella organizzazione di "libere" elezioni e promettendo di svolgere un ruolo di pacificazione e riforma sociale (tra i membri civili della nuova giunta vi era anche il rettore della Uca, Román Mayorga e il socialdemocratico Ungo). In realtà il progetto di "democratizzazione" dall'alto (seguito con interesse anche dall'ambasciatore statunitense Robert White) che aveva tra i suoi obiettivi la convocazione di libere elezioni e il vero della riforma agraria non fece nemmeno in tempo a iniziare. Mentre non s'interrompevano le violenze, nella nuova giunta il partito della "repressione" ebbe infatti rapidamente la meglio sulla componente riformista guidata dal colonnello Adolfo Majano, ostacolato del colonnello Abdul Gutiérrez e del ministro della difesa García. Nel gennaio del 1980 fu quindi nominata una seconda giunta rivoluzionaria, marcatamente schierata su posizioni di estrema destra, in linea con le idee dell'ala più anticomunista ispirata dal generale in pensione Alberto Medrano (l'ideatore delle milizie paramilitari di Orden), dal maggiore Roberto d'Aubuisson, già attivo nei servizi segreti ed esperto delle tecniche antiguerriglia, e da un ex comandante della Guardia Nacional, Ramón Alvarenga. Particolarmente contraddittoria apparve la decisione della Democrazia cristiana (prima con Antonio Morales Ehrlich ed Héctor Dada Hirezi, poi ritiratosi, cui sarebbe presto subentrato José Napoleón Duarte) di appoggiare la giunta, nonostante l'imponente manifestazione anti-governativa di 250.000 persone, nella capitale del 22 gennaio. La scelta fu giustificata con la necessità di svolgere un ruolo di moderazione ma contestata come "irresponsabile" da molti dirigenti del partito che preferirono dimettersi, darsi all'esilio o aderire alla scissione promossa da Mario Zamora, freddato da uno squadrone della morte mentre tentava il lancio di un nuovo movimento politico cristiano. Tra questi vi fu anche la responsabile della Commissione per i diritti umani dell'arcidiocesi di San Salvador, Marianela García Villas, che di lì a tre anni sarebbe stata uccisa da uno "squadrone della morte" per la sua attività di denuncia delle violenze contro i campesinos nell'ambito della Commissione dei diritti umani dell'arcidiocesi. Alla linea dura imposta dai gruppi di estrema destra che fiancheggiavano la nuova giunta, segnata dall'incremento esponenziale di "eliminazioni" mirate, rapimenti e torture, secondo il modello argentino, la guerriglia rispose "alzando il tiro" della propria azione e serrando le proprie fila - in ottobre cinque diversi gruppi avrebbero dato vita al Frente de Liberación Nacional Farabundo Martí (Fmln) - e stringendo i legami con il vicino Nicaragua. Proprio mentre negli Usa il repubblicano Ronald Reagan nella sua campagna elettorale accusava il più moderato Carter di eccessiva debolezza in Centroamerica, la situazione salvadoregna precipitava dunque da uno stato di "crisi permanente" a quello di aperta guerra civile. Un ulteriore segnale di questa escalation venne, il 24 marzo del 1980, dall'uccisione, mentre celebrava la messa nella cappella di un ospedale, dell'arcivescovo di San Salvador, Oscar Arnulfo Romero. Questi, pur venendo da una formazione conservatrice che lo aveva visto estraneo al processo di penetrazione della teologia della liberazione nel paese, da quando aveva assunto la guida dell'arcidiocesi della capitale (nel febbraio del 1977) si era impegnato direttamente in azioni di sostegno alle classi più disagiate. A queste aveva accompagnato una coraggiosa denuncia delle violazioni dei diritti umani perpetrate dall'esercito, e una condanna generale dell'uso della violenza che si traduceva in un accorato appello alla riconciliazione e alla giustizia sociale, espresso attraverso le sue omelie, la sua azione pastorale e l'attività della radio diocesana Ysax, della Commissione diritti umani e del Socorro Jurídico. L'azione di denuncia di Romero culminò in una lettera aperta scritta al presidente Carter, nel noto vibrante discorso all'università di Lovanio del 1979 (che gli concesse una laurea ad honorem) e nell'ultimo famoso e tragico appello ai militari a "disobbedire". L'uccisione del vescovo, l'eliminazione di preti socialmente impegnati (a cominciare dal parroco di Aguilares, padre Rutilio Grande, nel 1977) e il massacro di centinaia di catechisti nei villaggi, oltre che di migliaia di membri laici delle comunità di base, diede il segno del coinvolgimento della Chiesa salvadoregna nel processo di riforma sociale (nonostante la decisa contrarietà dei settori più conservatori guidati dal vescovo di San Vicente, Aparicio y Quintanilla). Emblematico fu il famigerato motto coniato fin dal 1977 da alcuni gruppi di estrema destra: "Haga patria, mate un cura". Tutto ciò in una fase in cui, dopo la conferenza di Puebla del 1979 (la III del Celam) e sotto la spinta dell'avanzata delle sette neo-protestanti, prendeva il via un processo di "depoliticizzazione" del fenomeno della teologia della liberazione e di mutamento delle linee generali di azione sociale ed ecclesiale nelle periferie dell'America latina. L'omicidio di Romero (oggi considerato in molti settori della società salvadoregna alla stregua di un vero e proprio "santo popolare") ed il successivo massacro di numerosi manifestanti asserragliatisi nella cattedrale in occasione dei suoi funerali, pur dando un certo risalto internazionale alla grave crisi del Salvador, non sbloccò la situazione. Questo fu anzi il preludio alla stagione della guerra civile. Nonostante il tentativo di varare una riforma agraria promosso dalla giunta dal marzo 1980 (a che si sarebbe dovuto strutturare in tre fasi, ridistribuendo le terre, prima degli appezzamenti superiori ai 500 ettari, poi di quelli intermedi, di cui facevano parte le fincas del caffè, poi in base a un programma concordato con l'esperto statunitense Roy Posterman e mai effettivamente attuato) la situazione degenerò ulteriormente. Due mesi dopo l'uccisione dell'arcivescovo il governo dichiarò lo Stato d'assedio e la violenza crebbe d'intensità con un'escalation impressionante. Il biennio 1980-1981 fu segnato da una serie continua di violenze efferate, dal tristemente noto massacro di Morazán (in cui persero la vita circa 3.000 contadini) al brutale assassinio di tre suore e un religioso statunitensi che spinse Carter, preoccupato dalla questione dei diritti umani, a sospendere gli aiuti militari a El Salvador (linea di lì a poco ribaltata dal suo successore Reagan). Fu infatti soprattutto il nuovo interventismo statunitense nella regione, insieme all'avvicinamento dei gruppi ribelli a Cuba e Nicaragua (e indirettamente a Mosca), a dare una dimensione inedita alle crisi centroamericane. La linea rigidamente anticomunista assunta dall'amministrazione Reagan, fautore della rilancio della lotta contro "l'impero del male", apparve in sintonia con la dichiarazione del generale Haig del marzo del 1981 davanti alla Commissione Esteri della Camera, con cui denunciò un "piano sovietico per conquistare il Centroamerica", chiedendo un investimento di 6,5 miliardi dollari per la sicurezza regionale. Indubbiamente importanti furono le iniezioni statunitensi (principalmente attraverso la Usaid) a sostegno dell'economia salvadoregna che puntavano a contenere un ulteriore inasprimento sociale. Una significativa parte degli aiuti statunitensi ai regimi "amici" come El Salvador e Guatemala, fu però utilizzata anche nell'ambito dell'operazione "Bacino dei Carabi", o a sostegno dei ribelli antisandinisti contras, diretti dall'ex addetto militare di Somoza, Enrique Bermúdez, contribuirono infatti a una rapida militarizzazione della regione. In particolare l'appoggio ai contras (definiti dallo stesso Reagan "combattenti per la libertà"), che ebbero la loro base logistica e di addestramento in Honduras (dove i consiglieri militari statunitensi arrivarono ad essere anche quasi 3.000), sostenuto attraverso complesse covert operations della Cia, così come l'interventismo indiretto (si voleva ad ogni costo evitare una escalation di tipo vietnamita) nella guerra civile salvadoregna, avrebbe sollevato diverse proteste nell'opinione pubblica statunitense. Nel caso salvadoregno, particolare scalpore suscitarono le denunce fatte da alcuni giornalisti degli effetti della cosiddetta operazione "sandwich", concordata tra truppe salvadoregne e honduregne lungo il confine di Chalatenango allo scopo di contenere l'avanzata del Fmln (che nel 1981 lanció quella che ribattezzò ofensiva final) e di eliminare le basi popolari della sua resistenza; questa nel marzo del 1981 produsse i bombardamenti del Río Lempa e in dicembre si concluse con il massacro di oltre 700 persone, oppositori politici ma in prevalenza donne e bambini, a El Mozote. Gli scontri armati tra esercito e guerriglia e le scorrerie dei gruppi paramilitari sarebbero continuati con alterne fortune per oltre un decennio, spesso mescolandosi a omicidi politici di membri delle cooperative interessate dai repartimientos de tierra e a regolamenti di conti personali, facendo precipitare il paese in una situazione drammatica sia sul fronte dei diritti umani (per l'uso spregiudicato di tecniche volte a terrorizzare la popolazione civile), che per la stagnazione economica (accelerata dall'impennata del prezzo del petrolio) che bloccò il paese dopo i timidi progressi economici registrati negli anni Sessanta-Settanta (tra il gennaio del 1980 e il dicembre del 1982 il Pil crollò del 25%).

Verso la guerra a "baja intensidad"

Sul fronte politico, dopo lunghe e faticose trattative con i militari, condotte da Duarte, dal dicembre del 1980 alla testa di un "governo di unità nazionale" provvisorio, si iniziarono quindi a cercare soluzioni politiche alla guerra. Duarte si dichiarò disposto ad aprire un dialogo con il Fronte democratico rivoluzionario (Fdr) di Ungo e affidò ad una speciale commissione il compito di elaborare una normativa per eleggere, entro il 1982, un'Assemblea costituente. Questa veniva fortemente richiesta anche dalla stessa amministrazione statunitense, preoccupata dalle crescenti critiche internazionali al suo operato nella regione, culminate nella chiusura di diverse sedi diplomatiche e in alcune eclatanti denunce. Le elezioni dell'Assemblea, nel marzo del 1982, si svolsero però ancora in un clima di violenza diffusa (si calcola per quei mesi una media di 200 omicidi politici alla settimana) e sotto i colpi della nuova veemente offensiva del Fmln, ribattezzata campaña de marzo. Alla fine Ungo non partecipò al voto, trasferendosi in Messico e cercò di tener viva l'attenzione politica intorno alla questione salvadoregna, interpellando il presidente dell'Internazionale Socialista W. Brandt, perché svolgesse una mediazione. La Democrazia Cristiana di Duarte, con il 40,2% dei voti, conquistò la maggioranza relativa, che non fu però sufficiente per governare, per l'avanzata dei partiti di estrema destra a cominciare dalla neonata Alianza Republicana Nacionalista (Arena), fondata dallo stesso D'Abuisson che ottenne un sorprendente 29,3%, conquistando anche molti voti popolari. Caduta l'ipotesi di candidare alla presidenza il leader spirituale di Arena, giudicato "improponibile" da Washington, la guida del paese passò al più moderato Magaña (eletto anche con i voti del Partito di Conciliazione Nazionale) e nel dicembre 1983 fu approvata la nuova Costituzione. Nonostante gli sforzi del nuovo presidente per offrire un immagine di democraticità del paese, le pressioni della comunità internazionale su El Salvador si intensificarono, grazie anche alle denunce provenienti da personalità salvadoregne, tra cui anche il nuovo arcivescovo di San Salvador Rivera y Damas. Tra il 1983 e il 1984, nonostante qualche timida proposta di pace, l'offensiva del Fmln, ispirato sia all'esperienza sandinista che al prototipo castrista, non sembrava sul punto di esaurirsi (in autunno grande risonanza ebbero l'attacco alla base di El Paraíso, l'avanzata nella regione del Bajo Lempa e la distruzione del ponte di Cuzcatlan e l'uccisione dell'ufficiale statunitense Albert Schaufelberg). Dal canto suo, grazie anche agli aiuti militari statunitensi (che fecero in quel periodo del piccolo El Salvador il quarto beneficiario in assoluto di Washington), l'esercito poté però riorganizzarsi. A metà anni '80 iniziò quindi la stagione della cosiddetta "guerra a bassa intensità", segnata da una guerriglia endemica, attentati, rapimenti e rappresaglie e da un tentativo di far terra bruciata del sostegno popolare alle forze guerrigliere, specie nei villaggi e nelle comunità contadine, attraverso un'azione che doveva essere civile e militare insieme. In questo contesto maturò il progetto di ritorno alla democrazia formale, benché rigidamente "protetta". Nel marzo del 1984 si tennero quindi delicate elezioni presidenziali che pur confermando la vittoria di Duarte su D'Aubuisson, non diedero la maggioranza assoluta a nessuno dei due candidati e vennero ripetute nel maggio dello stesso anno. Il ballottaggio per l'elezione presidenziale fu quindi vinto da Duarte, col 53,6% dei voti e pose le basi per una possibile ripresa di negoziati diplomatici. La "guerra a bassa intensità" non interruppe certo le violenze e il dinamismo degli "squadroni della morte" ma ridimensionò la portata degli scontri. Mentre nel paese riprendeva la mobilitazione civile (nel 1985 nella sola San Salvador si registrarono 65 scioperi e l'anno successivo diverse sigle sindacali si riunirono nel Sindicato Unitario Nacional Trabajadores Salvadoreños), la distanza tra la parti sembrava ancora troppo ampia per avviare un'azione negoziale. Nel 1985 alcune cellule del Fmln (a sua volta impegnato a mantenere l'unità delle forze guerrigliere) si resero protagoniste di altre azioni eclatanti come l'uccisione del generale Medrano (l'ideatore di Orden) e il rapimento della figlia di Duarte, Inés Durán, il quale fu criticato dai vertici militari per aver ceduto alle richieste della guerriglia (con la liberazione di 22 prigionieri politici). Mentre circolavano voci di un nuovo possibile golpe militare, la situazione socio-economica del paese, scosso ormai da sei anni di guerra civile e investito nell'ottobre da un violento terremoto (che provocò oltre 1.000 vittime e danneggiò oltre 250.000 persone), si faceva sempre più critica. La disoccupazione era ormai alle stelle (vicina al 75% della popolazione attiva) e si accompagnava un aumento incontrollato dei processi di migrazione, sia internazionale che interna. Questa era effetto anche dello sfollamento dei contadini, in fuga dalle operazioni di guerra, causate dalle operazioni tierra arrasada , che miravano a staccare la popolazione rurale dalla guerriglia (el poder popular) e da una serie di altri massacri e violenze, culminate nell'Operativo Fénix, le operazioni militari che investirono la montagna di Guazapa agli inizi del 1986. A fine dell'anno calcolavano 745.000 salvadoregni espatriati per sfuggire al conflitto e almeno 500.000 rifugiati interni, i quali cominciarono a organizzarsi in associazioni come Cripdes e a chiedere di poter tornare nei loro villaggi d'origine. Solo a partire dal 1987, con il trattato di pace di Esquipulas II, sottoscritto dai leader dei paesi centroamericani, grazie ai progressi del lavoro diplomatico del gruppo di Contadora (iniziativa negoziale promossa fin dal 1983 dai presidenti di Messico, Venezuela, Colombia e Panama), e alle pressioni delle associazioni internazionali per i diritti umani, dell'Onu e dell'Ue, si aprirono effettivi spiragli di dialogo. Questi si collocavano sullo sfondo dell'allentamento della "nuova guerra fredda" nella seconda metà degli anni Ottanta. L'apertura di un esile filo di dialogo e i diversi tentativi di normalizzazione (anche la Chiesa cercò di riassestare la propria presenza aprendo nuove diocesi - Sonsonate, Chalatenango e Zacatecoluca - e ridefinendo i propri rapporti con le autorità politiche) non impedì però una recrudescenza degli scontri, accelerata dalla vittoria nelle legislative del marzo del 1988, del partito Arena, sul Pdc di uno stanco Duarte. Il Fmln annunciò dunque la ripresa della guerriglia, sospesa dopo il terremoto e poi solo parzialmente ripresa nel corso del 1987, anno che vide riemergere una serie di divisioni in seno al movimento (dovute principalmente al dinamismo dell'Erp), proprio mentre le opposizioni di centro sinistra, il Mnr di Ungo, il Partito Social-Cristiano (nato su iniziativa di Rubén Zamora che riunì molti "esuli" del Pdc) e i socialdemocratici davano vita alla coalizione Convergencia Democrática (Cd). La tensione politica si riacutizzò poi nella seconda metà del 1988 in concomitanza con l'avvio a campagna per le presidenziali del marzo 1989. Queste portarono alla guida del paese il candidato di Arena, Cristiani, che trionfò sia sul candidato democristiano sia su Cd, anche se la percentuale di astenuti, vicina al 50%, indicava la persistenza della polarizzazione politica, in un paese ancora significativamente diviso in due. Dopo alcuni mesi interlocutori, la violenza si riaccese in autunno con l'improvvisa irruzione del Fmln nella capitale e una serie di rappresaglie militari tra cui l'uccisione da parte di un gruppo scelto dell'esercito di sei gesuiti (tra cui Ellacuria) e due donne, nella UCA di San Salvador. Nonostante i picchi di violenza, i massacri e i desaparecidos (quasi 500, in prevalenza contadini, nel solo 1989-90), il processo negoziale prese sempre più forma e si consolidarono i gruppi e movimenti impegnati per l'ottenimento della pace. Questi decollarono finalmente con l'avvio del nuovo decennio, favoriti dal clima successivo al crollo del muro di Berlino e della fine del bipolarismo, mentre l'America centrale si apprestava a tornare alla ribalta internazionale con l'assegnazione del premio Nobel per la pace alla maya quiché Rigoberta Menchú Tum.

Il dopoguerra; tra contraddizioni e speranze

Proprio in quel 1992, l'anno di quel Nobel e delle contestate celebrazioni del cinquecentenario della "scoperta" delle Americhe, anche la guerra civile salvadoregna trovò finalmente una soluzione politica. Questa fu ottenuta dopo faticose consultazioni, con la mediazione dell'Onu, e portò alla firma degli accordi di pace di Chapultepec a Città del Messico, il 16 gennaio. Dagli accordi di pace il Fmln uscì riconvertito nel principale partito d'opposizione e mentre l'esercito veniva significativamente ridimensionato ed "escluso" dalla vita politica, la Guardia Nacional e le altre milizie paramilitari venivano smantellate. Furono quindi avviate parziali ma significative trasformazioni del sistema giuridico e venne rilanciata una divisione di poteri nelle istituzioni (in un sistema presidenziale all'americana), mentre l'Onu predisponeva una missione di monitoraggio sul rispetto degli accordi (Onusal). Sul fronte della società civile, il processo di riconciliazione nazionale passò attraverso un rilancio del movimentismo sociale che trovò canali di collegamento nel rilancio del multipartitismo e nei processi di ritorno del paese a una difficile normalità. Se in buona parte sospesa, nell'ambito del processo di riconciliazione nazionale a tappe forzate, la questione dei conti con il passato (come sarebbe emerso dal rapporto della Comisión de la Verdad Onu), molti passi avanti furono rapidamente compiuti sul fronte della redistribuzione delle terre e dei processi di reinserimento dei profughi. Iniziò allora la complessa strada della riconciliazione, dopo 12 anni di guerra che avevano colpito in particolar modo la popolazione civile, lasciando profonde lacerazioni nel modello nazionale e causando circa 80.000 vittime. Nonostante i sorprendenti progressi compiuti sulla via della normalità e l'euforia che accompagnò la fase della pacificazione, la pesante eredità di una prolungata stagione di violenze resta però un fardello pesante da cui liberarsi in una fase di nuove contraddizioni e marginalità. Il riassestamento degli equilibri politici portò nel frattempo a un significativo ridimensionamento del Pdc e al crescente dualismo tra le due principali forze partitiche del paese: Arena di destra (che non ha più perso il controllo dell'esecutivo) e Fmln di sinistra. Nell'aprile del 1994 la presidenza passò ad Armando Calderón Sol di Arena, mentre nelle elezioni amministrative del 1997 il Fmln s'impose in numerose municipalità. Sul fronte socio-economico gli anni Novanta hanno poi visto il paese adottare una serie di riforme di taglio liberista, in linea con i dettami del Fondo monetario internazionale, intensificando i rapporti economici con gli Stati Uniti da un lato e con paesi vicini come Guatemala e Honduras dall'altro. L'introduzione della dollarizzazione (il dollaro ha ottenuto corso legale nel paese a fianco del colón) nel 2001, lo sviluppo di una rete capillare di maquilas (imprese, generalmente in subappalto per conto di grandi marchi internazionali, a basso impatto tecnologico e a bassissima sindacalizzazione, generalmente attive nel settore tessile), l'effetto delle rimesse degli emigranti salvadoregni negli Usa (oltre due milioni su una popolazione di cinque milioni e mezzo di abitanti) e in Europa, hanno quindi contribuito a cambiare significativamente la struttura economica nazionale, aumentando il peso dei settori finanziari rispetto a quelli tradizionali della produzione rurale. Complessa è rimasta però la situazione sociale, sia nelle campagne che nelle periferie urbane della capitale, per effetto di fenomeni di polarizzazione socio-economica, acceleratisi nella stagione dei mercati globalizzati, così come per l'impatto dell'urbanizzazione e del calo dei prezzi sui mercati internazionali di prodotti d'esportazione quali il caffè. Questo ha infatti spinto molti investitori a spostare i propri capitali sul settore finanziario, avviando un processo di fuga di capitali parzialmente inedito per il paese, erodendo il potere d'acquisto della già fragile classe media e offrendo scarse possibilità di redistribuzione e di reinserimento delle fasce marginali. Nonostante un discreto andamento degli indici macroeconomici (tra i quali va annoverato il contenimento del debito), gravi problemi sono rimasti connessi alla fragilità del Welfare State (denunciata anche in occasione delle recenti marchas blancas organizzate dai dipendenti degli ospedali pubblici), dall'alto tasso di disoccupazione e dall'incremento della violenza e della criminalità organizzata, sempre più ramificata a livello internazionale, grazie anche al dinamismo delle nuove bande ribattezzate maras salvatruchas, attive ormai anche in altri paesi della regione. Nel 1998 un grave colpo alle speranze di ripresa economica è venuto inoltre dall'uragano Mitch che ha investito l'aerea centroamericana, provocando devastazioni e inondazioni e rovinando i raccolti, specie nelle regioni affacciate sul Pacifico, come quella attorno alla foce del Río Lempa, mentre nel 2001 El Salvador ha dovuto affrontare gli effetti devastanti di un nuovo terremoto costato la vita a circa 1.800 persone (impressionanti furono le immagini della montagna crollata a Santa Tecla che fecero all'epoca il giro del mondo). Tra il 2002 e il 2004 il governo è rimasto sempre nelle mani di Arena (prima con Francisco Flores e poi, dal 2004, con Toni Saca) che ha puntato a evidenziare il grado di rinnovamento interno, anche se il Fmln, pur spaccato al suo interno e minato da spinte centrifughe, ha mantenuto a lungo la maggioranza relativa al congresso e una sorta di predominio nelle varie elezioni amministrative, continuando a governare nella capitale (che registra oltre 2 milioni di abitanti su una popolazione totale di 5,4). In politica estera nell'ultimo quinquennio il paese ha mantenuto una linea filostatunitense ed è stato tra i più attivi sostenitori del progetto Cafta, per la creazione di un'area di libero scambio centroamericana, sulla falsariga del Nafta (che unisce Messico, Usa e Canada), approvato nel 2003; questo è stato presentato dalle autorità come un'opportunità unica di ripresa economica e criticato dalle opposizioni come possibile fonte di ulteriore aumento della polarizzazione socio-economica. Il pulgarcito de America, nonostante tutti i problemi, continua però a dimostrare una certa vivacità della propria società civile (e in particolare nelle sue organizzazioni femminili), risorsa preziosa dei paesi centroamericani, da cui ripartire per trovare un giusto legame tra riscoperta delle radici (la memoria "olvidada" in un paese con pochi musei), esigenze della riconciliazione e sfide del progresso che tengano però conto anche delle esigenze profonde e umane della giustizia sociale.


Breve Bibliografia consigliata:

Su El Salvador:


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Filmografia:

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J. Duigan, Romero, Us 1989
L. Mandoki, Voces Inocentes, México/Us 2004


(*) La definizione (letteralmente il "pollicino") - titolo di un libro dello scrittore salvadoregno Julio Enrique Ávila - viene attribuita alla nota pedagogista e poetessa cilena, Gabriela Mistral, e richiama le dimensioni del paese, grande come il Galles o la Lombardia ma collocato strategicamente al centro della regione centroamericana; dalla Mistral definito "fragile" ma anche ricco di una "violenta bellezza primordiale".


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