di
Massimo De Giuseppe
Cenni
sulla stagione precolombiana
L'attuale
territorio di El Salvador si trova nel cuore dell'antica regione
mesoamericana, compresa tra la fascia semidesertica del Messico
centro-settentrionale e la ragione tropicale dell'istmo di Panama.
Le origini antropologiche del paese risalgono all'insediamento,
in tempi diversi, di tre principali gruppi etnici: un gruppo arcaico
(chorotegas) poi dislocatosi nell'attuale Nicaragua di cui rimangono
tracce molto scarse; un gruppo di ceppo etnolinguistico maya (pocomanes),
migrato verso il Sud attorno al sec. VII; un gruppo di lingua
náhuatl, costituito da successive migrazioni, iniziate
con quella dei toltechi (sec. XI) e terminate con quelle di comunità
di principi-mercanti e coloni aztechi (sec. XV). A questo ceppo
di "conquistatori" esterni appartiene la civiltà
pipil che ebbe il suo epicentro nell'area compresa tra Nahuizalco
(dal náhuatl "quattro quetzal", nell'attuale
distretto di Sonsonate), Cuzcatlán e i vulcani che circondano
l'altipiano di San Salvador. Ai pipil di derivazione mexica, che
assunsero un ruolo dominante nel centro del paese (mantenendo
contatti intensi con la Valle del Messico), si devono poi aggiungere
altri ceppi autoctoni precolombiani, come i lenca, lungo la frontiera
con l'Honduras, nella regione di Chalatenango, e piccoli gruppi
chontal, provenienti dalla regione del Golfo e migrati dall'entroterra
tabasqueño, attraverso i grandi fiumi del Petén
(il cuore delle civiltà maya della Mesoamerica del periodo
classico). Gli abitanti del Salvador precolombiano svilupparono
una civiltà contadina articolata, sedentaria e urbana;
pur privi di animali da tiro, da sella e da carico (e non conoscendo
l'aratro), si dedicarono alla coltivazione, adattando alla fertile
terra vulcanica della regione un gran numero di colture alimentari,
tra cui mais, fagioli e zucche. In una struttura sociale in cui
le categorie erano ben differenziate (a una base comunitaria della
società contadina, riunita attorno al campo di mais, la
milpa, nella struttura comunitaria del calpulli, faceva da contraltare
un sofisticato sistema teocratico-scientifico di matrice urbana
e un dualismo di caste guerriere che riproduceva direttamente
il modello olmeco), il potere direttivo era prerogativa originaria
della classe nobiliare, che esprimeva al suo interno un leader
(per i pipil uno tlatoani, dal náhuatl, "colui che
parla") politico-militare. Uno di questi, Tutecotzmit, introdusse
una riforma istituzionale che instaurò una forma di monarchia
semi-ereditaria e rafforzò i caratteri della casta burocratico-nobiliare
con funzioni di governo. Sia quella pipil che quella pocomane
erano società agricole sedentarie, caratterizzata da un
forte legame città-campagna, di cui restano oggi purtroppo
poche vestigia archeologiche (il sito di Tazumal) ma molti elementi
culturali, custoditi nelle matrici dominanti e di resistenza socio-antropologica-religiosa
di molte comunità rurali.
Conquista
e resistenza
Nel
1524, appena quattro anni dopo la caduta della capitale dell'impero
azteco, Tenochtitlan, per mano di Hernan Cortés, prese
il via la conquista spagnola dell'attuale El Salvador. Già
due anni prima una spedizione spagnola che stava esplorando l'istmo
di Panama alla ricerca di oro attraccò sulle coste salvadoregne,
scontrandosi con le popolazioni locali. La conquista del paese
si lega però alla fama del "conquistador del Centroamerica",
Pedro de Alvarado, uno dei più stretti luogotenenti di
Cortés, penetrato in El Salvador dal Guatemala nel 1524,
subito dopo aver sedato la prima rivolta dei maya cachickueles.
Pocomanes, lencas, ma sopratutto pipil, opposero una strenua resistenza
alle spedizioni militari spagnole; queste, nonostante la superiorità
militare e tecnologica (i militari europei disponevano di cavalli,
armi in ferro e bocche da fuoco, totalmente sconosciute ai popoli
amerindi, la cui risorsa principale in guerra erano fionde, scuri
e frecce d'ossidiana), faticarono ad ottenere il controllo del
territorio e le sollevazioni continuarono anche molti anni dopo
il consolidamento della colonia, in particolare nei più
isolati "pueblos de indios" ed enclave indigene. Particolarmente
famosa divenne la resistenza di Atácatl, signore di Cuzcatlán,
che per oltre 15 anni condusse una serie di ribellioni alle pressioni
dei conquistadores, impegnati a raccogliere manodopera per il
lavoro nelle miniere e piantagioni. Nel 1525 Gonzalo de Alvarado
fondò la futura capitale San Salvador e tre anni dopo Diego
de Alvarado riuscì a ottenere una precaria pacificazione.
L'attuale territorio di El Salvador divenne quindi provincia della
capitanía general del Guatemala, nel Vicereame della Nuova
Spagna (con capitale Città del Messico) che comprendeva
tutti i territori dell'America istmica. Sotto il profilo ecclesiastico
il territorio di El Salvador fu aggregato alla diocesi guatemalteca,
eretta nel 1534. Con la dominazione spagnola, rapidamente esauritasi
la "fase dell'oro" furono quindi introdotti tutti i
tradizionali istituti coloniali, dall'encomienda (assegnazione
di terre a signori locali, secondo un sistema d'impronta feudale,
che garantiva la disponibilità di popolazione indigena
utilizzata come manodopera servile) al patronato (sistema di controllo
statale della penetrazione religiosa nel territorio). L'evangelizzazione
fu affidata in un primo tempo a frati minori, quindi a domenicani
e gesuiti, mentre la cronica scarsità del clero secolare,
concentrato nelle aree urbane, sarebbe stata una costante della
storia religiosa salvadoregna. L'introduzione dei modelli coloniali
provocò, come nel resto del vicereame della Nueva España,
una forte stratificazione sociale e una conseguente gerarchizzazione
della società che incideva pesantemente sull'elemento comunitario-rurale
indigeno. A causa della conformazione del territorio, a differenza
del vicino Guatemala (dove la particolare collocazione geografica
delle diverse etnie indigene, in particolare negli altipiani,
e la presenza del più rigido sistema di "separazione"
dei pueblo de indios domenicani, provocava un maggior "distanza"
tra comunità bianca e maya), escludendo alcune enclave
pipil, più rapido apparve il processo di "mestizaje"
del territorio. La componente puramente indigena andò infatti
riducendosi notevolmente (fino alle 300.000 unità circa
della prima metà del XX secolo), prima per effetto di malattie
ed epidemie, poi per effetto delle trasformazioni sociali, economiche
e culturali (dall'impiego del bracciantato alle emigrazioni forzate,
dal processo di evangelizzazione e hispanizzazione), mentre aumentava
il numero di meticci (oggi la gran parte della popolazione del
paese). Ciò non impediva la presenza di un classico dualismo
città/mondo rurale tipico delle colonie spagnole centroamericane
e che tanto influsso avrebbe avuto nel passaggio dall'età
moderna a quella contemporanea. Durante tutta la stagione virreynale,
le leve del potere rimasero saldamente nelle mani di una ristretta
élite spagnola prima e criolla poi (i salvadoregni di origine
spagnola). Questo provocò un processo di forte concentrazione
della ricchezza d'impronta rigidamente oligarchica, incentrato
principalmente attorno al controllo della terra ed alla formazione
di latifondi. Questi da un lato rompevano il tradizionale sistema
di gestione collettiva dei terreni, portando gradualmente ad una
divaricazione tra colture povere di sussistenza e colture da latifondo
e d'esportazione, introducendo un processo di graduale costituzione
di una vera e propria oligarchia terriera. Il tentativo di riforme
borboniche, intrapreso nell'ultima parte del '700 si scontrò
quindi con l'accresciuto potere di potentati locali e con una
chiesa poco disposta ad abbandonare i privilegi ecclesiastici
basati per due secoli dal sistema del patronato.
La
stagione postcoloniale
Il
processo di decolonizzazione del paese fu piuttosto tormentato.
Nel 1811, come in Messico, in Guatemala e nei vicini paesi centroamericani,
sull'onda dei fermenti giacobini europei, scoppiarono i primi
moti indipendentisti, animati dai criollos che intendevano porsi
nel ruolo di mediatori tra la colonia e l'autorità spagnola.
Tra questi vi erano anche esponenti del basso clero come il presbitero
José Matías Delgado, "eroe indipendentista",
protagonista di un episodio semi-scismatico nel 1822 (quando fu
nominato vescovo di una diocesi riconosciuta dagli indipendentisti
ma non ancora dalla S. Sede). La lotta per l'indipendenza esplose
infatti nel 1821; l'anno successivo El Salvador si oppose all'annessione
al Messico votata dalla giunta consultiva dell'ex capitanía,
ormai sottratta al dominio spagnolo, e, dopo aver resistito ad
un attacco delle truppe guatemalteche, fu invaso dall'esercito
messicano, guidato dall'imperatore Augustín de Iturbide.
Nel 1823 i Salvadoregni, sotto la guida di Juan Vicente Villacorta,
sconfissero le truppe messicane. Venne quindi proclamata, nel
1925, l'indipendenza della Confederazione delle Province Unite
dell'America Centrale (con Costa Rica, Guatemala, Honduras, Nicaragua),
in cui El Salvador si trovò a competere con il Guatemala
per la supremazia. La federazione fu inoltre presto agitata da
una lotta interna tra conservatori (sostenuti da esponenti della
Chiesa locale e, indirettamente, da Spagna e Gran Bretagna) e
liberali di Arce y Delgado (che, come in tutto il Centro America,
guardavano con crescente interesse al modello statunitense). Nel
1830 assunse la presidenza federale Francisco Morazán,
che avviò una politica d'impronta radicalmente liberale,
secondo il modello messicano, abolendo molti privilegi della Chiesa
(dal foro ecclesiastico alle decime), concedendo la libertà
di culto (che portò alla prime presenze di chiese protestanti
nordamericane, principalmente presbiteriane e metodiste) e favorendo
la nascita di nuovi giornali. Il nuovo contesto politico non eliminò
certo le sperequazioni sociali e anzi il tentativo di modernizzazione
forzata del settore rurale incontrò una serie di resistenze,
culminate nella ribellione indigena del 1833 dei pipil di Nonualco,
guidati da Anastasio Equino. Nel 1834 fu trasferita a San Salvador
la sede del governo federale, alle soglie di una stagione di nuove
tensioni, alimentate dalla consueta contrapposizione tra liberali
(al potere in El Salvador) e conservatori (al potere in Honduras
e Nicaragua). La Federazione centroamericana si sciolse quindi
definitivamente nel 1839, quando presero il via i lavori della
seconda Costituente e nel 1842 la S. Sede eresse formalmente a
diocesi San Salvador (vent'anni dopo l'annuncio di Delgado), staccandola
da Città del Guatemala. La ridefinizione dei confini istituzionali
ed ecclesiastici non spense però il clima di scontro che
segnava una regione sempre più caratterizzata da nuove
forme di caudillismo locale. Durante il governo del liberale Vasconcelos
(1845-1850), El Salvador dichiarò guerra al Guatemala di
Carrera, uscendone sconfitto; ne approfittò allora il reazionario
Dueñas che, ottenuta la presidenza, la difese con pugno
di ferro in una stagione (1851-1858) di crescenti pressioni esterne,
segnata dal dualismo franco-britannico nella regione (si veda
il trattato Clayton-Bulwer in vista della costruzione di un canale
nell'istmo) e dalla rocambolesca impresa dell'avventuriero statunitense
Walzer nel vicino Nicaragua. La seconda metà del secolo
XIX fu infatti una stagione particolarmente delicata per il paese,
che oltre alla lotta politica, registrava una crescente penetrazione
di capitali stranieri, in particolare connessa alla produzione
di indaco, colorante ampiamente esportato per le crescenti richieste
dell'industria tessile internazionale, trascinata dal boom della
rivoluzione industriale. Nonostante questi cambiamenti strutturali
incidessero sul sistema-nazione salvadoregno (dopo l'indaco conobbero
un forte impulso altre colture d'esportazione come il cotone,
la canna da zucchero e il cacao), la gestione del potere continuava
ad essere prerogativa di una ristretta oligarchia, che stringeva
sempre più i propri legami con finanziatori internazionali
da un lato e con l'esercito dall'altro, raggiungendo, a differenza
del Messico impegnato nelle guerras de reforma, una sorta di tacito
status quo con la Chiesa nazionale. Dal 1859 al 1864 il presidente
Barrios introdusse una serie di riforme liberali (laicismo dell'insegnamento,
separazione tra Stato e Chiesa, riforma giudiziaria), prima di
essere costretto all'esilio dalle pressioni incrociate della coalizione
Guatemala-Honduras e di una parte dell'oligarchia terriera. Il
potere tornò allora a Dueñas che impose un regime
di terrore e nel 1865 fece fucilare Barrios, consegnatogli dal
governo del Nicaragua. Dopo una nuova sollevazione, assunse quindi
il potere il maresciallo González (1871) che promulgò
alcune riforme nei settori educativo e bancario, annunciando una
riforma agraria mai effettivamente portata a termine. Nel 1885
un nuovo levantamiento, appoggiato dal Guatemala, portò
alla presidenza Francisco Menéndez, sotto il cui mandato
fu approvata la nuova Costituzione. Il suo successore Ezeta (1890-1891)
applicò qualche moderata riforma sociale, che interessò
principalmente i salari dei lavoratori urbani. Nel 1895 il presidente
Gutiérrez appoggiò la proposta di costituzione dell'unione
del Centro America, ma il suo successore Regalado disconobbe il
patto già nel 1898, inaugurando una nuova stagione di scontri
che si sarebbe conclusa solo nel 1906 con la pace tra El Salvador
e Guatemala, ottenuta grazie anche all'impegno diplomatico di
Washington. Centrale in questo caso erano risultate le pressioni
dei produttori alimentari statunitensi, interessati a dar maggior
stabilità alla regione, così da favorire la sicurezza
degli investimenti stranieri, in particolare per quanto concerneva
l'emergente industria bananiera dell'Honduras e del Nicaragua
e quella del caffè di El Salvador e Guatemala.
La
Repubblica "cafetalera"
Fu
proprio nell'ultimo ventennio del secolo XIX, durante la grave
crisi economico-finanziaria che colpì la regione centroamericana,
che cominciò ad intensificarsi in maniera sempre più
radicale il ruolo delle compagnie commerciali straniere ed il
legame di queste con le élite al potere. Fu questa la stagione
che gli storici hanno ribattezzato anche come l'età delle
Repúblicas bananeras o, per restare al caso salvadoregno,
della República cafetalera, il cui tratto dominante era
contrassegnato da una sorta di tacito accordo tra i detentori
del potere locali, esercito ed investitori stranieri. In questo
senso un ruolo dirompente fu svolto in El Salvador dalla rapida
diffusione, tra la fine dell'Ottocento ed i primi decenni del
Novecento, del caffè, tipica coltura d'esportazione (passato
in pochi anni, dal 1882 al 1910, a coprire oltre il 35% delle
esportazioni, per toccare addirittura l'85% nel 1929). Questo
processo economico accentuava notevolmente la dicotomia tra colture
destinate ai mercati stranieri e colture di sussistenza, per il
consumo locale, aggravando la situazione di dipendenza in cui
si trovavano i contadini, duramente investiti dal processo di
spoliazione dei terreni, ma anche contribuendo ad aumentare la
specificità di El Salvador nel contesto centroamericano.
L'assenza infatti di una posizione egemone di enormi potentati
monopolistici stranieri, come la Standard Fruit o la United Fruit
Company, in grado di orientare l'intero sistema politico nazionale
verso la priorità dei propri interessi (si pensi al caso
guatemalteco o, in termini diversi, honduregno) si legava proprio
alla predominanza della coltura del caffè. Questa, per
la sua particolare eterogeneità (il caffè si poteva
coltivare in fincas di un ettaro così come in grandi latifondi
di 25 chilometri quadrati) permise infatti un significativo consolidamento
dell'oligarchia terriera, allargandone però al contempo
il bacino di inclusione e il raggio d'azione ben oltre le famose
"14 famiglie", grazie al dinamismo (parzialmente inedito
nel contesto centroamericano) di molti piccoli e medi imprenditori
e ad una serie di efficaci programmi di reinvestimento locale.
Questo processo di cambiamento socio-economico, basato essenzialmente
sul dualismo microfondi-medie-grandi piantagioni di caffè,
pur modificando significativamente i caratteri dell'oligarchia
nazionale, in assenza di riforme agrarie e di una solida classe
media, non permise però una diffusa redistribuzione dei
proventi del boom cafetalero né una diminuzione della polarizzazione
della ricchezza. Nemmeno la riforma del salario minimo rurale,
approvata dal governo Rivera, riuscì a sollevare dallo
stato di miseria le famiglie contadine, sempre più vittime
di complessi processi d'indebitamento e costrette a contare sul
minifondo e sui prodotti dell'agricoltura di sussistenza (ancora
una volta la milpa). Insieme ai capitali stranieri e a nuovi canali
d'immigrazione europea (anche italiana) giunsero nel paese in
quella stagione anche inediti investimenti in infrastrutture,
benché rigidamente orientate al mercato d'esportazione,
come dimostra l'esperienza della ferrovia panamericana, che tagliava
le regioni dell'istmo (il '14 fu l'anno del varo del canale di
Panama), così da rifornire i porti della regione. Il fenomeno
d'intensivo sfruttamento commerciale delle risorse nazionali non
solo contribuì a produrre una serie di importanti trasformazioni
socio-economiche (a cominciare dal processo d'urbanizzazione),
ma in assenza di efficace politiche pubbliche e bancarie, si accompagnò
paradossalmente al progressivo indebitamento estero del paese.
Tra
crisi e riforme mancate: il consolidamento di un sistema autoritario
Nel
1913, mentre la S. Sede procedeva a un drastico riassetto della
mappa ecclesiastica della regione (in El Salvador, instaurata
la Provincia ecclesiastica, nascevano le diocesi di San Miguel
e Santa Ana, mentre San Salvador veniva elevata al rango di arcidiocesi),
salì al potere la dinastia Meléndez-Quiñones,
che governò con metodi dittatoriali fino al 1927, quando
il nuovo presidente Romero Bosque, pur non abbandonando una politica
autoritaria, concesse una serie di libertà formali. Negli
anni Venti infatti, sulla scia anche della ricostruzione "socialista"
del Messico postrivoluzionario e della resistenza "antigringa"
di Cesar S. Sandino in Nicaragua, iniziarono a costituirsi i primi
organismi sindacali (del 1924 è la Federazione regionale
dei lavoratori). In particolare El Salvador subì forti
contraccolpi dall'esplosione della crisi del '29 che scosse il
sistema produttivo-distributivo degli Usa e dei suoi principali
partner economici nella regione centroamericana; con il drastico
abbassamento della domanda di prodotti agricoli, le rendite legate
alla produzione di caffè (crollata in pochi mesi di oltre
il 30%) subirono infatti un immediato contraccolpo e molti contadini,
braccianti e cortaleros di caffè restarono senza lavoro
e privi di altre forme di introito garantito. Le tensioni sociali
cominciarono allora ad assumere una forma sempre più marcatamente
politica, anche a seguito dell'attivismo del nuovo Partito Comunista,
approdato nel paese nel 1931. In quello stesso anno venne eletto
presidente della Repubblica Araujo, che aveva condotto una campagna
elettorale in favore della riforma agraria, della ripartizione
delle terre (si proponeva di introdurre un modello di ejido come
quello utilizzato da Obregón in Messico dieci anni prima)
e della lotta alla disoccupazione. Al culmine della tensione sociale
e, entrò quindi in scena un attore parzialmente nuovo per
gli equilibri politici interni salvadoregni: l'esercito. Un golpe
militare fu orchestrato dal generale Maximiliano Hernández
Martínez, che rovesciò il governo civile e attuò
una durissima repressione delle agitazioni popolari. Questa sarebbe
culminata nel impressionante massacro di migliaia di contadini
(i bilanci redatti dagli storici variano da un minimo di 13.000
a un massimo di 31.000 vittime, nell'arco di pochi mesi), principalmente
delle regioni occidentali produttrici di caffè, noto anche
come la matanza de los comunistas. Alle rivolte di natura politico-sindacale
e campesina (guidate rispettivamente dal leader della sinistra
Farabundo Martí e dall'esponente sindacale Francisco Sánchez),
si erano infatti aggiunte in questa particolare congiuntura le
contestazioni di gruppi indigeni (coordinati dal nauhatleco Feliciano
Ama) e studenteschi (con Alfonso Luna) e proprio questa particolare
miscela aveva suscitato più di una preoccupazione nei vertici
dell'esercito e dell'oligarchia salvadoregna. Hernández
Martínez, acclamato dalla classe dirigente come il "salvatore
della patria", instaurò allora un regime dittatoriale,
che durò fino al 1944. Nonostante l'irrigidimento politico
e l'eliminazione di qualsiasi forma di dissidenza e possibile
centralina di agitazione sociale, grazie anche alla significativa
ripresa della domanda di caffè e altri prodotti tropicali,
nella seconda metà degli anni Trenta, il paese conobbe
una stagione di stabilizzazione economica, durante la quale si
costituì un sistema bancario nazionale (1934) e venne varata
una legge agraria (1942) che non risolse comunque la questione
terriera. Seguì una breve stagione di governi più
liberali, in linea con gli interessi della nascente, seppur ristretta,
borghesia, una delle poche in America centrale che, almeno in
questa particolare fase storica, preferì investire nell'industria
nazionale anziché esportare i capitali all'estero. Nel
1948 un nuovo colpo di stato militare depose il presidente Castaneda.
Il colonnello Osorio, fondò in quello stesso anno del Partido
Revolucionario de Unidad Democrática (Prud), ispirato al
messicano Pri e nel 1950, l'anno del varo della nuova Costituzione,
ottenne la presidenza. Grazie anche allo stabilizzarsi della situazione
centroamericana nei nuovi equilibri della guerra fredda (nel 1954
il generale Castillo Armas rovesciò con un golpe, sostenuto
da Washington, il presidente riformista Arbénz) proseguì
il processo di "modernizzazione dall'alto" sulla base
dello stretto legame tra forze armate e oligarchia. In quella
stagione El Salvador conobbe un graduale sviluppo economico, favorito
dalla crescita della piccola industria e dall'aumento del prezzo
internazionale del caffè, senza però che si registrassero
significativi progressi sul fronte della libertà politica,
né tantomeno della redistribuzione sociale. Nella seconda
metà degli anni '50, il presidente Lemus non osteggiò
in un primo tempo il risorgere di organizzazioni democratiche,
sindacali (la Confederación General de Sindicatos Slavadoreños,
Cgss, nel 1958) e della società civile; quando poi tentò
invano di reprimerle, nel 1960, un anno dopo il successo della
rivoluzione castrista a Cuba, in un contesto socio-culturale e
politico ormai in ebollizione in tutta la regione, dovette lasciare
il potere ad una giunta militare di ispirazione progressista che
tentò di avviare un effimero esperimento riformista.
La
democrazia monopartitica e i segni della crisi
L'esperimento
di riformismo "dall'alto" (ispirato a modelli di terzomondismo
autoritario come quello peruviano), fu però destinato a
durare ben poco. Un altro contro-golpe dell'esercito, riportò
infatti già nel 1961 El Salvador sulla strada del conservatorismo,
proprio mentre, nell'ambito della kennedyana "Alleanza per
il progresso" si ricominciava seriamente a discutere un progetto
di integrazione economica centroamericana che proprio quell'anno
si concretizzò nella creazione di un'area di libero-scambio
ribattezzata Mercomunca. Sul fronte politico interno, mentre a
San Salvador si instaurava una sorta di "democrazia monopartitica",
con presidenti espressi dal Partito de Conciliación Nacional
(Pcn), nato da una costola del Prud e gradito ai vertici delle
forze armate, nella stagione kennediana si registrò una
significativa serie di fermenti socio-politici e sul fronte delle
mobilitazioni popolari. Il processo di riorganizzazione messo
in moto in seno sia alla sinistra che ai cattolici diede infatti
vita negli anni Sessanta al sindacato Unoc e a nuovi movimenti
politici come il Partito Demócrata-Cristiano (Pdc), la
Unión Democrática Nacional (Udn) d'ispirazione comunista
e il Movimento Nacional Revolucionario (Mnr), socialdemocratico
che misero in crisi l'egemonia del Pcn. Ancora nel 1969 si sarebbe
formata la Federación Cristiana de Campesinos Salvadoreños
(Feccas). La seconda metà degli anni '60, nonostante lo
stallo istituzionale manifestatosi durante il governo Rivera ,
in una buona congiuntura economica (il Pil andava crescendo con
una media del 4,8% annuo) fu all'insegna di significativi mutamenti
sociali, culturali e politici che investirono non solo il mondo
sindacale, studentesco e della società civile ma anche
la chiesa salvadoregna nella sua complessità. Se la nascita
di nuove diocesi (San Vicente nel 1943 e Santiago de Maria nel
1954) aveva aumentato la collegialità della Conferenza
episcopale salvadoregna, i segnali di più significativo
rinnovamento venivano allora dalla cosiddetta "chiesa popolare",
in linea con i fermenti postconciliari metabolizzati a Medellín
nella II Conferenza del Celam (Episcopato latinoamericano) del
1968. La cosiddetta teologia della liberazione avrebbe infatti
trovato diversi interpreti sensibili nella realtà salvadoregna,
sia sul fronte del clero regolare (i gesuiti, attraverso l'Universidad
Centroamericana - Uca - e con la proposta di "inculturazione
del Vangelo" di Ignacio Ellacuria e Jon Sobrino, ma anche
i passionisti a Santiago de Maria e molti preti-operai e preti-contadini
affascinati dai documenti di Melgar e Medellín sulla opción
por los pobres), sia su quello delle "comunità ecclesiali
di base". Queste erano sorte in diverse realtà rurali
del paese e della periferia della capitale spesso sovrapponendosi
a preesistenti forme di tutela e difesa della religiosità
e della dimensione sociale della comunità di villaggio.
Queste organizzazioni popolari, molte volte in difficoltà
nell'instaurare un dialogo con la gerarchia ecclesiastica, non
si limitavano ad un'attività eminentemente religiosa ma
consideravano necessaria una coscientizzazione sociale e politica
che partisse dal basso e valorizzasse la dimensione comunitaria
del mondo rurale ma anche in un contesto urbano e non è
un caso che le Ceb si sarebbero trasformate in un "laboratorio
della contestazione". Il tema della rivendicazione dei diritti
socio-culturali ed economici divenne spesso un canale di dialogo
con altre organizzazioni popolari nate in seno alla sinistra sindacale
e politica, proprio mentre alcuni piccoli gruppi (minoritari)
andavano raccogliendo e rielaborando la proposta del foquismo
guevarista intorno all'ipotesi di una possibile sollevazione armata.
La tensione interna generata dal radicalizzarsi delle forze sociali,
cristiane e di sinistra, spinse il governo a rispondere con un
crescente irrigidimento dell'indole autoritaria e l'oligarchia
a fare un uso sempre più spregiudicato di gruppi paramilitari
attivi nelle campagne (su tutti il famigerato Orden costituitosi
già nel 1966). La scelta dell'irrigidimento invece di affrontare
riforme e di tentare di "governare" le trasformazioni
del paese avrebbe presto accelerato la spirale della violenza.
La polarizzazione sociale e politica crebbe d'intensità
alla fine del decennio, proprio mentre si riaccendeva la crisi
anche nel vicino Guatemala e a fronte del progressivo sgretolarsi
del progetto d'integrazione regionale (cui indubbiamente le amministrazioni
Johnson e Nixon non credettero così come aveva fatto J.
F. Kennedy). La crisi del Mercomunca si associò alla crescente
tensione tra El Salvador e Honduras, culminata nel 1969, durante
la presidenza del colonnello Sánchez Hernández,
in una breve quanto sanguinosa guerra (nota anche come la guerra
de las cien horas o la guerra del fútbol, dal momento che
esplose dopo una serie di incidenti tra opposte tifoserie durante
le partite di qualificazione ai mondiali di calcio), che pose
fine di fatto all'area di libero-scambio. Militarmente il conflitto
si risolse con una netta vittoria dell'esercito salvadoregno che
oltrepassò il confine di Chalatenango e inflisse una dura
lezione militare ai vicini, ma la vittoria rappresentò
un boomerang per il paese. Non solo la fine del mercato comune
fece perdere all'industria salvadoregna il suo ruolo di esportatore
regionale di manufatti (il Mercomunca assorbiva ormai il 40% dei
prodotti nazionali) ma il rientro forzato e improvviso di oltre
150.000 salvadoregni, da tempo insediati in Honduras con attività
redditizie, provocò una serie di ripercussioni sociali
e contribuí a un'immediata impennata del tasso di disoccupazione.
Tra rivendicazioni politiche e tensioni sociali, con un debito
estero quadruplicatosi nel corso dell'ultimo decennio, la decade
dei '70 iniziò così in modo assai burrascoso e sarebbe
stata destinata a finire in maniera ancor più traumatica
e violenta con lo scoppio della guerra civile, alla fine di una
stagione segnata da un crescente dinamismo delle organizzazioni
popolari e dal radicalizzarsi della repressione. La mediazione
dell'Organizzazione degli Stati Americani che aveva posto fine
alla guerra con l'Honduras non servì infatti ad aprire
un effettivo processo di dialogo interno e nel 1972 la situazione
sembrò precipitare. Grande agitazione seguì infatti
alla contestatissima vittoria alle presidenziali del colonnello
Arturo Molina, del Pcn, che sconfisse il leader dell'opposizione,
riunitasi per l'occasione nella Unión Nacional Opositora
(Uno), il democristiano José Napoleón Duarte, solo
grazie a una consultazione elettorale palesemente irregolare.
All'indomani dell'insediamento, Molina dovette sventare, con il
supporto degli "uomini forti" dei vicini Guatemala e
Nicaragua, Arana Osorio e Anastasio Somoza, un tentativo di golpe
da parte di una frangia riformista dell'esercito e diede il via
a una vera e propria campagna di persecuzione dell'opposizione
che aveva come principali obiettivi Duarte (arrestato, torturato
e poi espulso dal paese) e il leader socialdemocratico Guillermo
Ungo. In una fase di crescente polarizzazione, segnata dal fallimento
del Plan de desarollo nacional varato nel 1973 con lo scopo di
riattivare investimenti stranieri e di calmare le tensioni grazie
a una riduzione della disoccupazione, ma che fallì proprio
per l'assenza di una riforma agraria (ostacolata da un'oligarchia
terriera sempre più preoccupata dalle agitazioni di campesinos
sempre più "sin tierra" e dalle fluttuazioni
del prezzo del caffè), il governo si trovò ad affrontare
crescenti difficoltà. Questo produsse un radicale irrigidimento
dell'élite al potere, uscita economicamente rafforzata
dal decennio precedente e sempre più disposta a dialogare
con formazioni di estrema destra quali il Frente Agrario de la
Región Oriental (Faro) o la Unión Guerriera Blanca
(Ugb), ispirate da un viscerale anticomunismo e odio per l'azione
delle ceb e di movimenti popolari. Dall'altra parte si riorganizzarono
le opposizioni e fecero la loro comparsa le prime formazioni di
guerriglia rivoluzionaria. Mentre cresceva il dinamismo di movimenti
sociali quali il Bloque Popular Revolucionario (Bpr) o il Frente
de Acción Popular Unificada (Fapu), con la crisi del '72
iniziarono la loro attività clandestina piccoli gruppi
armati antigovernativi, quali Forze Popolari di Liberazione (Fpl),
gruppo fuoriuscito dal Partito Comunista Salvadoregno organizzato
dal noto attivista Salvador Carpio, le Forze armate di Resistenza
Nazionale (Farn) e le Forze Armate di Liberazione (Fal), cui si
sarebbe aggiunto l'Esercito Rivoluzionario del popolo (Erp). Voci
critiche verso il governo si levarono, a partire dal 1975, anche
da parte di esponenti della Chiesa cattolica, e in particolare
dei gesuiti (ma anche dello stesso arcivescovo di San Salvador,
Luís Chávez y Gonzáles, protagonista nei
primi anni '70 di una coraggiosa e a suo modo inedita azione pastorale)
preoccupati da una questione sociale sempre più accesa
(accelerata anche dal boom demografico), specie nelle campagne.
La tensione crebbe ulteriormente con l'avvento al potere del generale
Carlos Humberto Romero, salito alla presidenza nel 1977 in seguito
ad elezioni ancora una volta fraudolente (nonostante nella Uno
fosse entrato anche un partito il Movimiento Unitario Nacional,
fondato dai militari riformisti) e disposto a ristabilire l'ordine
con qualsiasi mezzo a sua disposizione. Il triennio 1977-1979
fu segnato in effetti da una costante escalation delle violenze
(spesso ad opera della Policia de hacienda e della Guardia Nacional)
che colpirono in particolare contadini ma anche membri delle comunità
di base, delle organizzazioni sindacali e dello stesso clero,
accusati dall'estrema destra di simpatizzare con la guerriglia,
mentre alcuni rappresentanti dell'oligarchia venivano rapiti e
giustiziati dai gruppi ribelli. Al culmine della crisi e dello
stallo politico, il generale Romero fu deposto nell'ottobre del
1979 da un golpe orchestrato da alcuni giovani ufficiali, riuniti
nel movimento 2Mr, che diedero vita ad una giunta rivoluzionaria.
Pochi mesi prima (in luglio) il Centroamerica era tornato nell'occhio
del ciclone, apprestandosi a vivere la stagione della "nuova
guerra fredda", in concomitanza con la vittoria sandinista
nel vicino Nicaragua. Si apriva allora una delle stagioni più
turbolente e drammatiche per la storia del Salvador.
Una
terribile guerra civile
La
nuova giunta insediatasi nel 1979 in un primo momento lasciò
intravedere una possibile svolta di tipo "riformista",
impegnandosi nella organizzazione di "libere" elezioni
e promettendo di svolgere un ruolo di pacificazione e riforma
sociale (tra i membri civili della nuova giunta vi era anche il
rettore della Uca, Román Mayorga e il socialdemocratico
Ungo). In realtà il progetto di "democratizzazione"
dall'alto (seguito con interesse anche dall'ambasciatore statunitense
Robert White) che aveva tra i suoi obiettivi la convocazione di
libere elezioni e il vero della riforma agraria non fece nemmeno
in tempo a iniziare. Mentre non s'interrompevano le violenze,
nella nuova giunta il partito della "repressione" ebbe
infatti rapidamente la meglio sulla componente riformista guidata
dal colonnello Adolfo Majano, ostacolato del colonnello Abdul
Gutiérrez e del ministro della difesa García. Nel
gennaio del 1980 fu quindi nominata una seconda giunta rivoluzionaria,
marcatamente schierata su posizioni di estrema destra, in linea
con le idee dell'ala più anticomunista ispirata dal generale
in pensione Alberto Medrano (l'ideatore delle milizie paramilitari
di Orden), dal maggiore Roberto d'Aubuisson, già attivo
nei servizi segreti ed esperto delle tecniche antiguerriglia,
e da un ex comandante della Guardia Nacional, Ramón Alvarenga.
Particolarmente contraddittoria apparve la decisione della Democrazia
cristiana (prima con Antonio Morales Ehrlich ed Héctor
Dada Hirezi, poi ritiratosi, cui sarebbe presto subentrato José
Napoleón Duarte) di appoggiare la giunta, nonostante l'imponente
manifestazione anti-governativa di 250.000 persone, nella capitale
del 22 gennaio. La scelta fu giustificata con la necessità
di svolgere un ruolo di moderazione ma contestata come "irresponsabile"
da molti dirigenti del partito che preferirono dimettersi, darsi
all'esilio o aderire alla scissione promossa da Mario Zamora,
freddato da uno squadrone della morte mentre tentava il lancio
di un nuovo movimento politico cristiano. Tra questi vi fu anche
la responsabile della Commissione per i diritti umani dell'arcidiocesi
di San Salvador, Marianela García Villas, che di lì
a tre anni sarebbe stata uccisa da uno "squadrone della morte"
per la sua attività di denuncia delle violenze contro i
campesinos nell'ambito della Commissione dei diritti umani dell'arcidiocesi.
Alla linea dura imposta dai gruppi di estrema destra che fiancheggiavano
la nuova giunta, segnata dall'incremento esponenziale di "eliminazioni"
mirate, rapimenti e torture, secondo il modello argentino, la
guerriglia rispose "alzando il tiro" della propria azione
e serrando le proprie fila - in ottobre cinque diversi gruppi
avrebbero dato vita al Frente de Liberación Nacional Farabundo
Martí (Fmln) - e stringendo i legami con il vicino Nicaragua.
Proprio mentre negli Usa il repubblicano Ronald Reagan nella sua
campagna elettorale accusava il più moderato Carter di
eccessiva debolezza in Centroamerica, la situazione salvadoregna
precipitava dunque da uno stato di "crisi permanente"
a quello di aperta guerra civile. Un ulteriore segnale di questa
escalation venne, il 24 marzo del 1980, dall'uccisione, mentre
celebrava la messa nella cappella di un ospedale, dell'arcivescovo
di San Salvador, Oscar Arnulfo Romero. Questi, pur venendo da
una formazione conservatrice che lo aveva visto estraneo al processo
di penetrazione della teologia della liberazione nel paese, da
quando aveva assunto la guida dell'arcidiocesi della capitale
(nel febbraio del 1977) si era impegnato direttamente in azioni
di sostegno alle classi più disagiate. A queste aveva accompagnato
una coraggiosa denuncia delle violazioni dei diritti umani perpetrate
dall'esercito, e una condanna generale dell'uso della violenza
che si traduceva in un accorato appello alla riconciliazione e
alla giustizia sociale, espresso attraverso le sue omelie, la
sua azione pastorale e l'attività della radio diocesana
Ysax, della Commissione diritti umani e del Socorro Jurídico.
L'azione di denuncia di Romero culminò in una lettera aperta
scritta al presidente Carter, nel noto vibrante discorso all'università
di Lovanio del 1979 (che gli concesse una laurea ad honorem) e
nell'ultimo famoso e tragico appello ai militari a "disobbedire".
L'uccisione del vescovo, l'eliminazione di preti socialmente impegnati
(a cominciare dal parroco di Aguilares, padre Rutilio Grande,
nel 1977) e il massacro di centinaia di catechisti nei villaggi,
oltre che di migliaia di membri laici delle comunità di
base, diede il segno del coinvolgimento della Chiesa salvadoregna
nel processo di riforma sociale (nonostante la decisa contrarietà
dei settori più conservatori guidati dal vescovo di San
Vicente, Aparicio y Quintanilla). Emblematico fu il famigerato
motto coniato fin dal 1977 da alcuni gruppi di estrema destra:
"Haga patria, mate un cura". Tutto ciò in una
fase in cui, dopo la conferenza di Puebla del 1979 (la III del
Celam) e sotto la spinta dell'avanzata delle sette neo-protestanti,
prendeva il via un processo di "depoliticizzazione"
del fenomeno della teologia della liberazione e di mutamento delle
linee generali di azione sociale ed ecclesiale nelle periferie
dell'America latina. L'omicidio di Romero (oggi considerato in
molti settori della società salvadoregna alla stregua di
un vero e proprio "santo popolare") ed il successivo
massacro di numerosi manifestanti asserragliatisi nella cattedrale
in occasione dei suoi funerali, pur dando un certo risalto internazionale
alla grave crisi del Salvador, non sbloccò la situazione.
Questo fu anzi il preludio alla stagione della guerra civile.
Nonostante il tentativo di varare una riforma agraria promosso
dalla giunta dal marzo 1980 (a che si sarebbe dovuto strutturare
in tre fasi, ridistribuendo le terre, prima degli appezzamenti
superiori ai 500 ettari, poi di quelli intermedi, di cui facevano
parte le fincas del caffè, poi in base a un programma concordato
con l'esperto statunitense Roy Posterman e mai effettivamente
attuato) la situazione degenerò ulteriormente. Due mesi
dopo l'uccisione dell'arcivescovo il governo dichiarò lo
Stato d'assedio e la violenza crebbe d'intensità con un'escalation
impressionante. Il biennio 1980-1981 fu segnato da una serie continua
di violenze efferate, dal tristemente noto massacro di Morazán
(in cui persero la vita circa 3.000 contadini) al brutale assassinio
di tre suore e un religioso statunitensi che spinse Carter, preoccupato
dalla questione dei diritti umani, a sospendere gli aiuti militari
a El Salvador (linea di lì a poco ribaltata dal suo successore
Reagan). Fu infatti soprattutto il nuovo interventismo statunitense
nella regione, insieme all'avvicinamento dei gruppi ribelli a
Cuba e Nicaragua (e indirettamente a Mosca), a dare una dimensione
inedita alle crisi centroamericane. La linea rigidamente anticomunista
assunta dall'amministrazione Reagan, fautore della rilancio della
lotta contro "l'impero del male", apparve in sintonia
con la dichiarazione del generale Haig del marzo del 1981 davanti
alla Commissione Esteri della Camera, con cui denunciò
un "piano sovietico per conquistare il Centroamerica",
chiedendo un investimento di 6,5 miliardi dollari per la sicurezza
regionale. Indubbiamente importanti furono le iniezioni statunitensi
(principalmente attraverso la Usaid) a sostegno dell'economia
salvadoregna che puntavano a contenere un ulteriore inasprimento
sociale. Una significativa parte degli aiuti statunitensi ai regimi
"amici" come El Salvador e Guatemala, fu però
utilizzata anche nell'ambito dell'operazione "Bacino dei
Carabi", o a sostegno dei ribelli antisandinisti contras,
diretti dall'ex addetto militare di Somoza, Enrique Bermúdez,
contribuirono infatti a una rapida militarizzazione della regione.
In particolare l'appoggio ai contras (definiti dallo stesso Reagan
"combattenti per la libertà"), che ebbero la
loro base logistica e di addestramento in Honduras (dove i consiglieri
militari statunitensi arrivarono ad essere anche quasi 3.000),
sostenuto attraverso complesse covert operations della Cia, così
come l'interventismo indiretto (si voleva ad ogni costo evitare
una escalation di tipo vietnamita) nella guerra civile salvadoregna,
avrebbe sollevato diverse proteste nell'opinione pubblica statunitense.
Nel caso salvadoregno, particolare scalpore suscitarono le denunce
fatte da alcuni giornalisti degli effetti della cosiddetta operazione
"sandwich", concordata tra truppe salvadoregne e honduregne
lungo il confine di Chalatenango allo scopo di contenere l'avanzata
del Fmln (che nel 1981 lanció quella che ribattezzò
ofensiva final) e di eliminare le basi popolari della sua resistenza;
questa nel marzo del 1981 produsse i bombardamenti del Río
Lempa e in dicembre si concluse con il massacro di oltre 700 persone,
oppositori politici ma in prevalenza donne e bambini, a El Mozote.
Gli scontri armati tra esercito e guerriglia e le scorrerie dei
gruppi paramilitari sarebbero continuati con alterne fortune per
oltre un decennio, spesso mescolandosi a omicidi politici di membri
delle cooperative interessate dai repartimientos de tierra e a
regolamenti di conti personali, facendo precipitare il paese in
una situazione drammatica sia sul fronte dei diritti umani (per
l'uso spregiudicato di tecniche volte a terrorizzare la popolazione
civile), che per la stagnazione economica (accelerata dall'impennata
del prezzo del petrolio) che bloccò il paese dopo i timidi
progressi economici registrati negli anni Sessanta-Settanta (tra
il gennaio del 1980 e il dicembre del 1982 il Pil crollò
del 25%).
Verso
la guerra a "baja intensidad"
Sul
fronte politico, dopo lunghe e faticose trattative con i militari,
condotte da Duarte, dal dicembre del 1980 alla testa di un "governo
di unità nazionale" provvisorio, si iniziarono quindi
a cercare soluzioni politiche alla guerra. Duarte si dichiarò
disposto ad aprire un dialogo con il Fronte democratico rivoluzionario
(Fdr) di Ungo e affidò ad una speciale commissione il compito
di elaborare una normativa per eleggere, entro il 1982, un'Assemblea
costituente. Questa veniva fortemente richiesta anche dalla stessa
amministrazione statunitense, preoccupata dalle crescenti critiche
internazionali al suo operato nella regione, culminate nella chiusura
di diverse sedi diplomatiche e in alcune eclatanti denunce. Le
elezioni dell'Assemblea, nel marzo del 1982, si svolsero però
ancora in un clima di violenza diffusa (si calcola per quei mesi
una media di 200 omicidi politici alla settimana) e sotto i colpi
della nuova veemente offensiva del Fmln, ribattezzata campaña
de marzo. Alla fine Ungo non partecipò al voto, trasferendosi
in Messico e cercò di tener viva l'attenzione politica
intorno alla questione salvadoregna, interpellando il presidente
dell'Internazionale Socialista W. Brandt, perché svolgesse
una mediazione. La Democrazia Cristiana di Duarte, con il 40,2%
dei voti, conquistò la maggioranza relativa, che non fu
però sufficiente per governare, per l'avanzata dei partiti
di estrema destra a cominciare dalla neonata Alianza Republicana
Nacionalista (Arena), fondata dallo stesso D'Abuisson che ottenne
un sorprendente 29,3%, conquistando anche molti voti popolari.
Caduta l'ipotesi di candidare alla presidenza il leader spirituale
di Arena, giudicato "improponibile" da Washington, la
guida del paese passò al più moderato Magaña
(eletto anche con i voti del Partito di Conciliazione Nazionale)
e nel dicembre 1983 fu approvata la nuova Costituzione. Nonostante
gli sforzi del nuovo presidente per offrire un immagine di democraticità
del paese, le pressioni della comunità internazionale su
El Salvador si intensificarono, grazie anche alle denunce provenienti
da personalità salvadoregne, tra cui anche il nuovo arcivescovo
di San Salvador Rivera y Damas. Tra il 1983 e il 1984, nonostante
qualche timida proposta di pace, l'offensiva del Fmln, ispirato
sia all'esperienza sandinista che al prototipo castrista, non
sembrava sul punto di esaurirsi (in autunno grande risonanza ebbero
l'attacco alla base di El Paraíso, l'avanzata nella regione
del Bajo Lempa e la distruzione del ponte di Cuzcatlan e l'uccisione
dell'ufficiale statunitense Albert Schaufelberg). Dal canto suo,
grazie anche agli aiuti militari statunitensi (che fecero in quel
periodo del piccolo El Salvador il quarto beneficiario in assoluto
di Washington), l'esercito poté però riorganizzarsi.
A metà anni '80 iniziò quindi la stagione della
cosiddetta "guerra a bassa intensità", segnata
da una guerriglia endemica, attentati, rapimenti e rappresaglie
e da un tentativo di far terra bruciata del sostegno popolare
alle forze guerrigliere, specie nei villaggi e nelle comunità
contadine, attraverso un'azione che doveva essere civile e militare
insieme. In questo contesto maturò il progetto di ritorno
alla democrazia formale, benché rigidamente "protetta".
Nel marzo del 1984 si tennero quindi delicate elezioni presidenziali
che pur confermando la vittoria di Duarte su D'Aubuisson, non
diedero la maggioranza assoluta a nessuno dei due candidati e
vennero ripetute nel maggio dello stesso anno. Il ballottaggio
per l'elezione presidenziale fu quindi vinto da Duarte, col 53,6%
dei voti e pose le basi per una possibile ripresa di negoziati
diplomatici. La "guerra a bassa intensità" non
interruppe certo le violenze e il dinamismo degli "squadroni
della morte" ma ridimensionò la portata degli scontri.
Mentre nel paese riprendeva la mobilitazione civile (nel 1985
nella sola San Salvador si registrarono 65 scioperi e l'anno successivo
diverse sigle sindacali si riunirono nel Sindicato Unitario Nacional
Trabajadores Salvadoreños), la distanza tra la parti sembrava
ancora troppo ampia per avviare un'azione negoziale. Nel 1985
alcune cellule del Fmln (a sua volta impegnato a mantenere l'unità
delle forze guerrigliere) si resero protagoniste di altre azioni
eclatanti come l'uccisione del generale Medrano (l'ideatore di
Orden) e il rapimento della figlia di Duarte, Inés Durán,
il quale fu criticato dai vertici militari per aver ceduto alle
richieste della guerriglia (con la liberazione di 22 prigionieri
politici). Mentre circolavano voci di un nuovo possibile golpe
militare, la situazione socio-economica del paese, scosso ormai
da sei anni di guerra civile e investito nell'ottobre da un violento
terremoto (che provocò oltre 1.000 vittime e danneggiò
oltre 250.000 persone), si faceva sempre più critica. La
disoccupazione era ormai alle stelle (vicina al 75% della popolazione
attiva) e si accompagnava un aumento incontrollato dei processi
di migrazione, sia internazionale che interna. Questa era effetto
anche dello sfollamento dei contadini, in fuga dalle operazioni
di guerra, causate dalle operazioni tierra arrasada , che miravano
a staccare la popolazione rurale dalla guerriglia (el poder popular)
e da una serie di altri massacri e violenze, culminate nell'Operativo
Fénix, le operazioni militari che investirono la montagna
di Guazapa agli inizi del 1986. A fine dell'anno calcolavano 745.000
salvadoregni espatriati per sfuggire al conflitto e almeno 500.000
rifugiati interni, i quali cominciarono a organizzarsi in associazioni
come Cripdes e a chiedere di poter tornare nei loro villaggi d'origine.
Solo a partire dal 1987, con il trattato di pace di Esquipulas
II, sottoscritto dai leader dei paesi centroamericani, grazie
ai progressi del lavoro diplomatico del gruppo di Contadora (iniziativa
negoziale promossa fin dal 1983 dai presidenti di Messico, Venezuela,
Colombia e Panama), e alle pressioni delle associazioni internazionali
per i diritti umani, dell'Onu e dell'Ue, si aprirono effettivi
spiragli di dialogo. Questi si collocavano sullo sfondo dell'allentamento
della "nuova guerra fredda" nella seconda metà
degli anni Ottanta. L'apertura di un esile filo di dialogo e i
diversi tentativi di normalizzazione (anche la Chiesa cercò
di riassestare la propria presenza aprendo nuove diocesi - Sonsonate,
Chalatenango e Zacatecoluca - e ridefinendo i propri rapporti
con le autorità politiche) non impedì però
una recrudescenza degli scontri, accelerata dalla vittoria nelle
legislative del marzo del 1988, del partito Arena, sul Pdc di
uno stanco Duarte. Il Fmln annunciò dunque la ripresa della
guerriglia, sospesa dopo il terremoto e poi solo parzialmente
ripresa nel corso del 1987, anno che vide riemergere una serie
di divisioni in seno al movimento (dovute principalmente al dinamismo
dell'Erp), proprio mentre le opposizioni di centro sinistra, il
Mnr di Ungo, il Partito Social-Cristiano (nato su iniziativa di
Rubén Zamora che riunì molti "esuli" del
Pdc) e i socialdemocratici davano vita alla coalizione Convergencia
Democrática (Cd). La tensione politica si riacutizzò
poi nella seconda metà del 1988 in concomitanza con l'avvio
a campagna per le presidenziali del marzo 1989. Queste portarono
alla guida del paese il candidato di Arena, Cristiani, che trionfò
sia sul candidato democristiano sia su Cd, anche se la percentuale
di astenuti, vicina al 50%, indicava la persistenza della polarizzazione
politica, in un paese ancora significativamente diviso in due.
Dopo alcuni mesi interlocutori, la violenza si riaccese in autunno
con l'improvvisa irruzione del Fmln nella capitale e una serie
di rappresaglie militari tra cui l'uccisione da parte di un gruppo
scelto dell'esercito di sei gesuiti (tra cui Ellacuria) e due
donne, nella UCA di San Salvador. Nonostante i picchi di violenza,
i massacri e i desaparecidos (quasi 500, in prevalenza contadini,
nel solo 1989-90), il processo negoziale prese sempre più
forma e si consolidarono i gruppi e movimenti impegnati per l'ottenimento
della pace. Questi decollarono finalmente con l'avvio del nuovo
decennio, favoriti dal clima successivo al crollo del muro di
Berlino e della fine del bipolarismo, mentre l'America centrale
si apprestava a tornare alla ribalta internazionale con l'assegnazione
del premio Nobel per la pace alla maya quiché Rigoberta
Menchú Tum.
Il
dopoguerra; tra contraddizioni e speranze
Proprio
in quel 1992, l'anno di quel Nobel e delle contestate celebrazioni
del cinquecentenario della "scoperta" delle Americhe,
anche la guerra civile salvadoregna trovò finalmente una
soluzione politica. Questa fu ottenuta dopo faticose consultazioni,
con la mediazione dell'Onu, e portò alla firma degli accordi
di pace di Chapultepec a Città del Messico, il 16 gennaio.
Dagli accordi di pace il Fmln uscì riconvertito nel principale
partito d'opposizione e mentre l'esercito veniva significativamente
ridimensionato ed "escluso" dalla vita politica, la
Guardia Nacional e le altre milizie paramilitari venivano smantellate.
Furono quindi avviate parziali ma significative trasformazioni
del sistema giuridico e venne rilanciata una divisione di poteri
nelle istituzioni (in un sistema presidenziale all'americana),
mentre l'Onu predisponeva una missione di monitoraggio sul rispetto
degli accordi (Onusal). Sul fronte della società civile,
il processo di riconciliazione nazionale passò attraverso
un rilancio del movimentismo sociale che trovò canali di
collegamento nel rilancio del multipartitismo e nei processi di
ritorno del paese a una difficile normalità. Se in buona
parte sospesa, nell'ambito del processo di riconciliazione nazionale
a tappe forzate, la questione dei conti con il passato (come sarebbe
emerso dal rapporto della Comisión de la Verdad Onu), molti
passi avanti furono rapidamente compiuti sul fronte della redistribuzione
delle terre e dei processi di reinserimento dei profughi. Iniziò
allora la complessa strada della riconciliazione, dopo 12 anni
di guerra che avevano colpito in particolar modo la popolazione
civile, lasciando profonde lacerazioni nel modello nazionale e
causando circa 80.000 vittime. Nonostante i sorprendenti progressi
compiuti sulla via della normalità e l'euforia che accompagnò
la fase della pacificazione, la pesante eredità di una
prolungata stagione di violenze resta però un fardello
pesante da cui liberarsi in una fase di nuove contraddizioni e
marginalità. Il riassestamento degli equilibri politici
portò nel frattempo a un significativo ridimensionamento
del Pdc e al crescente dualismo tra le due principali forze partitiche
del paese: Arena di destra (che non ha più perso il controllo
dell'esecutivo) e Fmln di sinistra. Nell'aprile del 1994 la presidenza
passò ad Armando Calderón Sol di Arena, mentre nelle
elezioni amministrative del 1997 il Fmln s'impose in numerose
municipalità. Sul fronte socio-economico gli anni Novanta
hanno poi visto il paese adottare una serie di riforme di taglio
liberista, in linea con i dettami del Fondo monetario internazionale,
intensificando i rapporti economici con gli Stati Uniti da un
lato e con paesi vicini come Guatemala e Honduras dall'altro.
L'introduzione della dollarizzazione (il dollaro ha ottenuto corso
legale nel paese a fianco del colón) nel 2001, lo sviluppo
di una rete capillare di maquilas (imprese, generalmente in subappalto
per conto di grandi marchi internazionali, a basso impatto tecnologico
e a bassissima sindacalizzazione, generalmente attive nel settore
tessile), l'effetto delle rimesse degli emigranti salvadoregni
negli Usa (oltre due milioni su una popolazione di cinque milioni
e mezzo di abitanti) e in Europa, hanno quindi contribuito a cambiare
significativamente la struttura economica nazionale, aumentando
il peso dei settori finanziari rispetto a quelli tradizionali
della produzione rurale. Complessa è rimasta però
la situazione sociale, sia nelle campagne che nelle periferie
urbane della capitale, per effetto di fenomeni di polarizzazione
socio-economica, acceleratisi nella stagione dei mercati globalizzati,
così come per l'impatto dell'urbanizzazione e del calo
dei prezzi sui mercati internazionali di prodotti d'esportazione
quali il caffè. Questo ha infatti spinto molti investitori
a spostare i propri capitali sul settore finanziario, avviando
un processo di fuga di capitali parzialmente inedito per il paese,
erodendo il potere d'acquisto della già fragile classe
media e offrendo scarse possibilità di redistribuzione
e di reinserimento delle fasce marginali. Nonostante un discreto
andamento degli indici macroeconomici (tra i quali va annoverato
il contenimento del debito), gravi problemi sono rimasti connessi
alla fragilità del Welfare State (denunciata anche in occasione
delle recenti marchas blancas organizzate dai dipendenti degli
ospedali pubblici), dall'alto tasso di disoccupazione e dall'incremento
della violenza e della criminalità organizzata, sempre
più ramificata a livello internazionale, grazie anche al
dinamismo delle nuove bande ribattezzate maras salvatruchas, attive
ormai anche in altri paesi della regione. Nel 1998 un grave colpo
alle speranze di ripresa economica è venuto inoltre dall'uragano
Mitch che ha investito l'aerea centroamericana, provocando devastazioni
e inondazioni e rovinando i raccolti, specie nelle regioni affacciate
sul Pacifico, come quella attorno alla foce del Río Lempa,
mentre nel 2001 El Salvador ha dovuto affrontare gli effetti devastanti
di un nuovo terremoto costato la vita a circa 1.800 persone (impressionanti
furono le immagini della montagna crollata a Santa Tecla che fecero
all'epoca il giro del mondo). Tra il 2002 e il 2004 il governo
è rimasto sempre nelle mani di Arena (prima con Francisco
Flores e poi, dal 2004, con Toni Saca) che ha puntato a evidenziare
il grado di rinnovamento interno, anche se il Fmln, pur spaccato
al suo interno e minato da spinte centrifughe, ha mantenuto a
lungo la maggioranza relativa al congresso e una sorta di predominio
nelle varie elezioni amministrative, continuando a governare nella
capitale (che registra oltre 2 milioni di abitanti su una popolazione
totale di 5,4). In politica estera nell'ultimo quinquennio il
paese ha mantenuto una linea filostatunitense ed è stato
tra i più attivi sostenitori del progetto Cafta, per la
creazione di un'area di libero scambio centroamericana, sulla
falsariga del Nafta (che unisce Messico, Usa e Canada), approvato
nel 2003; questo è stato presentato dalle autorità
come un'opportunità unica di ripresa economica e criticato
dalle opposizioni come possibile fonte di ulteriore aumento della
polarizzazione socio-economica. Il pulgarcito de America, nonostante
tutti i problemi, continua però a dimostrare una certa
vivacità della propria società civile (e in particolare
nelle sue organizzazioni femminili), risorsa preziosa dei paesi
centroamericani, da cui ripartire per trovare un giusto legame
tra riscoperta delle radici (la memoria "olvidada" in
un paese con pochi musei), esigenze della riconciliazione e sfide
del progresso che tengano però conto anche delle esigenze
profonde e umane della giustizia sociale.
Breve
Bibliografia consigliata:
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Filmografia:
O. Stone, Salvador, Us 1986
J. Duigan, Romero, Us 1989
L. Mandoki, Voces Inocentes, México/Us 2004
(*) La definizione (letteralmente il "pollicino") -
titolo di un libro dello scrittore salvadoregno Julio Enrique
Ávila - viene attribuita alla nota pedagogista e poetessa
cilena, Gabriela Mistral, e richiama le dimensioni del paese,
grande come il Galles o la Lombardia ma collocato strategicamente
al centro della regione centroamericana; dalla Mistral definito
"fragile" ma anche ricco di una "violenta bellezza
primordiale".
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