Mons. Sergio Méndez Arceo
patriarca della
solidarietà liberatrice

 


Fondatore del Sicsal

Antico vescovo di Cuernavaca, profeta dell'America Latina, padre dei poveri del continente, precursore di tutti i cambiamenti nella chiesa del XX secolo, presidente e poi membro del Tribunale dei Popoli. Ricercatore instancabile della pace e della giustizia per le strade del mondo. Morì in Messico a 84 anni, improvvisamente come aveva sempre desiderato. Era mattino e la notte precedente aveva ancora scritto. Motivo di polemiche fuori e dentro la chiesa, afferma: "ribelle? Non sono mai stato ribelle. Sono stato libero". Figlio della borghesia messicana, legge i classici e colleziona mappe a 10 anni e le sue ultime lettere, del 30 gennaio, sono per il presidente Alfredo Cristiani, l'arcivescovo Arturo Rivera Y Damas e per il comandante guerrigliero Shafik Handal, del Salvador. Trasudano la sua gioia per la pace appena firmata per "questa terra impanata di sangue". Da giovane voleva fare il matematico, ma poi opto per il sacerdozio. Ordinato a Roma nel 1932, attratto dalla storia della chiesa, conseguì il dottorato all'Università Gregoriana. Dotato di un intelligenza particolare e di una vasta cultura, in Europa si apre al pensiero umanista e i suoi compagni latino americani gli rivelano la realtà dei loro paesi. Questa diventa il centro del suo interesse. Torna da Roma come il classico sacerdote conservatore, sebbene conoscendo le miserie e le virtù di una chiesa che amerà appassionatamente per tutta la sua vita. Professore e direttore spirituale del seminario, storico del Messico, venne nominato vescovo di Cuernavaca, nello stato di Morenos, nel 1952. Gli costo molto interrompere la sua carriera intellettuale. Inoltre gli raccontano che quello che lo attende "è un popolo di poveri". Sebbene con una storia ricca: conserva le impronte dello splendore coloniale, e da li uscirono i leader contadini dell'indipendenza, sebbene la realtà sociale non fosse cambiata molto in 5 secoli. Don Sergio, uomo di Dio, sensibile a tutto ciò che è umano, si lega a gente di cultura - liberali e atei - stupiti che un vescovo gli si avvicini. Vuole cambiare le relazioni della chiesa con quanto gli sta intorno. Nel 1955 assiste alla I Conferenza dell'Episcopato Latinoamericano, a Rio de Janeiro, dove conosce altre esperienze pastorali. Nel 1957 vede la sua cattedrale, monumento architettonico, come un ginepraio di segni indecifrabili per il popolo e la trasforma in uno spazio luminoso e bello dove l'attenzione si concentra su una gigantesca iscrizione: "Andate ed evangelizzate tutte le nazioni", sulla grande croce e sull'immagine della Vergine di Guadalupe. Da li - imponente nella sua figura, con il suo pastorale in mano - sbriciola il Vangelo per la sua gente tra la musica festosa delle "mariachis". Nel 1962 fece distribuire alla diocesi 10.000 copie della bibbia e altre 30.000 del Nuovo Testamento. Poiché l'edizione cattolica era troppo costosa, chiese ed ottenne da Papa Giovanni XXIII il permesso di poter usare una versione protestante. La riforma liturgica - prima del Concilio -, l'appoggio all'abate benedettino Lemercer nel rinnovamento della vita religiosa e al Centro Interculturale di Documentazione, del sacerdote Ivan Illich, che ebbe una influenza decisiva nei cambiamenti della chiesa latinoamericana, scandalizzarono l'episcopato messicano e le accuse arrivarono fino a Roma. Don Sergio comparve davanti al Sant'Uffizio, ma rifiutò di rispondere alle domande "indegne per un vescovo". Ottenne un udienza con Paolo VI che lo ricevette freddamente: "perché vuole distruggere la chiesa?". Un'ora e mezza bastò per intendersi. Paolo VI vide in lui l'uomo critico, ricercatore della giustizia. libero. E Don Sergio seguì il consiglio che gli aveva dato un giorno Giovanni XXIII: "si formi una sua coscienza e vada avanti". E continua nel suo impegno sociale e politico. Il Segretariato Sociale Messicano, a carico del sacerdote Pedro Velasquez, gli fornisce elementi per una concreta analisi della realtà ed egli prende posizioni ogni volta più chiare, più forti a favore dei poveri. E' parte dei conflitti operai, contadini e studenteschi, non come giudice, ma a fianco delle vittime della violenza strutturale. Padre conciliare, dice del Vaticano II: "nel Concilio, la chiesa fu aperta alla modernità borghese, Medelin, al contrario, raccoglie veramente il clamore dei poveri, che prima non avevamo intravisto chiaramente". Nel 1972 assiste al I Incontro dei Cristiani per il Socialismo, a Santiago del Cile: "la mia presenza qui è una mia decisione, pienamente cosciente… credo che se anche non siamo giunti a chiamare cristiano, esplicitamente e direttamente, il capitalismo… ne siamo però stati complici, tanto nella conformazione del sistema come nella sua difesa". Visitò i vescovi cubani come servizio pastorale e loro lo considerarono un vero fratello, critico, ma sincero. Fidel Castro fece lo stesso, e gli mandava regolarmente una cassa di sigari. Il 12 febbraio 1978 lesse durante la messa a Cuernavaca una dichiarazione scritta a Cuba da lui, dal sacerdote nicaraguense Ernesto Cardenal e dal Carlos Comin, cristiano del Partito Comunista Spagnolo : " la chiesa non può prescindere dall'avvenimento cruciale in cui sta immersa e che commuove tutto il popolo cubano: la costruzione rivoluzionaria. La sua sorte non può essere separata dalla sorte del popolo che vive sotto la costante minaccia dell'imperialismo". Don Sergio in Nicaragua dichiara: "non vengo di passaggio… vengo come rivoluzionario, come amico. E non sono giudice, sono parte". Come presidente del Tribunale dei Popoli, scrive ai vescovi degli Stati Uniti d'America, dopo l'invasione a Granada: "Il vostro governo, torna a utilizzare il metodo delle invasioni, che non sono soltanto violazioni dei molteplici diritti, ma principalmente troncano impietosamente realizzazioni, allegrie e illusioni di molti popoli." Quando compì le sue nozze d'argento episcopali non ricevette la lettera del Papa (Giovanni Paolo II), abituale per queste occasioni. Questo gli provocò un grande dolore, che espresse più tardi, presentando la sua rinuncia al compimento del 75° anno di età. Don Sergio rispose sempre alle critiche e alle incomprensioni con pace e indulgenza. Mai si senti perseguitato. Assistette ai funerali dell'Arcivescovo di San Salvador, e da allora lo chiamò "San Oscar Arnulfo Romero". Soffrì la repressione insieme al suo popolo. Al suo fianco caddero molti martiri anonimi. In quel momento decise di organizzare il Comitato di Solidarietà con il Salvador, oggi SICSAL, esteso in tutta l'America e l'Europa. Lasciando la sede episcopale nel 1983, Don Sergio ebbe come cattedrale il cielo dell'America Latina. Vennero ad ungerlo simbolicamente, nella chiesetta di un sobborgo del Messico, gli esiliati. In quel momento disse: "continuerò ad essere l'amico di tutti i latinoamericani perseguitati, oppressi, torturati…". In seguito si ritirò nella cittadina nahua di Ocotepec, dove celebrò la messa nella sua parrocchia, come un qualsiasi parroco. Continuò a lavorare 12 ore al giorno e ha visitare i piccoli villaggi.



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