I
poveri sono il luogo teologico dove Dio si manifesta
Vescovo
Romero, aiutaci a comprendere che i poveri sono il luogo teologico
dove Dio si manifesta e il roveto inconsumabile da cui egli ci
parta.
Carissimi
fratelli e sorelle,
ci
siamo riuniti in questa stupenda basilica dei Dodici Apostoli
in Roma per celebrare non l'exploit degli uomini, ma l'exploit
di Dio.
Ricordare un martire, infatti, significa individuare il punto
in cui la Parola si gonfia così tanto, che la sua piena
rompe gli argini e straripa in colate di sangue. Che è
sempre il sangue di Cristo: quello del martire ne è come
il sacramento.
Oscar Romero, perciò, è solo lo squarcio della diga.
Gli innumerevoli testimoni che hanno dato la vita per Cristo,
e che stasera ricordiamo in questa liturgia pasquale, sono solo
il varco da cui il Dio dell'alleanza fa sgorgare sulla terra,
in cento rigagnoli, i fiotti della sua fedeltà.
Al Dio dei martiri, quindi, più che ai martiri di Dio,
gloria, onore e benedizione.
Se,
però, il sangue dei martiri, è sacramento del sangue
di Cristo, ci sarà pur lecito stasera sostare in riverente
contemplazione dinanzi a questo sangue. Così come in adorante
contemplazione sosteremo tra poco davanti al calice eucaristico
del sangue di Cristo provocato anch'esso dalla Parola. Che diviene
così densa ed efficace nella celebrazione dei sacramenti,
da realizzare quello che annuncia.
Ecco allora il tema generatore della nostra riflessione: il martirio
di Romero come frutto della Parola.
Scomporremo questo tema in tre momenti, sottolineando come la
Parola di Dio ha costruito nel santo vescovo salvadoregno la spiritualità
dell'esodo, la spiritualità del dito puntato, la spiritualità
del servo sofferente.
Spiritualità
dell'esodo
Esodo
da dove? Dal nascondiglio di una fede rassicurante, intimistica,
senza sussulti.
Quando ho letto che la conversione spirituale di Romero è
avvenuta esattamente dieci anni fa, allorché nel marzo
1977 venne ammazzato, con altri due compagni di fede, padre Rutilio
Grande (un prete che aveva scelto di operare per la redenzione
di un mondo gravato dalla miseria e dalla sofferenza), mi è
venuto subito in mente un libro di von Balthasar: "Cordula,
ovverosia il caso serio.
Cordula era una giovinetta di cui si parla nella leggenda delle
undicimila vergini. Sfuggita alla morte, come vide che le sue
compagne erano state tutte uccise per la causa di Cristo, uscì
dal nascondiglio in cui si era rintanata per paura, e sì
offrì volontariamente alla spada del carnefice.
Ebbene, Cordula (autentica o leggendaria la sua figura, non importa)
mi sembra l'archetipo di Romero.
Il quale, intendiamoci bene, non è che fosse pavido, ma
certo era prudente. Era un professore della fede, non un confessore.
Era uno di quelli che scorgevano nei documenti di Medellin e di
Puebla un attentato all'ortodossia del Vaticano Il. Non simpatizzava
certo per la teologia della liberazione. Era così sospettoso
nei confronti di quei preti che si facevano carico dei problemi
d'ingiustizia e di oppressione vissuti dal popolo, che la sua
nomina ad arcivescovo di San Salvador nel febbraio 1977 venne
salutata con entusiasmo da tutti i quadri del potere costituito.
Un mese dopo, la via di Damasco.
Quando,
sotto le raffiche delle armi cadde pa-dre Rutilio, in ultima analisi
fu lui a cadere sotto l'urto della Parola di Dio e, come per Paolo,
"all'improvviso lo avvolse una luce dal cielo".
Forse, a determinare il suo passaggio deciso dalla solidarietà
col potere all'intransigente op-posizione fu proprio la telefonata
del presidente Molina che, ritenendo di fargli cosa gradita, gli
annunziò per primo l'avvenuta esecuzione di pa-dre Rutilio.
Gli si aprirono allora gli occhi e le orecchie, e intuì
tutta la portata delle parole dell'Esodo: "Ho Osservato la
miseria del mio popolo... ho udito il suo grido... e sono sceso
per liberarlo".
I tre anni di lotta che seguirono, fino alla sua morte, sono legati
a queste risonanze bibliche. Basta leggere le sue omelie per rendersi
conto come, alla radice del suo cambiamento, ci sia solo la Parola
di Dio e non la smania di chi si serve degli oppressi per emergere
e trovare consensi.
Da quell'istante egli cominciò a vivere non pe-ricolosamente,
al punto che la morte se la sarebbe cercata con la sua caparbietà
sia pure carica di tensioni morali. Ma fedelmente, scandendo cioè
le sue scelte sugli stessi ritmi di Dio, fedele all'alleanza,
che ha compassione dei suoi poveri.
E' ora di finirla con le ingenerose speculazioni che fanno di
Romero un eroe ma non un martire; che presentano quest'uomo come
travolto dall'ideologia ma non afferrato dallo Spirito; e che,
delle quattro virtù cardinali, gli accreditano la giustizia
ma non la prudenza, gli riconoscono la fortezza ma non la temperanza!
Spiritualità
del dito puntato
Ma
la Parola di Dio, oltre la spiritualità dell'esodo, ha
costruito nel santo vescovo salvadoregno la spiritualità
che, raccogliendo lo spunto da un apologo, potremmo chiamare del
dito puntato.
Fu lo stesso Romero a raccontarlo, nell'omelia del funerale di
padre Navarro, un altro prete ucciso nel maggio del 1977: "Si
narra che una carovana, guidata da un beduino del deserto, era
di-sperata per la sete e andava cercando acqua nei miraggi del
deserto. E la guida diceva loro: Non di là, di qua. E così
varie volte, finché uno della Carovana, innervositosi,
tirò fuori la pistola e sparò alla guida che, ormai
agonizzante, tendeva ancora la mano per dire: non di là,
ma di qua. E così morì, indicando la strada".
C'è in questo apologo il riverbero di una coscienza profetica
che in Romero ha ormai preso corpo e che, di giorno in giorno,
diventa sempre più chiara. "Così dice il Signore:
grida a squarciagola, non avere riguardo. Come una tromba, alza
la voce. Dichiara al mio popolo i suoi delitti, alla casa di Giacobbe
i suoi peccati".
Romero percepisce che vi sono potenze antitetiche alla salvezza
proposta da Cristo e vi si oppone risolutamente con quegli atteggiamenti
tipici che connotano lo stile dei primi martiri cristiani: la
parresia, la kàuchesis, la speranza.
Parresia è lo stile di chi, in piedi, a faccia alta pur
senza protervia, parla apertamente e con piena libertà
di linguaggio del suo incontro con Dio, alla cui Parola si sente
ormai irrevocabilmente consacrato.
Kàuchesis è il vanto che uno mena della croce del
Cristo. E' il gloriarsi di lui, della sua persona, della sua unica
signoria, che diventa fondamento delle proprie scelte personali.
Speranza è l'atteggiamento di colui che, mentre sì
addensano le tribolazioni sulle sue spalle, non lascia spegnere
il canto sulla sua bocca.
Basterà leggere le omelie di Romero per rendersi conto
di come queste tre dimensioni innervarono la sua esistenza teologica.
il parlare con coraggio e a viso aperto rivela, alle sue spalle,
il "più grande io" a cui si è ormai abbandonato,
anche se non mancano i fremiti della paura. "E' normale che
ci tremino le ginocchia - diceva spesso - ma almeno che ci tremino
nel posto in cui dobbiamo essere".
E' parresia anche questa.
Nel
maggio del '79, durante la sua permanenza a Roma, venne proprio
in questa chiesa dei Santi Apostoli e, nella cripta dove si venerano
le tombe degli apostoli Filippo e Giacomo, chiese a Dio il coraggio
di morire, se necessario, come erano morti i testimoni della fede.
Un mese prima della sua morte, sul quaderno degli esercizi spirituali,
annotò: "Il nunzio di Costa Rica mi ha messo in guardia
da un pericolo imminente proprio in questa settimana... Le circostanze
impreviste si affronteranno con la grazia di Dio. Gesù
Cristo aiutò i martiri e, se ce ne sarà bisogno,
lo sentirò molto vicino quando gli affiderò il mio
ultimo respiro. Ma, più dell'ultimo istante di vita, conta
dargli tutta la vita e vivere per lui... Accetto con fede la mia
morte per quanto difficile essa sia. Né voglio darle un'intenzione,
come vorrei, per la pace del mio paese e per la crescita della
nostra chiesa... Perché il cuore di Cristo saprà
darle il destino che vuole. Mi basta, per essere felice e fiducioso,
sapere con certezza che in lui è la mia vita e la mia morte;
che, nonostante i miei peccati, in lui ho riposto la mia fiducia,
e non resterò confuso, e altri proseguiranno con più
saggezza e santità il lavoro per la chiesa e per la patria".
Splendido! E' la Kàuchesis.
E' il "nos autem gloriari oportet in cruce Domini nostri
Jesu Christi"!
E, infine, la speranza: orizzonte globale di que-sta spiritualità
che abbiamo chiamato "del dito puntato" e che spinge
il beduino morente a indi-care ancora, alla carovana smarrita,
le piste da percorrere. Forse non c'è nessuna parola così
frequente del vocabolario: di Romero come la parola speranza.
Anzi, lo sapete, fu l'ultima parola da lui pronunciata quella
domenica del 24 marzo 1980 alle ore 18,25, nella chiesa dell'ospedale
della Divina Provvidenza mentre celebrava l'offertorio: "In
questo calice il vino diventa sangue che è stato il prezzo
della salvezza. Possa questo sacrificio darci il coraggio di offrire
il nostro sangue per la giu-stizia e la pace del nostro popolo.
Questo mo-mento di preghiera ci trovi saldamente uniti nella fede
e nella speranza". Un colpo di fucile lo introdusse nella
cena del Signore.
Spiritualità
del servo sofferente
A
ispirare le scelte di Romero non furono certo la lettura dei testi
marxiani e neppure le trascrizioni in chiave ideologica di qualche
esponente deteriore della teologia della liberazione, e nep-pure
l'ambigua suggestione di riconquistare nuovi spazi sociali da
parte della chiesa, riscoprendo i bisogni dei poveri e utilizzando
a scopo strumentale le sofferenze degli oppressi. Furono invece
le assidue meditazioni sui carmi del servo sofferente di Jahweh.
Quanto dolore e quanta tenerezza, quanta passione e quanto coraggio,
quanta rabbia e quanta preghiera, quanta denuncia e quanta pazienza
vibrano nelle parole di questo "vescovo fatto popolo"!
"Abbiamo incontrato i contadini senza terra e senza lavoro
stabile, senz'acqua, senza luce e senza scuole. Abbiamo incontrato
gli operai privi di diritti sindacali, licenziati dalle fabbriche
quando reclamano e completamente alla mercé dei freddi
calcoli dell'economia. Abbiamo trovato gli abitanti dei tuguri,
la cui miseria supera ogni immaginazione, con l'insulto permanente
dei palazzi vicini. In questo mondo disumano, la chiesa della
mia arcidiocesi, sacramento attuale del servo sofferente di Jahweh,
ha cercato di incarnarsi".
Si
staglia così nella visione pastorale di Romero, con tutta
la limpidezza dei contorni biblici e con tutta la cogenza di un
impegno di "compagnia" e di "consolazione",
la categoria dei poveri, che diventano il principio architettonico
di ogni rinnovamento sociale. "Il mondo dei poveri è
la chiave per comprendere la fede cristiana... I poveri sono quelli
che ci dicono cos'è la "polis", la città,
e che cosa significa per la Chiesa vivere realmente nel mondo...
Tutto questo non solo non ci allontana dalla nostra fede, ma ci
rimanda al mondo dei poveri come al nostro vero posto!..."
Bisognerebbe leggere tutto intero il discorso pronunciato da Romero
all'università di Lovanio, prima che venisse insignito
della laurea honoris causa, per capire quanto sapore di vangelo
c'è sempre nelle parole di questo santo vescovo salvadoregno:
"La speranza che predichiamo ai poveri, la predichiamo per
restituire loro dignità e per incoraggiarli a essere essi
stessi autori del proprio destino. In una parola, la Chiesa non
solo si è messa dalla parte del povero, ma fa di lui il
destinatario delta sua missione, perché, come dice Puebla
Dio prende le loro difese e li ama... Le maggioranze povere del
nostro paese sono oppresse e represse quotidianamente dalle strutture
economiche e po-litiche. Da noi continuano a essere vere le terribili
parole dei profeti d'Israele. Esistono tra noi quelli che vendono
il giusto per un denaro e il povero per un paio di sandali; quelli
che accumulano violenza e saccheggio nei loro Palazzi; quelli
che schiacciano i poveri; quelli che accumulano casa su casa e
aggiungono campo a campo fino a occupare tutto il terreno... Questi
testi dei profeti Amos e Isaia non sono voci lontane di molti
secoli fa... Sono realtà quotidiane, la cui intensa crudeltà
viviamo giorno per giorno. Le viviamo quando vengono da noi madri
e spose di prigionieri e di scomparsi, quando appaiono cadaveri
sfigurati in cimiteri clandestini, quando sono uccisi coloro che
lottano per la giustizia e per la pace!... Noi crediamo con l'apostolo
Giovanni che Gesù è la parola di vita e che, dove
c'è la vita, ci si manifesta Dio. Dove il povero comincia
a vivere, dove il povero comincia a liberarsi, dove gli uomini
sono capaci di sedersi intorno a una tavola comune per condividere
ciò che hanno, là è presente il Dio della
vita".
C'è
in queste parole non solo la consapevolezza che il vangelo non
è una metodica di emancipazione, ma anche il convincimento
che la povertà e la sofferenza non sono soltanto un oggetto
da eliminare, bensì una realtà di cui farsi carico
come il servo sofferente di Jahweh.
Ecco le coordinate che hanno strutturato il martirio di Oscar
Arnulfo Romero, alla cui origine, come a tutte te origini sacramentali,
c'è la Parola. E ora permettete che davanti al segno sacramentale
del sangue di questo martire esprima una preghiera che dia significato
al silenzio ado-rante che riserveremo tra poco al segno sacramentale
del sangue di Cristo.
Noi
t'invochiamo
Noi
t'invochiamo, vescovo dei poveri, intrepido assertore della giustizia,
martire della pace: ottienici dal Signore il dono di mettere la
sua Parola al primo posto e aiutaci a intuirne la radicalità
e a sostenerne la potenza, anche quando essa ci trascende.
Liberaci dalla tentazione di decurtarla per paura dei potenti,
di addomesticarla per riguardo di chi comanda, di svilirla per
timore che ci coinvolga.
Non permettere che sulle nostre labbra la Parola di Dio si inquini
con i detriti delle ideologie. Ma dacci una mano perché
possiamo coraggiosamente incarnarla nella cronaca, nella piccola
cronaca personale e comunitaria, e produca così storia
di salvezza.
Aiutaci a comprendere che i poveri sono il luogo teologico dove
Dio si manifesta e il roveto ardente e inconsumabile da cui egli
ci parla.
Prega, vescovo Romero, perché la Chiesa di Cristo, per
amore loro, non taccia.
Implora lo Spirito perché le rovesci addosso tanta parresia
da farle deporre, finalmente, le sottigliezze del linguaggio misurato
e farle dire a viso aperto che la corsa alle armi è immorale,
che la produzione e il commercio degli strumenti di morte sono
un crimine, che gli scudi spaziali sono oltraggio alla miseria
dei popoli sterminati dalla fame, che la crescente militarizzazione
del territorio è il distorcimento più barbaro della
voca-zione naturale dell'ambiente.
Prega, vescovo Romero, perché Pietro che ti ha voluto bene
e che due mesi prima della tua morte ti ha incoraggiato ad andare
avanti, passi per tutti i luoghi della terra pellegrino di pace
e continui audacemente a confermare i fratelli nella fede, nella
speranza, nella carità e nella difesa dei diritti umani
là dove essi vengono calpestati.
Prega, vescovo Romero, perché tutti i vescovi della terra
si facciano banditori della giustizia e operatori di pace, e assumano
la nonviolenza come criterio ermeneutico del loro impegno pastorale,
ben sapendo che la sicurezza carnale e la prudenza dello spirito
non sono grandezze commensurabili tra loro.
Prega, vescovo Romero, per tutti i popoli del terzo e del quarto
mondo oppressi dal debito. Facilita, con la tua implorazione presso
Dio, la remissione di questi disumani fardelli di schiavitù.
Intenerisci il cuore dei faraoni. Accelera i tempi in cui un nuovo
ordine economico internazionale liberi il mondo da tutti gli aspiranti
al ruolo di Dio. E infine, vescovo Romero, prega per noi qui presenti,
perché il Signore ci dia il privilegio di farci prossimo,
come te, per tutti coloro che faticano a vivere.
E se la sofferenza per il Regno ci lacererà le carni, fa'
che le stigmate, lasciate dai chiodi nelle nostre mani crocifisse,
siano feritoie attraverso le quali possiamo scorgere fin d'ora
cieli nuovi e terre nuove.
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Omelia pronunciata nella Basilica dei Santi Apostoli in Roma,
il 23 marzo 1987, nel settimo anniversario del martirio di Oscar
Romero.
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