Per
una strategia della pace*
l'ambiguità dei nostro "martirio" non ci faccia
tentennare di fronte alle "onnipotenze" del mondo
Gerusalemme,
tema generatore
1.
Se ricorriamo a uno schema biblico, non è solo per un bisogno
di organicità espositiva, ma anche perché vorremo
tonificare la saldezza delle nostre analisi, esemplare lo stile
del nostro impegno, irrorare la genialità delta nostra
prassi di pace, e non banalizzare le nostre utopie.
Lo schema biblico fa perno attorno a un fortissimo tema generatore
che sì racchiude in una parola: Gerusalemme. Lo snoderemo
in quattro icone.
Nessuno è ormai tanto digiuno di riferimenti scritturistici
da non sapere che Gerusalemme è la città santa,
che già nella sua etimologia ne rievoca tutta la galassia
dello "Shalom" biblico.
E' la "beata pacis visio": il simbolo, l'immagine della
pace. Anzi, la sede per eccellenza della pace:
"Glorifica il Signore, Gerusalemme; loda, Sion, il tuo Dio..
egli ha messo pace nei tuoi confini, e ti sazia con fior di frumento"
(Salmo 147,12-14).
Verso Gerusalemme, casa del Dio della pace, si orientano i passi
dei pellegrini ebrei. A Gerusalemme diroccata si volgono le nostalgie
degli esuli che hanno perso la pace in terra di Babilonia. Su
Gerusalemme si impernia tutta la vita terrena di Gesù,
Principe della pace. Verso la Gerusalemme celeste, luogo della
pace escatologica, si muove finalmente tutta la storia universale.
Sulla scorta, allora, di questo tema generatore, tracceremo quattro
proiezioni:
- salire a Gerusalemme (linea ermeneutica della pace);
- sostare a Gerusalemme (linea dossologica della pace);
- scendere da Gerusalemme (linea politica della pace);
- verso la Gerusalemme del cielo (linea utopica della pace).
Salire
a Gerusalemme
2.1
Per gli Ebrei era sempre un momento di grande intensità
emotiva il pellegrinaggio verso Gerusalemme, "città
del sommo Dio".
Quando arrivavano certe date classiche, un fremito di commozione
prendeva l'animo di tutti. E mentre salivano verso il colle di
Sion, cantavano i salmi detti appunto delle "ascensioni".
Uno dei più belli è il salmo 122: "Quale gioia,
quando mi dissero: andremo alla casa del Signore. E ora i nostri
piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme! ... Domandate pace
per Gerusalemme: sia pace a coloro che ti amano; sia pace sulle
tue mura, sicurezza nei tuoi baluardi. Per i miei fratelli e i
miei amici io dirò: su di te sia pace":
L'icona degli ebrei che salgono verso Gerusalemme, città
della pace, deve essere paradigmatica per noi, pellegrini che
faticosamente saliamo le alture alla ricerca della pace.
Eccoci condotti, allora, alla dimensione ermeneutica del nostro
impegno: quella della ricerca.
Si potrebbe assumere come telaio di questa prima dimensione la
frase di un monaco certosino del 1100, Guigo Il, che, parlando
della "lectio divina", cioè della metodologia
da usare per leggere compitamente, in modo sapienziale, la Parola
di Dio, scandisce quattro momenti: la lettura, la meditazione,
la preghiera, la contemplazione. E dice così: "La
lettura è un esercizio esteriore, la meditazione è
una comprensione intellettuale, la preghiera è desiderio,
la contemplazione è superamento di ogni senso.
Ora, ecco la prima proiezione.
I credenti dovrebbero essere testimoni di una "lectio divina"
della pace. Scandendo, appunto, i quattro momenti che venivano
proposti ai monaci per la "lectio divina" della Parola.
2.2
Anzitutto la lettura. Di che cosa? Dei segni di guerra e dei segni
di pace.
Gli apparecchi ricetrasmittenti dell'opinione pubblica sono spesso
grossolani. Registrano solo ingiustizie e guerre "scenografiche".
E comunicano solo segnali di pace connotati dall'enfasi.
Dovremmo avere antenne più sensibili a captare le modulazioni
di violenza emesse da tutte le direzioni.
La violenza a onde corte che viene perpetrata, ad esempio, mediante
l'aborto.
Dopo gli anni roventi degli steccati culturali e degli scontri
etici, pare che il bisogno di una autentica difesa della vita
non nata stia ricongiungendo le sue proiezioni con l'ansia di
un mondo affrancato dall'incubo nucleare, verso un comune allargamento
degli orizzonti di quelle evidenze etiche che tutti si affannano
a proclamare in decadimento.
La violenza a onde medie che viene perpetrata in paesi pure vicini
a noi, ma non sempre collocata nella focale dei "media".
Così sui massacri che avvengono nel Libano, in Iran, in
Irak, in Etiopia, in Mozambico, in Sudan..., nei paesi del Medio
Oriente, o sulle violazioni dei diritti umani che vengono perpetrate
non solo in Sud Africa, o in Centro America, o nell'America Latina,
ma anche nei paesi dell'Est europeo, cade la complicità
della stampa e l'indifferenza delle coscienze.
La violenza a onde lunghe che viene subdolamente perpetrata, più
che sul versante dell'avere, su quello dell'essere. Hanno ancora
valore le parole che Solgenitzin scriveva nel 1972: "I tipi
di coercizione più pericolosi per la pace sono quelli che
agiscono senza missili nucleari, senza flotte e senza aviazione,
e sono tanto larvati che si potrebbe quasi scambiarli per tradizioni
e usanze abituali... Per ottenere pace autentica, è necessario
che la lotta contro le forme invisibili, larvate, di violenza
sia condotta con la stessa decisione con cui se ne combattono
le forme clamorose.... L'impegno è quello di cancellare
dagli uomini l'idea che qualcuno possa avere il diritto di usare
violenza contro il diritto e la giustizia. Non si serve la causa
della pace se ci si abbandona alla benignità di coloro
che usano la violenza: la pace è favorita da colui che
integralmente, decisamente e instancabilmente difende il diritto
dei perseguitati, degli oppressi, degli assassinati"
Ma
dovremmo avere anche antenne più sensi-bili a captare le
modulazioni di pace, e a ritrasmetterle per dare speranza alla
gente.
Oggi assistiamo a un impressionante trapasso culturale sul tema
della pace, che si esprime, come osserva E. Balducci, in una duplice
forma:
"quella di superficie, che diventa prorompente quando gli
eventi politici e militari creano le giuste occasioni, e quella
sommersa, che ha i suoi luoghi di incubazione e di creatività
disseminati nelle città e nei villaggi, sotto le denominazioni
più diverse e con i più diversi sostegni: dagli
enti locali ai partiti, dagli istituti scolastici alle parrocchie.
Il movimento per la pace è come una galassia che occupa
la zona intermedia tra l'opinione pubblica e le strutture di partito,
una zona nella quale avvengono, magari silenziosamente, le metamorfosi
chimiche destinate, forse, a mutare in futuro anche gli apparati
del potere. E' difficile ridurre a tratti unitari un fenomeno
che è, come dicono i sociologi, allo "stato na-scente".
Vi si trova il massimalismo utopico che abbraccia in uno slancio
generoso dell'immaginazione il futuro del mondo intero, e l'insistenza
ossessiva su di una opzione particolare, come, tanto per fare
un esempio, l'abolizione della caccia; la pro pensione a risolvere
tutti i problemi sul piano etico, senza tener conto della complessità
del nesso che stringe ed oppone etica e storia; la demonizzazione
degli uomini politici in cui si incarna l'ideologia di sicurezza
armata, e l'idealizzazione della guerriglia contro gli imperi
atomici. E' un mondo fluido quello del movimento per la pace,
in cui si alternano stati di incandescenza e improvvisi raffreddamenti.
Ma, osservato nel suo insieme, esso esprime un vero e proprio
processo di conversione culturale, che investe ormai anche gli
ambienti più tradizionali e che, attraverso la pluralità
eterogenea dei suoi approcci, va elaborando alcune linee che già
prefigurano un disegno unitario destinato ad imporsi, nel futuro,
a tutti i livelli della società".
2.3
Il secondo momento della "lectio divina" della pace
è quello della meditazione. Io vorrei dire: quello della
sistematizzazione teologica.
Purtroppo non c e ancora in Italia una apprezzabile teologia della
pace. Non si va più avanti dei troppo frammentati sussulti
di ordine biblico, e delle pur giuste analisi di linguaggio che
indugiano intorno ai termini shalom, eirene, o intorno al termine
opposto hamas (il contrario di shalom non è guerra, ma
violenza), la violenza essenziale che scompagina il complesso
delle relazioni tra l'uomo e Dio, tra l'uomo e le cose, tra l'uomo
e l'altro uomo.
Quello delta pace viene visto ancora solo come tema di ordine
etico, che risiede cioè esclusivamente nelle nicchie operative
della morale, non un tema di carattere cristologico e trinitario
che cerca cittadinanza negli spazi speculativi della fede.
Non c'è ancora una "irenologia" sistematica.
Si annaspa attorno a incerti riferimenti cristolo-gici, centrati
sul famoso passo della lettera agli Efesini (2,14-18), in cui
si afferma che "Egli (Cristo) è la nostra Pace".
Si intuisce che il Vangelo è annuncio di pace, ma poi per
un verso ci si impantana nelle dissertazioni sulla spada da rimettere
nel fodero o sull'altra guancia da porgere allo schiaffo; mentre,
sul fronte opposto, si tenta addirittura la fondazione di una
teologia della guerra o la legittimazione di una certa violenza
sulla base del Vecchio Testamento e di alcune espressioni del
Nuovo ("non sono venuto a portare la pace, ma la spada"...).
Manca ancora del tutto una riconduzione della pace sul terreno
trinitario: anzi, definirla proprio su questo modulo trinitario
come la convivialità delle differenze, o come icona della
vita trinitaria, sembra poco più che una esercitazione
retorica.
E' davvero malinconico osservare come il cristiano, definito da
Tertulliano "uno che lavora per la vita", non trovi
ancora chiari riferimenti in una "irenologia", che dovrebbe
essere una "obiezione di coscienza totale" di fronte
ai poteri della terra che minacciano di bruciare l'umanità
in un olocausto senza precedenti.
Ecco il compito più duro della "ascesa" verso
Gerusalemme. Emerge da più parti la necessità di
affrontare il problema della fondazione teologica detta pace,
mollando gli ormeggi dall'area moralistica, tecnica, funzionale,
intramondana e diplomatica. Sarà proprio dalla "irenologia"
che si scateneranno nel mondo quei venti freschi e salutari che
rinnoveranno la storia.
2.4
Ed eccoci al terzo momento della "lectio divina": la
preghiera.
E' qui che si deve innestare, in moduli più forti, l'impegno
dei credenti sulla spiritualità della pace. Spiritualità
che non significa confino nelle zone vaporose dei sospiri, o trastullo
di gruppo con la panna montata delle canzonette religiose.
Mi sembra molto significativa una espressione di Nicolas Berdiaeff:
"Il pane per me stesso è una questione materiale.
Il pane per il mio vicino è una questione spirituale".
Spiritualità delta pace significa appunto cercare il pane
per il proprio vicino. Ma significa anche approfondire la coscienza
che il pane "sovrasostanziale" della pace è un
dono che va chiesto a Dio, è qualcosa che l'uomo da se
stesso non può darsi. Lo shalom non nasce dal regolamento
internazionale dei conflitti. Non viene fuori dai trattati e dalle
pattuizioni delle cancellerie. Non è semplice frutto di
operazioni diplomatiche. Non è il puro risultato che si
ottiene da sforzi di buona volontà. Questi elementi sono
pure necessari, ma come predisposizione all'accoglimento del dono
di Dio. Da soli, otterranno al massimo il disarmo, non ta pace.
Produrranno la coesistenza pacifica, non l'esistenza della pace.
La pace è "oriens ex atto", come la Chiesa. E
come ci stiamo abituando a pensare alta "Ecclesia de Trinitate
, così dobbiamo abituarci a pensare
alla "pax de Trinitate". E come la Chiesa non è
una realtà atemporale ma storica, non celeste ma inserita
nel mondo, non utopica ma profetica... così deve essere
la pace. E come la Chiesa, icona detta Trinità, è
epifania e primizia del mondo nuovo come Dio lo ha progettato
dall'eternità, così la pace sulla terra, icona della
vita trinitaria, deve essere epifania e primizia della pace del
mondo rinnovato.
Questo parallelo tra Chiesa e pace, caratterizza la spiritualità
delta pace come spiritualità ecclesiale.
Cercare il contesto della più cordiale ecclesialità
non è tentare un'operazione di assestamento aziendale.
Significa, invece, intuire che l'unica trama che può veicolare
l'acqua della pace "oriens ex alto" è la trama
ecclesiale, non tanto per le sue strutture, quanto per il suo
essere "realtà di comunione".
Di qui, dovrebbero scaturire molteplici iniziative tutte da inventare,
e che vanno dalla stimolazione nei confronti delle nostre comunità
ecclesiali, al coinvolgimento "simpatico" dei nostri
pastori, alta pressione rispettosa sui nostri vescovi perché
siano più audaci in certe denunce e impegnino il loro magistero
anche sul terreno difficile della pace, a una maggiore "parresia"
delle nostre Chiese locali, alla riconduzione diuturna delle nostre
realtà di base sul versante della implorazione, secondo
la formula umile e coraggiosa del Card. Etchegherray: "Signore,
dammi l'accortezza di spiegare bene che la pace non è così
semplice come immagina il cuore, ma più semplice di quanto
crede la ragione!".
E che la letizia della pace sia in fermento nella nostra comunità
ecclesiale, è un segno dei tempi che con speranza dovremmo
annunciare. Non è forse vero che per noi credenti d'occidente
la pace è il nostro modo di costruire la liberazione?
2.5
Finalmente siamo arrivati all'ultimo mo-mento della "lectio
divina" della pace: la contem-plazione. Che non e "stasi",
ma "estasi" (ex-sta-sis), cioè movimento, esodo,
sequela.
Sequela di Cristo, che significa camminare nella luce del Signore
e nell'ascolto della sua Parola, con tutte le implicanze difficili
del martirio. Ecco il discorso sulla mitezza, sulla nonviolenza
attiva, sulla povertà come metodo, sul servizio, sulla
partenza dagli ultimi, sul perdono come disarmo unilaterale (insegnatoci
direttamente da Cristo, e così difficile da accogliere
sia a livello personale, sia a livello internazionale).
Senza queste dimensioni, noi credenti divente-remmo solo banditori
di pseudo-profezie, o di una pace "a basso prezzo",
direbbe Bonhoeffer il quale parlava di "grazia a caro prezzo"
Sostare
a Gerusalemme
3.1
Scegliamo anche qui un paradigma biblico tratto dal Vangelo di
Luca: "1 suoi genitori si recavano tutti gli anni a Gerusalemme
per La festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono
di nuovo secondo l'usanza; ma trascorsi i giorni della festa,
mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù
rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero...
Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori,
mentre li ascoltava e li interrogava"
(2,41-61).
L'icona di Gesù che rimane a Gerusalemme e che, nel tempio,
ascolta e interroga, occupandosi delle cose del Padre suo, deve
essere parabolica anche per noi, alla ricerca di uno stile che
ci caratterizzi come operatori di pace.
Eccoci condotti, allora, alla dimensione dossologica del nostro
impegno. Come telaio di questa seconda dimensione, assumo i tre
pilastri che hanno Sostenuto l'incontro di preghiera del 27 ottobre
ad Assisi: silenzio, digiuno, pellegrinaggio.
3.2
Anzitutto, il silenzio. Gesù ascolta, e se rompe il silenzio
è solo per interrogare, non per dare risposte. Mi sembra
che ci sia qui la freccia stradale che ci indica una proiezione
molto significativa sul piano dette nostre metodologie. Chi si
impegna per la pace non è chiamato a emettere un rumore
tra i tanti rumori attuati che parlano di pace. Non ha la vocazione
a dire cose eclatanti, atte a conciliare il fascino della prima
donna o il "look" del protagonista nel concerto degli
"strumenti delta pace". Non è smanioso di emergere,
dicendo ogni volta la sua su ogni problema di fondo o su ogni
vicenda occasionale. Non ha paura di perdere il treno della popolarità,
né si affanna a prendere tutte le coincidenze sotto la
pensilina della cronaca. Non ama declamare la verità, rivestendola
di arroganza. Predilige l'ascolto e la riflessione.
Il suo, però, non è un "silenzio-stampa",
dettato cioè dal calcolo. Tantomeno è un silenzio
prudenziale, pavido, bilanciato, turgido di compromessi. E' un
silenzio che esplode, anzi, con audacia profetica, nella direzione
della Parola rivelata. Diventa allora incontenibile: non imbavaglia
la verità per paura di dispiacere ai potenti; non decurta
la Parola per farla entrare nel clichè delle cautele carnali;
non sterilizza il linguaggio per tener buoni quelli del Palazzo;
non attenua le asprezze "irrazionali" del messaggio
per timore di apparire ingenuo, ma lo trasmette per intero fino
alle sporgenze del paradosso.
Il silenzio diviene così l'utero entro cui la Parola diviene
carne, come nel grembo di Maria.
3.3
Dopo il silenzio, il digiuno.
Siccome nell'antichità era vietato digiunare di domenica,
il digiuno è il segno della ferialità. Colloca pertanto
la pace sul terreno banale e difficile dei giorni normali. Ed
è questo della "ferialità" il digiuno
più significativo che potremmo esprimere nel deserto del
mondo, così pieno di "aspiranti al ruolo dì
Dio".
Forse coinciderà per noi anche col digiuno della gloria
e della cronaca. Ma se ne avvantaggerà la dossologia verso
il Principe della pace.
3.4
E, infine, il pellegrinaggio.
Verso dove? All'interno della comunità ecclesiale e all'esterno,
nello stile della missione.
Più precisamente: verso il cuore della gente, verso il
cuore delle comunità cristiane che stanno nel "tempio",
verso gli ultimi.
E' splendido quell'inciso di Luca che dipinge Gesù "seduto
in mezzo".
Stare in mezzo alla gente. Per interrogarla, ponendole domande
di fondo sul senso della vita. Per coscientizzarla facendo fermentare
i germi di verità depositati nelle più profonde
stratificazioni popolari. Per smuoverla, operando quegli smottamenti
di terreno sul quale il fatalismo e il senso dell'ineluttabilità
hanno sopraelevato edifici di inerzia.
Stare in mezzo alle comunità cristiane. Per animarle al
coraggio. Per esortarle alla denuncia profetica. Per coinvolgerle
nei processi di liberazione planetaria.
Stare in mezzo agli ultimi. Perché, partendo da essi, va
riformulata la strategia di ogni movimento che si impegna per
la pace. E' mettendosi in corpo l'occhio del povero che potremo
ridisenare la cartina geografica dei luoghi dove oggi Cristo è
crocifisso.
Se sapremo compiere questo pellegrinaggio verso la gente (scegliendo
la dimensione popolare del nostro impegno), verso le comunità
ecclesiali (portando al loro interno il soffio della universalità
e della speranza) e verso gli oscuri domicili degli ultimi (rendendoli
protagonisti del loro riscatto), allora si sprigionerà
davvero, dai sotterranei della storia più che dai palazzi
dei potenti, una incontenibile dossologia trinitaria.
Scendere
da Gerusalemme
4.1
L'icona biblica che ci richiama la dimensione politica della pace
e che traduce la coscienza in progetto, è quella del buon
samaritano in viaggio sulla Gerusalemme-Gerico.
E' su quest'asse che si giocano i sogni diurni delle nostre utopie.
E' l'asse che parte dalla Città Santa (Gerusalemme è
la città del tempio; è il luogo dove si celebra
l'ultima cena, dove si consuma la morte di Gesù e si realizza
la sua risurrezione; è l'epicentro della pentecoste...)
e conduce verso Gerico (verso l'ecumene, la storia, anzi la cronaca:
cronaca nera, per giunta, che ha come protagonisti dei briganti,
i quali spogliarono, percossero, lasciarono mezzo morto un uomo,
simbolo di tutti gli oppressi della terra).
E' l'asse su cui la fede interseca la storia, la speranza incrocia
la disperazione della terra, la carità s'imbatte con i
frutti della violenza.
Tra i verbi che traducono i comportamenti concreti del samaritano
("lo vide, n'ebbe compassione, gli si fece vicino, gli fasciò
te ferite, gli versò olio e vino, lo caricò sul
suo giumento, lo portò ad una locanda, si prese cura di
lui"), quello che mi sembra più espressivo è
questo: "gli si fece vicino".
Farsi vicino a chi? AI popolo.
Eccoci condotti allora a quella che, secondo me, dovrebbe essere
l'opzione fondamentale degli operatori di pace: farci vicini al
popolo.
Il samaritano non lasciò il malcapitato sulla strada, per
andare in città a denunciare l'accaduto alle forze dell'ordine.
Non si recò agli sportelli della polizia per sporgere querela
contro ignoti. Non andò a protestare contro le omissioni
del Ministero degli Interni. Non lasciò boccheggiante sul
sentiero verso Gerico quell'uomo mezzo morto per convocare una
conferenza-stampa sul degrado etico della città, o sulle
violenze del sistema, o sull'inadempienza dei poteri costituiti.
Forse, dopo, avrà fatto pure questo. Anzi, visto il suo
zelo, c'è da pensare che in seguito, "il giorno seguente
', abbia assolto anche a questo compito. Diversamente, avrebbe
peccato per omissione di atti di ufficio.
Ma intanto, il gesto fondamentale che ritenne di compiere fu quello
"di farsi vicino", e passare dal piano della denuncia
a quello della costruzione diretta. La pace parte dal popolo e
non dalle cancellerie. Dalle cancellerie semmai vi passa: ma per
trovare le ratifiche, per ricevere il marchio di origine controllata.
L'intelligenza diplomatica e la ragione fredda porteranno allora
a compimento ciò che la profezia creativa, che fermenta
nel popolo, ha già indicato.
Laddove si scopre questa verità, è la democrazia
tutta che avanza, sussulta, si migliora. Sicché la testimonianza,
la solidarietà, la partecipazione, il coinvolgimento del
popolo si pongono al servizio di un unico grande progetto storico
da realizzare. Divengono i nuovi strumenti della politica. Gli
impegni concreti da assumere con forza dovrebbero essere il riflesso
di questa opzione di fondo. E quali sono?
Ne individuiamo cinque, o meglio proponiamo cinque aree:
4.2
L'area della educazione alla pace.
Forse potrà sembrare una forzatura, ma io considero che
il discorso sulla educazione alla pace è il crinale, o
se si vuole, la peripezia decisiva su cui ogni movimento si gioca
la sopravvivenza.
Oggi stanno esplodendo numerose iniziative che hanno come scopo
la promozione di una cul-tura della pace. Soprattutto nel mondo
della scuola assistiamo a una fecondità di pubblicazioni
e programmi, non gestiti più in termini di semplice trasmissione
della cultura tradizionale. Un nuovo ecumenismo culturale si sta
organizzando proprio attorno al tema della pace.
4.3
L'area della nonviolenza e della difesa popolare nonviolenta.
Si inserisce qui non solo un maggiore approfondimento concettuale
della nonviolenza come valore di popolo, ma anche la comprensione
delle metodologie nonviolente, in relazione con la fede.
L'irrobustimento che si compie nella nonviolenza tra la fede e
la storia. Il ricongiungimento tra morale individuale e quella
collettiva.
Si inserisce qui il lavoro di coscientizzazione popolare contro
il commercio delle armi e la militarizzazione del territorio.
Si inserisce qui tutta l'azione educativa della base perché
si accorga degli effetti disastrosi della violenza tecnologica.
L'ecologia è un grosso capi-tolo del grande libro della
pace.
4.4
L'area dei diritti umani e del rapporto Nord-Sud.
Lo spostamento dell'asse che spaccava l'Est dall'Ovest sulla demarcazione
che divide il Nord dal Sud ci ha fatto prendere coscienza che
mancanza di pace non è solo la guerra, ma la violazione
dei più elementari diritti umani.
Entrano qui tutte le riflessioni sulla qualità della vita.
Sullo sviluppo tecnologico. Sull'allargamento dello sguardo agli
orizzonti della mondialità.
Sul permanere della logica del profitto che tende a riproporre,
nei paesi poveri, fasti e nefasti dei paesi industrializzati.
Sulla solidarietà con i paesi del Terzo Mondo che esige
lo smascheramento del mercato delle armi. Sul Nuovo Ordine Economico
Internazionale. Come anche sulla tragica situazione degli immigrati
in casa nostra. Dobbiamo assecondare gli sforzi che vanno compiendo
anche tante riviste missionarie divenute tribune implacabili contro
le ingiustizie, e divulgare in mezzo al popolo le planimetrie
di tutte le violenze, a partire da quelle che si consumano nel
nostro territorio.
4.5
L'area della obiezione di coscienza.
Non tanto per ciò che immediatamente produce scombinando
i calcoli del potere costituito, quanto per il contenuto di crescita
popolare che essa racchiude.
Starei per dire che non è tanto l'obiezione di coscienza
che ci interessa, quanto la coscienza dell'obiezione. Perché
dietro le quinte di ogni obiezione c'è sempre una coscienza
collettiva che matura.
4.6
L'area delle cesure difficili da ricomporre.
Tra testimonianza personale (ineludibile specialmente sulle scelte
di sobrietà e di coerenza) e progetti sociali.
Tra impegno locale (con tutte le sue logiche di incarnazione e
quindi, di vissuto spicciolo) e mu-tamenti globali.
Tra tensioni di solidarietà concreta (fatta di gesti di
condivisione, di assistenza, di "olio e vino" sulle
ferite) e politica.
Tra diritti dell'uomo (volti verso una nuova qualità della
vita) e sviluppo appropriato.
E' qui, su queste cesure e su queste lacerazioni che dobbiamo
chinarci per operare la ricomposizione o, se volete, per "fasciare
le ferite".
Verso
la Gerusalemme del cielo
5.
"Non abbiamo qui una città stabile, ma cerchiamo quella
futura" (Eb. 13,14).
La città futura è la Gerusalemme nuova, descritta
nei capitoli finali dell'Apocalisse e vista come la dimora della
pace.
C'è un inno bellissimo nella liturgia della Chiesa che
comincia così: "Coelestis urbs Jerusalem, beata pacis
visio". Città della Gerusalemme del cielo, tu sei
uno stupendo spettacolo di pace!
Ecco la nostra ultima icona: quella utopica. La più bella.
Perché è l'icona della speranza.
Di qui nasce tutta la forza che sostiene la nostra fatica di viandanti.
Di qui si muove anche tutta la vergogna che ci deve fare arrossire
ogni volta che l'ambiguità del nostro "martirio"
ci fa tentennare di fronte alle "exousie" (onnipotenze)
del mondo. Di qui trae origine un coraggio che si rinnova, nonostante
la povertà delle realizzazioni, l'incompiutezza dei nostri
disegni, e l'amarezza di dover constatare che, in fatto di pace,
il "già" impallidisce sempre dinanzi al "non
ancora".
Ma non dobbiamo aver paura. Un giorno godremo nella loro interezza
di tutte quelle realtà che qui sulla terra siamo chiamati
a far spuntare allo stato germinale e che ci sforziamo di far
maturare nei segni: la pace, la fraternità, la giustizia,
la libertà.
E' dalla Gerusalemme del cielo (nella quale entreremo 1' "ottavo
giorno") che si deve scatenare l'empito entusiasta per ciò
che agli occhi umani sembra incredibile, assurdo, irraggiungibile:
la nonviolenza, il disarmo, l'unilateralità del disarmo,
il perdono, la rinuncia evangelica, la povertà, la gratuità,
la tenerezza...
Ci accorgeremo finalmente che la pace non è un'aspirazione,
ma è una persona: Gesù Cristo, l'Emmanuele, il Dio
con noi.
"Egli spezzerà l'arco detta guerra e annuncerà
la pace alle genti. Nei suoi giorni fiorirà la giustizia
e abbonderà la pace, finché non si spenga la luna.
E dominerà da mare a mare, dal fiume fino ai confini della
terra." (Salmo 71).
La presenza di Maria, "gloria di Gerusalemme", il cui
grembo materno, curvo come una vela, è segno del "già"
sospinto verso il "non ancora", vuole essere anche l'icona
del nostro pianeta gravido di speranza e proteso verso "cieli
nuovi e terra nuova".
*
Testo base del discorso pronunciato al Congresso nazionale di
Pax Christi, a Rocca di Papa, 1,8 dicembre 1986
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