"Zapata
vive
la lucha sigue"
"El Cristo acompaña
la huelga y la montaña!"
Ma cos'hanno in comune
Cristo e Zapata? Strano accostamento! Strano, in realtà,
solo per noi, giunti in Chiapas con le migliori intenzioni e tutta
la simpatia possibile verso indigeni e zapatisti, ma necessariamente
condizionati dalla nostra cultura. Così ci rendiamo subito
conto che se vogliamo veramente incontrarli - direi "scoprirli"
- e non "conquistarli" nuovamente dentro le nostre categorie
mentali, dobbiamo spogliarci dei nostri schemi culturali ed ecclesiali
europei per dirci: benvenuti nel nuovo mondo! Un mondo che mentre
si svela si mostra veramente "altro".
Il "benvenuto" ce lo da in aeroporto la "migra"
(gli agenti del servizio migrazione che non ci faranno mai sentire
soli) e iniziano le foto, i filmati, i pedinamenti notte e giorno:
ma quanto saremo costati al governo Messicano? Sembra di essere
nell'Est europeo al tempo del Muro: là però non
si facevano "sgamare", qui invece
è pura
ingenuità o tattica di pressione? E' comunque significativo:
l'FM3, il visto che ci permette di visitare i progetti di Enlace
Civile (ONG riconosciuta dal governo), è al tempo stesso
un lasciapassare e un attestato di fastidio: tant'è vero
che dei 95 richiesti ne abbiamo ricevuti, con molta fatica, solo
dieci. Sintomatico per uno Stato che si dice democratico e afferma
solennemente di non aver niente da nascondere!
Comunque il giro inizia. Ed è la volta dei militari. Posti
di blocco che durano anche un'ora, ma non è tempo perso.
Anche i militari hanno un volto, una storia, degli occhi, in molti
dei quali c'è scritto: fame! Inizia il gioco surreale delle
foto a vicende, naturalmente proibite ma in fondo tollerate, e
delle occhiate che ti dicono: non sono cosa ci vieni a fare tu
che stai bene, ma non so neppure che cosa ci faccio io! E, dapprima
in modo inconfessato, inizia in ciascuno di noi una certa lacerazione:
in fondo loro sono i carnefici, i violentatori, gli assassini
- e non per scherzo - di coloro a cui siamo venuti a portare solidarietà:
cos'è questa sorta di pietà, di compassione che
si sta aprendo un varco nei nostri sentimenti? Mi vengono persino
dei sensi di colpa: stiamo tradendo gli indigeni? Ma
cosa
ci sarà nel cuore di quel capitano che ci confida il suo
dolore perché suo figlio si vergogna di lui che è
militare in Chiapas? Non ci conosce, eppure ha così bisogno
di sfogarsi, che al termine per mostrarci una sorta di gratitudine
fa sospendere l'esame dei documenti e ci fa passare con un grande
sorriso. Siamo davvero in un altro mondo! Dentro ho una tempesta
di sentimenti contraddittori che solo gli zapatisti insorti mi
placheranno. Ci dicono: "non ce l'abbiamo con i militari,
sono poveri disgraziati come noi, presi per fame". E di fatti
arrivati nella Selva Lacandona, ad Amador Hernandez, dove due
volte al giorno gli zapatisti sfilano incappucciati ad urlare
slogan intorno al filo spinato del campo militare, vediamo tre
graduati correre come degli ossessi a posizionare degli enormi
altoparlanti e subito a tutto volume la Selva si riempie delle
note dei Beatles. Noto che gli altoparlanti sono rivolti verso
l'interno del campo e ci capisco ancora meno. Poi ci spiegano:
è per impedire ai soldati di ascoltare gli appelli dei
campesinos: "soldato, contadino, non sparare sulla tua gente!
Stiamo resistendo anche per te e per tuo padre rimasto a casa,
sfruttato come noi!" Già hanno visto dei soldati piangere
mentre erano mandati a caricare la folla; un graduato ha persino
dato ordine alle sentinelle di montare con lo sguardo basso per
non vedere i passaggi degli indigeni e lasciarli andare: risultato
ogni quattro-cinque mesi vengono avvicendati tutti i militari
in Chiapas per evitare che comprendano e solidarizzino con la
popolazione, come è successo in Ecuador. Questa è
la democrazia messicana, riconosciuta dall'Unione Europea che
ha concluso un trattato commerciale dopo aver verificato la clausola
sociale sul rispetto dei Diritti Umani! E subito ricominciano
i racconti di stupri, minacce, inquinamento, fame, malattie
A questo punto siamo noi ad aver bisogno di parlare, di confrontarci
per confermarci a vicenda di non aver sognato (un incubo); per
tentare di capire qualcosa. Ad aiutarci nel riprendere con un
po' di razionalità i fili della ragione saranno gli amici
di Enlace Civile e quelli dell'Ufficio dei Diritti Umani "Fray
Bartolomé De Las Casas", della Diocesi di San Cristobal.
Il Chiapas, ci spiegano, è la regione più ricca
del Messico quanto a petrolio, uranio e soprattutto acqua per
la produzione di energia elettrica, sufficiente a soddisfare la
maggior parte del fabbisogno dell'intero paese. Naturalmente nelle
case degli indigeni neanche una lampadina! Inoltre - come abbiamo
potuto vedere - chilometri e chilometri di latifondo in buona
parte adibito a pascolo o coltivato, dove i braccianti sono a
dir poco sfruttati. Con uno dei miei compagni ho potuto raccogliere
la disperata testimonianza di due donne che chiedevano il nostro
interessamento per undici loro compagni. Erano stati catturati
dalla polizia durante uno sciopero pacifico fuori dal "bananero"
dove lavoravano dalle 7 alle 19, sette giorni su sette, per 17
pesos (meno di 4.000 lire italiane) al giorno. Portati in carcere,
non sapevano come aiutarli dal momento che giunti lì bisogna
sborsare 1.000 pesos per aver diritto ad una cella (Io pensavo
al teatro dell'assurdo
ma era realtà). L'alternativa
è il cortile della prigione col sole e con l'acqua, di
notte e di giorno. Altri 1.000 pesos poi per evitare maltrattamenti
e i lavori peggiori. La tortura prevede la reclusione in sgabuzzini
completamente bui per giorni interi, le botte e l'essere gettati
nella fossa biologica fino al collo. Pagare un avvocato è
naturalmente oltre ogni loro possibilità; sola speranza
è l'assistenza gratuita dell'Ufficio dei Diritti Umani
diocesano e dei suoi legali. Per quelli rimasti a coltivare "in
proprio" le cose non vanno meglio. Gli indigeni sono stati
cacciati nei terreni più impervi e poveri, dove ci stavano
solo gli alberi. Ma ora sono arrivate le multinazionali del legname
ed il governo sta obbligando le comunità a dividere tra
i singoli gli atti di proprietà della terra comune, per
essere più facilitato nelle pressioni - e minacce - che
opera perché vendano a sottocosto. E' la vecchia tattica
latina del "dividi et impera". Quando tutto sarà
disboscato, il terreno sarà pronto per nuovi latifondi
di pastorizia. E a questo punto mi affiora una domanda che nella
sua ingenuità ed evidenza si tinge di cupi presagi: "ma
dove diavolo vogliono che vadano gli indigeni? Dovranno pure metterli
da qualche parte!" La risposta sta nella prassi. I militari
inquinano le fonti, così le malattie dilagano e non ci
sono né farmaci né soldi per comprarli. La mortalità
infantile sale vertiginosamente. I bambini hanno già il
30% di deficit celebrale dovuto alla malnutrizione: solo mais
e fagioli, qualche volta un uovo. La campagna "Progresa"
del governo per la vaccinazione a donne e bambini (vengono pure
pagati per incentivarli a sottoporsi) spesso maschera la prassi
della sterilizzazione. Le stragi, quali quella di Acteal del 22
dicembre 1997 ai danni della comunità cristiana "Las
Abejas", raccolta in preghiera per la pace, che fece 45 vittime
in prevalenza donne e bambini, o quella di El Bosque, sono garantite
dai gruppi paramilitari, assoldati tra gli stessi indigeni e armati
dall'esercito che non vuole esporsi più del necessario.
La violenza sulle donne, prassi dell'esercito, impedisce loro
di uscire dalle comunità per lavorare o per recarsi al
mercato. Una tensione psicologica distruttiva è ottenuta
mediante quotidiani raid aerei o di elicotteri sulle baracche
e con minacce quali lo sgozzamento parziale dei pochi animali,
che avendo il tempo di tornare al campo sanguinanti servono da
ammonimento: "se uscite fate la stessa fine". Le trappole
uccidono quel poco di allevamento, finalizzato per lo più
al mercato per poter comprare qualche medicina. Questa è
la risposta alla mia ingenua domanda: "Pulizia etnica a bassissima
intensità". Il governo di Zedillo non è certo
grossolano come quello di Milosevic: le stragi di massa richiamano
l'attenzione del mondo (Acteal fa scuola) e imbarazzerebbero i
potenti vicini e alleati Usa. Una morte giornaliera per fame,
malattia, qualche assassinio
non fa notizia: è solo
questione di tempo. E permette all'ipocrisia dei grandi di non
vedere. Non si tratta solo di USA o Unione Europea. A Polho abbiamo
incontrato una comunità di trecento persone che due anni
fa ha accolto novemila profughi, condividendo la fame, il fango
e la mancanza di tutto. L'Alto Commissariato per i Rifugiati delle
Nazioni Unite, non muove un dito perché la sua competenza
riguarda solo i profughi in terra straniera e lì è
ancora Messico. Pochi chilometri più a Sud è Guatemala
e allora sarebbe stata tutta un'altra cosa: peccato che non lo
sapevano! La Croce Rossa Internazionale presente nel campo ha
accettato di distribuire solo la quantità di viveri permessa
dal governo: una quantità ridicola in piena emergenza alimentare.
E la gente muore di fame! Così vengono sterminati oggi
i discendenti degli antichi Maya. A fronte di tutto questo sta
la loro millenaria dignità che nello scontro con questa
nuova emergenza ha pure trasceso se stessa. Non abbiamo incontrato
un bambino o una donna che chiedesse l'elemosina nelle comunità,
al contrario di quanto avviene in città. Nelle comunità
in rivolta è proibito qualsiasi alcolico, tanto più
gli stupefacenti, e questo per esplicita volontà delle
donne. La violenza è bandita: dopo l'insurrezione del 1
gennaio 1994, non un colpo è stato sparato dagli insorti.
Questo imbarazza più di tutto il governo: avere 70.000
effettivi stanziati e mancare di pretesti per lanciare l'azione
finale. La lotta zapatista si conduce con le armi degli ideali,
della verità, della giustizia e corre sulle labbra, sulla
carta, su internet. Se la verità non è dalla tua
parte non puoi inventartela e non ci sono proiettili o bombe capaci
di far saltare le idee! Infine un ultimo aspetto che ha oltrepassato
le nostre aspettative è la religiosità di questa
gente. La vergine di Guadalupe (magari con il bavaglio zapatista
come ad Oventic) si accompagna sui murales delle baracche al Che
e a Zapata. Nella comunità di Jerusalem, base di appoggio
zapatista, siamo stati accolti nella baracca-chiesa ed il diacono
che serve questa ed altre sei comunità, a rischio della
vita, ci ha fatto pregare prima e dopo l'incontro. Qui una donna
si è avvicinata al microfono ed in lingua Tzotzil ha detto:
"per 40 anni abbiamo avuto un grande vescovo: Tatic (Mons.
Ruiz); ora avevamo un altro bravo vescovo: Raul Vera, ma ce l'hanno
tolto. Perché la Chiesa ci abbandona così?".
Io ho ringraziato il buon Dio di non saper parlare in Tzotzil,
e mi sono ingoiato lo spagnolo. Ho pensato solo che oggi, come
duemila anni fa, Dio non abita più il pinnacolo del Tempio
e neanche il Sancta Santorum: è di nuovo fuori dalla città,
nelle capanne del mondo. Anche la fede in Chiapas va per sentieri
sconosciuti e "rigenera come aquila la sua giovinezza".
In sintesi mi resta un'immagine: quella dello zapatista incappucciato
con il braccio alzato che invita i militari a mettersi dalla stessa
parte. Non imbraccia il fucile, ma stringe al petto un bimbo,
Giacinto, di pochissimi anni. Sotto quel passamontagne non si
cela un volto, ma infiniti: il suo, il mio, quelli di tutti quanti
credono che la tenerezza e non la violenza, la fede e non il mercato,
la solidarietà e non il neoliberismo libereranno l'umanità
dalla schiavitù del denaro che uccide, aprendola a pienezza
di vita. E' questa la speranza che a dispetto di tutto in Chiapas
ha iniziato a germogliare e noi l'abbiamo respirata.
Alberto
Vitali
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