"Ho
visto almeno tre cadaveri sulla pista, tra cui una bambina. Anzi,
erano pezzi di cadavere. Non so dirti esattamente quanti morti…"
(G. Strada, Buskashì, Feltrinelli p.106). Il team di Emergency,
l'associazione umanitaria italiana per la cura e la riabilitazione
delle vittime di guerra e delle mine antiuomo, sta attraversando
la "terra di nessuno" che divide la porzione di Afghanistan controllata
dai mujaheddin dell'Alleanza del Nord dal resto del paese, ancora
in mano ai talebani. L'amico che dal mattino li aspettava al "fronte"
racconta gli "effetti collaterali" del bombardamento appena compiuto
dai B52, i bombardieri dell'aviazione statunitense, che hanno
raso al suolo Solonak, un villaggio di contadini, colpevoli di
abitare, da sempre, in quella porzione di terra dove ora si confrontano
le parti in conflitto… Era l'8 novembre 2001, esattamente un mese
dopo l'inizio (il 7 ottobre) di Enduring Freedom, la campagna
militare degli USA e dei loro alleati contro l'Afghanistan "filoterrorista".
Ricorre dunque in questi giorni il primo anniversario di quella
tragedia e Viator volendo fare memoria delle vittime - di tutte
le vittime - invita i suoi lettori a fermarsi un attimo per pensare
e magari pregare. Purtroppo, a distanza di un anno, dobbiamo ancora
ripetere: "non so dirti esattamente quanti morti"; forse non lo
sapremo mai… Di certo non abbiamo elenchi di nomi da leggere,
quale litania laica, e tanto meno le immagini violente e crude
della loro fine. Se la morte è ingiusta per tutti, i poveri riescono
sempre ad essere più poveri, anche nella morte! Non altrettanto
però nel nostro ricordo ed è per questo che sfidando la propaganda
dominante ed ogni regola non scritta del politically correct,
a distanza di un anno troviamo il coraggio non solo di rivendicare
la loro memoria, ma anche di dar voce - e tentare timidamente
di interpretare - i sentimenti di milioni di altre vittime che
hanno assistito impotenti alle tragedie di New York, di Washington,
dell'Afghanistan… Nelle ore successive al crollo delle Twin Towers,
quando ormai i media di tutto il mondo avevano già trasmesso centinaia
di volte quelle orribili sequenze - non ricordo d'averne viste
di peggiori - e l'obiettivo tornava ad allargarsi dal centro di
Manatthan al resto del pianeta, l'immagine che veniva raffigurata
era quella di un mondo diviso tra una maggioranza assoluta, accomunata
nell'angoscia e nel pianto, ed una minoranza - limitata, ma reale
- che invece gioiva di quanto accaduto. Era una prima, embrionale,
raffigurazione del nuovo scenario internazionale che di lì a qualche
ora il presidente Bush avrebbe teorizzato, mutuandolo dai suoi
predecessori: un mondo diviso tra l'impero del bene e quello del
male, l'eterna e mitica lotta dei giusti contro i malvagi. Al
di là dell'interessata quanto evidente semplificazione demagogica,
tale netta separazione non teneva conto però di una terza sensazione,
che nemmeno i diretti interessati e le persone a loro più vicine
riuscirono a spiegarsi in quelle ore. Era il sentimento - violentemente
contraddittorio - di dolore e speranza, provato in tutto il mondo
dalle vittime della "dittatura dell'imperialismo internazionale
del denaro" (Pio XI, Quadragesimo anno, 109 e Paolo VI, Populorum
Progressio, 26) nel vedere il gigante inaspettatamente colpito…
Da allora, diversi amici, che nella vita hanno pagato caro le
conseguenze dell'egemonia statunitense sui loro paesi, mi hanno
raccontato sottovoce, con pudore e una punta di vergogna - vinta
solo dalla fiducia di essere compresi - cosa hanno provato in
quegli orribili momenti… e se ho potuto capirli è stato soltanto
perché anch'io (per quanto avessi tentato di negarlo a me stesso)
avevo sperimentato lo stesso mix esplosivo e contraddittorio di
emozioni. Per questo, ora, il bisogno di interpretarle non è semplicemente
un gesto di amicizia e solidarietà nei loro confronti, ma una
necessità che si impone anche alla mia coscienza… E come spesso
mi è capitato nei momenti difficili, è ancora la Bibbia a soccorrermi,
per permettermi di dirmi - e dire - l'indicibile. E' mai possibile
provare dolore, sconcerto fino alle lacrime, in una situazione
che, per altri aspetti, apre invece alla speranza di qualche sconvolgimento
nell'ordinamento mondiale, che possa alleviare la pena di vivere?
Nell'ordine delle cose naturali non dovrebbe esserlo, ma nel disordine
generato dalla violenza di un sistema economico e politico oppressivo
di fatto lo è. Tanto da poter piangere sinceramente le vittime
innocenti di New York e Washington, ma non la caduta del World
Trade Center o la distruzione di un ala del Pentagono. L'ambiguità
di tale situazione non è certo una novità del nostro tempo: è
piuttosto una costante che si ripete ogniqualvolta si presentano
analoghe circostanze… La Bibbia, senza legittimarla, la registra
come un dato di fatto: Mosè e le tribù ebraiche cantarono inni
di lode a Jahweh, dopo che le piaghe e le acque del mare avevano
duramente colpito l'Egitto, spezzando il giogo che li opprimeva.
Eppure, anche quella volta, morirono un sacco di innocenti che
nulla avevano a che fare con le decisioni del faraone. Per questo
i rabbini d'Israele sentiranno il bisogno di mitigare l'impatto
emotivo e teologico del testo biblico, elaborando un midrash in
cui narrano un rimprovero che Dio avrebbe rivolto agli angeli,
perché esultavano per la fine degli egiziani: "come potete gioire,
dal momento che sono morti molti uomini, essi pure miei figli?".
Se l'esercito era uno strumento di grande oppressione, i soldati
restavano pur sempre uomini, poveri come gli altri, obbligati
a combattere dalla fame! Al tempo stesso, però, era finita la
schiavitù e gli ebrei tirarono un sospiro di sollievo. Qualcosa
di analogo si ripeterà nella vicenda di Davide e Golia. Costui,
per quanto grande e temibile, non era certo responsabile delle
brame di conquista del suo sovrano: chissà se Davide, nel momento
di ucciderlo, ha visto negli occhi del filisteo la stessa fame
di vita che c'era nei suoi? Ma quella sera Israele gioì per essere
scampato all'invasione. Ancora più laceranti appaiono le minacce
dei profeti sulla fine di Samaria e Gerusalemme: a farne le spese
non saranno solo le rispettive case regnanti, corrotte e violente,
ma anche il popolo inerme, già vittima della loro oppressione…
E' questa ambiguità della storia, o meglio delle conseguenze del
disordine morale che regna nella storia, a far sì che grandi e
ingiuste tragedie possano accompagnarsi ad occasioni - o almeno
speranze - di liberazione, dove appare chiaro che non esiste alcuna
legittima identificazione tra le vittime di turno e l'iniquità
delle istituzioni del loro paese. Ora, proprio l'illegittimità
di questa identificazione deve essere definitivamente smascherata
e denunciata, perché non venga di nuovo usata quale salvacondotto,
per perseguire altri cruenti progetti. Vale a dire: se sono innocenti
le vittime di New York e Washington, non lo è altrettanto la politica
estera degli Stati Uniti, ed il sangue sparso negli USA da indiscutibili
criminali non lava quello di altre migliaia di vittime, sparso
nel resto del mondo, dalle campagne militari del governo di Washington,
prima e dopo questo 11 settembre! Tanto per non citare il "solito"
Vietnam, basterebbe pensare ad uno qualsiasi dei paesi latinoamericani,
dall'Argentina al Messico, passando per Cile, Colombia, Panamá,
Nicaragua, Salvador, Guatemala… O magari al Medio Oriente, al
sud est asiatico… per rendersi conto, senza bisogno d'essere analisti,
di quali complicità si siano rese colpevoli le diverse amministrazioni
americane nelle ultime decadi e di come quegli orribili attentati
non nacquero dal nulla: non sarà certo promovendo altri conflitti,
con sempre più vittime innocenti, che si potrà risolvere questo
genere di problemi! Se è vero che: "Il terrorismo è e sarà sempre
una manifestazione di disumana ferocia, che, proprio perché tale,
non potrà mai risolvere i conflitti tra esseri umani", e al tempo
stesso che: "La sopraffazione, la violenza armata, la guerra sono
scelte che seminano e generano solo odio e morte. Soltanto la
ragione e l'amore sono mezzi validi per superare e risolvere le
contese tra le persone e i popoli. È tuttavia necessario ed urgente
uno sforzo concorde e risoluto per avviare nuove iniziative politiche
ed economiche capaci di risolvere le scandalose situazioni di
ingiustizia e di oppressione, che continuano ad affliggere tanti
membri della famiglia umana, creando condizioni favorevoli all'esplosione
incontrollabile del desiderio di vendetta. Quando i diritti fondamentali
sono violati è facile cadere preda delle tentazioni dell'odio
e della violenza. Bisogna costruire insieme una cultura globale
della solidarietà…" (Giovanni Paolo II, Udienza generale, 11 settembre
2002), e non è solo il papa ad esserne convinto… Allora perché
ci si ostina ad andare nella direzione esattamente contraria,
giustificando tutto con la forza di persuasione di una propaganda
sempre più martellante? Per questo - senza lasciarmi ulteriormente
scalfire da quel ricatto morale che è l'accusa di "filoterrorismo"
o "antiamericanismo", con cui intellettuali, politici e showman
(anche italiani) ci stanno insultando da più di un anno - non
mi faccio altre remore, e dico a voce alta che ormai credo soltanto
al dolore "disinteressato". Sì, piuttosto che ai potenti (non
riuscirò mai a chiamarli "i grandi") che reggono le sorti della
politica internazionale, credo a quella mamma, ormai "nonna",
argentina, che mi ha confidato di aver pianto di fronte alle immagini
delle vittime di New York, perché - molto più di quanto si voglia
far credere - le vittime di una parte sanno identificarsi con
quelle dell'altra, entrare in "empatia", "soffrire con", ben sapendo
cosa significhi salutare un figlio al mattino e non vederlo tornare
la sera… né vivo né morto! La loro sofferenza mi riesce senz'altro
più credibile delle parole di quanti sono abili a trasformare
in manifestazioni patriottiche il dolore personale e collettivo,
strumentalizzando l'emotività popolare (e le stesse vittime) per
garantire una copertura - vero e proprio salvacondotto - ad interventi
di ogni tipo, finalizzati sempre a interessi di parte… fin troppo
evidenti. Come è possibile che della carneficina dei civili afghani
(si veda l'intervista rilasciataci da Emergency) e dei crimini
perpetrati a danno dei prigionieri (si veda l'articolo di Jamie
Doran su questo numero di Viator) nessuno sarà chiamato a rispondere?
E quale degli scopi preposti è stato raggiunto? Di Osama Bin Laden
neanche l'ombra, al punto che nessuno sa con certezza se sia vivo
e dove si trovi; il Mullah Omar è fuggito (In motocicletta? Sarebbe
il colmo!); la regione è ben lungi dall'essere pacificata e le
donne continuano a portare il burqa in tutto il paese: hanno solo
qualche figlio in meno o mutilato e ci sono molte vedove in più!
Gli aquiloni continuano a non volare, ma per altri motivi!.. Certo
non è una leggenda metropolitana la questione dell'oleodotto che
dovrebbe snodarsi dai giacimenti di petrolio e di gas del Turkmenistan
fino al mare, passando dall'Afghanistan per aggirare l'Iran ostile
agli USA. La compagnia statunitense Unocal vi è interessata dal
1995. Nel 1997 iniziò l'elaborazione di un progetto con il governo
talebano (che nel frattempo era salito al potere con la forza),
ma il 5 dicembre dell'anno successivo il New York Times rese noto
che i lavori erano stati sospesi. Le ragioni furono tanto interne
(il regime di Kabul non riusciva a conquistare i territori del
nord-ovest, in mano ai mujaheddin, da cui l'oleodotto sarebbe
dovuto passare) quanto internazionali (le malefatte dei talebani
iniziavano ad essere conosciute e a dare fastidio) e a quel punto
fu chiaro per tutti che fintanto i talebani fossero rimasti al
potere… Allo stesso modo non è una leggenda che in Iraq ogni 8
minuti muore un bambino a causa dell'embargo e che, per lo stesso
motivo, sono morte circa 1.500.000 persone dalla fine della guerra
del '91… Tra quanti chiesero l'abolizione dell'embargo (più volte
lo ha fatto anche il papa) c'è Scott Ritter, ex capo degli ispettori
dell'Onu per il controllo degli armamenti iracheni, dimessosi
per protesta, che in una inquietante intervista rilasciata alla
rivista on-line americana Salon ha dichiarato: "Nel 1998 dissi
che la via migliore era ristabilire la legittimità delle ispezioni,
far rientrare gli ispettori. Ma non per spiare l'Iraq e indebolire
l'autorità di Saddam Hussein, come fecero invece gli Usa nel dicembre
1998. Seguendo le istruzioni del governo americano, Richard Butler,
allora capo dell'Unscom, abbandonò unilateralmente le modalità
per le ispezioni dei siti sensibili. Gli Stati uniti bombardarono
l'Iraq, prendendo a pretesto questo impedimento". E mentre i parlamentari
di tutta Europa discutono l'eventuale appoggio (disinteressato?)
al prossimo intervento USA in Iraq, in quel paese "i capi dei
gruppi di opposizione finanziati dagli Usa hanno annunciato che,
con un nuovo governo in Iraq, tutti gli accordi andrebbero rivisti
e lo sfruttamento petrolifero sarebbe affidato a un consorzio
a guida statunitense. L'Iraq potrebbe inoltre uscire dall'Opec,
indebolendo la sua influenza sui prezzi petroliferi. Le compagnie
Usa acquisterebbero un peso ancora maggiore nel mercato energetico
mondiale…" (Manlio Dinucci su Il Manifesto, 18.9.02). Il film
che sta passando sul teleschermo del mondo - e che passerà nei
prossimi mesi - é dunque un deja-vu; nuove, ma sempre uguali,
saranno invece le vittime! Per questo commemorando le vittime
dell'Afghanistan non le contrapponiamo a quelle di New York, di
Washington o dell'Iraq: celebrando le une celebriamo anche le
altre, perché prendiamo posizione - sempre e comunque - contro
la violenza interessata e assassina che le ha uccise o mutilate.
Così, guardato con gli occhi delle vittime, anche lo scenario
internazionale, ci appare diverso. Non banalmente diviso in buoni
e cattivi o in "mondo occidentale" e "mondo arabo"… tanto meno
in cristiani e mussulmani. Entrambe queste religioni ci parlano
di un paradiso in cui tutte le vittime - di qualsiasi nazione
e religione - si trovano insieme: speriamo che anche i loro carnefici
si trovino insieme… Il mondo, quello di tutti i giorni, ci appare
invece diviso in tre parti: le vittime, i loro carnefici ed una
massa stordita, che piange sinceramente, guardando un po' a destra
e un po' a sinistra, senza la capacità (o la volontà?) di aprire
gli occhi per rendersi conto di cosa stia veramente accadendo
e così prendere posizione. E' alla coscienza di queste persone
che vogliamo rivolgerci perché, non solo sulle nostre strade,
ma anche su quelle dell'Iraq, della Somalia, del Sudan, della
Siria, della Libia… a nessuno capiti più di trovare brandelli
di bambina. E se disgraziatamente dovesse ancora succedere, ovunque
si trovino i mandanti - imboscati in una caverna o intronizzati
su comode poltrone - non possano averlo fatto a nome nostro.
Alberto
Vitali
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