Se
già gli antichi definivano l'essere umano un homo viator
e i Padri della Chiesa, rifacendosi agli Atti degli apostoli -
dove i credenti in Gesù sono chiamati "uomini e donne
appartenenti a questa Via" (1) - assunsero tale definizione
per spiegare la condizione del cristiano sulla terra, in epoca
medievale l'immagine del pellegrino era ormai largamente diffusa,
fra i teologi, per indicare la natura più profonda dell'esperienza
umana e spirituale.
L'uomo
insomma non è fatto per vivere ripiegato su se stesso,
ma trova la propria realizzazione solo trascendendosi; vale a
dire, andando sempre "oltre": verso Dio, gli altri e
in definitiva il mondo intero. E, del resto, sarebbe difficile
immaginare che le grandi migrazioni che hanno plasmato le più
fiorenti civiltà della storia umana, fossero dettate esclusivamente
da bisogni primari quali il cibo e l'habitat naturale.
Almeno in questo senso, quindi, possiamo dirci davvero fortunati
per vivere in un'epoca - quella della cosiddetta globalizzazione
- che offre possibilità inimmaginabili fino a qualche decennio
fa, quanto a spostamenti e relazioni fra i popoli e le culture.
A patto, però, di non scordare la grande verità
cantata da Fiorella Mannoia in uno dei suoi splendidi pezzi: "Viaggiare
non è solamente partire, partire e tornare, ma è
imparare le lingue degli altri, imparare ad amare" (2).
Questo, infatti, è il punto: viaggiare per tornare come
si è partiti - magari solo un po' più rilassati
o divertiti - non è altro che fare del turismo; legittimo,
ma nulla più.
Persino partire con uno scopo religioso, per quanto sincero e
disposti a pagare qualsiasi prezzo per il compimento della propria
missione, fosse anche il sacrificio della vita, non garantisce
l'incontro. Troppe volte, infatti, si è trasformato in
insospettabili forme di colonizzazione culturale, quando non addirittura
sociale e politica.
Per viaggiare davvero serve qualcosa di più ed è
l'atteggiamento a fare la differenza, perché per andare
davvero incontro agli altri è necessario "uscire"
da sé stessi prima ancora che dal proprio paese; essere
disposti a giungere fin sul confine della propria cultura se non
proprio oltrepassarla e, in definitiva, saper distinguere fra
l'essenza della propria fede e le categorie con cui si è
soliti rappresentarla.
Solo così potremo veramente ascoltare il racconto degli
altri, la loro storia, la loro fede. Solo così potremo
"andare verso" tutti e non semplicemente "gettarci
addosso" a loro.
Il fulcro del viaggio è quindi saper "ascoltare".
Non semplicemente "sentire" ma "ascoltare",
perché solamente ascoltando si possono imparare le lingua
degli altri e così farsi capire quando, a propria volta,
si inizia a "parlare".
Ascoltare è già amare. E il viaggio che suppone
la missione della Chiesa non fa eccezione.
El caminante
Tra quanti hanno preso sul serio il comando lasciatoci dal Signore
Gesù, di andare "fino agli estremi confini della terra"
(3), vi fu certamente Don Samuel Ruiz, che alla fine del 1959
venne nominato vescovo di San Cristóbal de Las Casas, in
Chiapas (Messico).
San Cristóbal, in realtà, dista da Città
del Messico poco meno di un migliaio di chilometri, ma allora
ancor più di oggi sembrava davvero situato agli estremi
confini del mondo, tanto per le sue bellissime montagne, che facendole
corona la imprigionano nel cuore degli Altos chiapanechi, quanto
perché del milione e mezzo di abitanti che popolano la
regione, l'80% è di etnia indigena e confinato nei luoghi
più impervi e all'apparenza irraggiungibili della Selva
Lacandona.
Fu così che Don Samuel si guadagnò il titolo di
El Caminante (il camminatore), perché l'indomita volontà
d'incontrare personalmente ciascuno di quanti gli erano stati
affidati lo portò, praticamente dall'inizio del suo ministero,
a scarpinare intere giornate su sentieri che persino i muli affrontavano
con difficoltà. E nemmeno giunto alla meta i guai erano
finiti, perché la quasi totalità della popolazione
parlava uno dei cinque idiomi locali (accomunati dalla medesima
appartenenza al ceppo mayense)... e il problema più grande
non era nemmeno quello fonetico. Come era solito spiegare, infatti,
le lingue non differiscono soltanto nell'apparato grammaticale
o appunto fonetico, ma soprattutto nella rappresentazione della
realtà che vogliono interpretare e siccome era risoluto
ad avere un rapporto diretto col "suo" popolo, decise
di studiarle tutte. Fu dura, ma nell'arco di qualche anno riuscì
nell'impresa.
A complicare ulteriormente la cosa, si aggiunga che espressioni
e simboli propri di una lingua possono mancare completamente in
un'altra o essere resi nei modi più disparati, finanche
con circonlocuzioni di differente lunghezza, e questo diede origine
a qualche curioso malinteso. Così, traducendo la preghiera
dell'Ave Maria scivolarono rovinosamente sulla parola "figlio"
(4), detto "nichan" o "alan" a secondo che
si riferisca rispettivamente al legame col padre o con la madre.
Poiché i traduttori conoscevano soltanto la prima delle
due forme, la utilizzarono nell'espressione "il figlio del
tuo grembo, Gesù", che venne pertanto insegnata alla
gente con questa evidente distorsione. Quando poi fu scoperto
l'errore, Don Samuel, perplesso, chiese agli indigeni: "Ma
perché non ce lo avete detto?", ricevendo la più
disarmante delle risposte: "Padre, ci avevi detto che questa
nascita è un mistero!".
Ricordo, come la vedessi in questo momento, l'espressione divertita
e al contempo preoccupata del buon vescovo che, raccontandomi
l'aneddoto, mi chiese: "Ti rendi conto di quanti errori abbiamo
potuto commettere, solamente per la nostra foga d'insegnare prima
di ascoltare?".
Vero. Lui però almeno se n'era accorto: purtroppo, lo stesso
non si potrebbe dire per la plurisecolare storia della Chiesa.
Implantatio Ecclesiae o annunzio
Evangelii?
Ad aiutare Don Samuel e altri vescovi che in quegli stessi anni
percepivano la necessità di accostarsi alla gente con uno
stile rinnovato e necessitavano quindi di elaborare concettualmente
quanto andavano sperimentando nella pastorale ordinaria, venne
inaspettato il Concilio Vaticano II.
Giovanni
XXIII, del resto, lo aveva convocato con una finalità propriamente
"pastorale": non cioè per elaborare nuove formulazioni
dogmatiche, quanto piuttosto per presentare la dottrina di sempre
con un linguaggio finalmente comprensibile agli uomini del XX
secolo.
Non a caso però, proprio il Decreto sull'attività
missionaria della chiesa, Ad Gentes, fu uno di quelli che soffrirono
un iter piuttosto travagliato, tanto che Paolo VI riuscì
a promulgarlo appena in tempo, il 7 dicembre 1965; vale a dire,
il giorno prima della solenne chiusura del Concilio.
Alla base di tanta fatica appaiono evidenti due concezioni della
Missione della Chiesa, come testimoniò - un po' stupito
- uno dei testimoni più qualificati della sua stesura,
Benedetto XVI, che all'epoca vi partecipò in qualità
di teologo:
"C'era questa controversia, che io non ho mai realmente capito,
tra la scuola di Lovanio e quella di Münster: scopo principale
della missione è l'implantatio Ecclesiae o l'annunzio Evangelii?"
(5).
Una
questione tutt'altro che marginale; anzi, a distanza di cinquant'anni
possiamo dire che il problema stia proprio qui: nella difficoltà
a percepire (o a saper ammettere) la differenza tra l'edificazione
della Chiesa (6) in una determinata regione e l'annuncio del Vangelo,
dopo secoli in cui sono stati ritenuti la stessa cosa.
Certo, a rigore, non aveva torto il giovane teologo Ratzinger
a restare perplesso di fronte alla contrapposizione sorta fra
le due grandi scuole teologiche: l'edificazione della Chiesa dovrebbe
essere la logica conseguenza dell'annuncio del Vangelo. Anzi,
parafrasando un altro grande teologo tedesco, anch'egli presente
al Concilio in qualità di perito, il gesuita Karl Rahner
- che in un suo celeberrimo testo ha definito l'uomo come l'"Uditore
della Parola" - potremmo dire che l'annuncio stesso del Vangelo
edifica la Chiesa fra quanti sono raccolti in ascolto e lo accettano.
Per
esperienza però, sappiamo che nel corso dei secoli e fino
ai nostri giorni le cose sono andate un po' diversamente. Dopo,
infatti, il primo ammirevole sforzo compiuto da Comunità
primitiva e dai Padri della Chiesa (la Patristica) di "inculturare"
il messaggio evangelico e più in generale biblico (di matrice
culturale orientale) nelle categorie della filosofia greca, perché
fosse comprensibile anche a noi occidentali... ci siamo fermati
lì.
E così, quando s'è trattato di portare, a nostra
volta, questo stesso messaggio a popoli di altre culture, situati
davvero agli "estremi confini della terra", da oriente
a occidente, dal Giappone all'America Latina, con presunzione
tipicamente "eurocentrica" non ci siamo nemmeno sognati
di seguire l'esempio dei Padri, pretendendo invece che per comprendere
il messaggio di Gesù, i discendenti degli antichi Yamato
o Maya apprendessero il pensiero di Platone e Aristotele.
Le conseguenze non hanno tardato a venire e del resto erano immaginabili.
Da un lato, pur aderendo con cuore sincero al Dio di Gesù,
ma necessitando evidentemente di un linguaggio adeguato ad esprimere
la "propria" fede, si sono date diverse contaminazioni,
che hanno generato fenomeni di sincretismo. "Contaminazione"
e "sincretismo": due termini che aborrisco e su cui
tornerò nell'ultima parte.
Mai dimenticherò, al riguardo, l'impressione divertita
provocatami da un sacrestano indigeno, che spolverando le statue
dei santi in una cappella-baracca di Ocosingo (Chiapas) mi indicò
la statua del Sacro Cuore chiamandolo Chamula (nome della principale
divinità indigena della regione).
Dall'altro, a quanti - pochissimi - hanno abbracciato tanto convintamente
la "nuova religione" al punto da chiedere il sacerdozio
cattolico, sono stati imposti pesanti percorsi di "de-culturazione"
e successiva "ri-educazione" nella cultura greco-occidentale.
A
questo proposito, fu invece Don Samuel a raccontarmi l'incredibile
vicenda di un sacerdote indigeno che si era sfogato con lui: nella
prima settimana di seminario, il rettore lo aveva chiamato in
giardino e gli aveva chiesto di scavare una buca profonda. Pensando
che ci volesse piantare qualcosa, la fece per bene, ma quando
fu pronta si sentì dire: "Adesso seppelliscici idealmente
il tuo passato: le tue credenze, le tue abitudini, la tua cultura.
Da oggi sarai un uomo nuovo! Quando l'avrai fatto, ricopri il
tutto e sarai pronto per iniziare la tua formazione sacerdotale".
Da quel giorno iniziò quindi un percorso di "pulizia
culturale" e quando furono finalmente soddisfatti lo ordinarono.
Il vescovo allora lo mandò a chiamare e gli disse: "Viste
le tue origini e il fatto che i sacerdoti meticci incontrano sempre
grosse difficoltà tra la tua gente, ti mando a svolgere
il ministero in una grossa parrocchia nella zona indigena".
Stavolta
però fu proprio la sua gente a non riconoscerlo: prima
lo sottoposero a due anni di "ri-educazione indigena",
poi finalmente lo accettarono come parroco.
Molti popoli, un solo Dio
La riflessione si complica quando si tratta di affrontare non
semplicemente il tema delle Chiese autoctone (in cui cioè
i ministeri siano ricoperti da credenti nati ed educati nelle
rispettive culture e con riti composti con quelli delle tradizioni
locali), ma dell'incontro con gli appartenenti alle altre tradizioni
religiose.
Posto che anche in questo caso la prospettiva del Concilio fu
eminentemente pastorale e quindi l'intento non fosse tanto di
natura dottrinale quanto teso a promuovere fra esse e il cristianesimo
atteggiamenti nuovi, di stima, dialogo e comprensione reciproca,
ciò non significa tuttavia che il pensiero conciliare in
tema di religioni sia privo di qualsiasi rilevanza teologica.
Anzi, proprio per abbattere vecchi pregiudizi e valutazioni negative
del passato, doveva attirare l'attenzione sui valori positivi
e i doni divini presenti nelle altre religioni.
Come alcuni tra i più attenti commentatori (7) del Concilio
hanno fatto notare, il giudizio del Vaticano II sulle religioni
consiste principalmente però in varie espressioni prese
dalla tradizione antica, senza tuttavia chiarirne l'esatto significato
dottrinale. Così ad esempio, pur invitando a "scoprire
con gioia e rispetto i semi del Verbo nascosti" nelle altre
tradizioni religiose (AG 11) non dice in quale senso vadano intesi
questi "semi del Verbo": se si tratti cioè del
lògos spermatikós della filosofia stoica, ossia
d'un principio impersonale di ordine nel cosmo oppure del Lògos
personale del prologo di Giovanni, provocando di conseguenza le
più disparate interpretazioni e teologie postconciliari.
Da
allora sono comunque passati cinquant'anni: molta strada è
stata fatta e non solo dai popoli e da quanti si sono impegnati
(spesso pagando prezzi pesanti, fuori e dentro la Chiesa) nella
riflessione teologica. Lo stesso Magistero ha fissato punti di
non ritorno, come ad esempio l'invito a pregare insieme per la
pace, ad Assisi, rivolto da Papa Giovanni Paolo II ai rappresentanti
delle altre confessioni religiose. A pregare, non semplicemente
a dialogare! Il che suppone un riconoscimento, neppure troppo
implicito, della verità del loro rapporto con Dio. Rapporto
che avendo necessariamente in Lui la sua origine non può
che essere salvifico.
E
allora mi sia concesso un paragone appena azzardato: così
come poco alla volta coloro che adoravano il Dio di Abramo e di
Isacco nei santuari del sud della terra di Canaan, quanti adoravano
il Potente di Giacobbe nei santuari del centro del paese e quelli
che con Mosé fecero l'esperienza di Jahweh come liberatore
dall'Egitto, si resero conto che in realtà si trattava
dello stesso unico Dio e unendosi (senza troppi scrupoli di contaminazione
o sincretismo) giunsero a riconoscersi in una sola grande fede,
non potrebbe essere che, spingendoci a riconoscere la sua presenza
in ciascuna delle grandi tradizioni religiose attuali, lo Spirito
ci stia spingendo a scoprire l'universalità del progetto
di Dio, in forme sino ad ora neppure sospettate e in vista di
una spiritualità condivisa e davvero universale?
Per scoprirlo è però necessario andare incontro
all'altro, ad ogni altro, non con la presunzione di chi possiede
l'esclusiva della verità, per quanto disposto ad annunciarla,
ma con l'atteggiamento richiesto da Dio a Mosè: "Togliti
i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai
è una terra santa!" (Es 3,5).
Alberto
Vitali
(pubblicato
in Horeb, rivista di spiritualità carmelitana 2013)
1.
At 9,2
2. In "Cuore di cane"
3. At 1,8
4. Sostituita volutamente al termine "frutto", ritenuto troppo generico
per una cultura concreta e puntigliosa come quella indigena.
5. http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2012/july/documents/hf_ben-xvi_spe_20120709_nemi_it.html
6. Lett. sarebbe il "piantare" la Chiesa
7. Cfr. per es. J. Dupuis, Gesł Cristo incontro alle religioni,
Cittadella, Assisi 1991
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