"Quando
tanti popoli hanno fame… quando restano da costruire tante scuole,
tanti ospedali, tante abitazioni degne di questo nome, ogni sperpero
pubblico o privato, ogni spesa fatta per ostentazione nazionale
o personale, ogni estenuante corsa agli armamenti diviene uno
scandalo intollerabile. Noi abbiamo il dovere di denunciarlo.
Vogliano i responsabili ascoltarci prima che sia troppo tardi
(53)… Diversamente, ostinandosi nella loro avarizia, non potranno
che suscitare il giudizio di Dio e la collera dei poveri, con
conseguenze imprevedibili (49)… Così scriveva Paolo VI nella
Populorom Progressio. Era il 26 marzo 1967 e a distanza di 36
anni quelle parole suonano tanto profetiche quanto inascoltate.
E' stata la drammatica situazione che sta attraversando il più
piccolo paese del Centro America, il Salvador, a farmele ricordare,
ma ci offrono una preziosa chiave di lettura anche della situazione
internazionale. Nella terra dell'arcivescovo Romero, i medici
ed il personale sanitario sono mobilitati già da tre anni contro
un progetto governativo che mira a privatizzare la sanità, ma,
negli ultimi mesi, altri settori della società civile - dagli
studenti ai sindacati, dai contadini alle comunità cristiane di
base - si sono uniti alla loro lotta, promovendo una serie di
iniziative, dure e a volte spettacolari. Così a distanza di 10
anni dalla firma degli accordi di pace, che avevano posto fine
ad oltre un decennio di guerra civile, quel popolo, che ancora
porta evidenti i segni di tante ferite, trova la forza di ricomporsi
e alzare la voce per difendere i propri diritti. Nel Salvador
esistono tre forme di assistenza sanitaria: quella privata, appannaggio
dei ricchi, copre appena il 4% della popolazione; il "Seguro Social",
riservato alle famiglie dei lavoratori contribuenti, ne copre
un altro 16%; infine la "Salud Publica", una realtà tanto fantasmagorica
che risulta persino difficile da intendere, ma riguarda il restante
80% dei salvadoregni. In realtà, quasi non esiste: chiunque dei
settori popolari lavora in condizioni precarie, o meglio nel cosiddetto
lavoro "informale" (in nero), quando necessita di un ricovero
deve pagare una quota d'ingresso in ospedale, più la degenza diaria,
oltre ad ogni tipo di prestazione, esami o farmaci di cui necessita.
L'entità dei costi varia dalla "ricchezza" e relativa disponibilità
dell'ospedale di competenza, per cui lo stesso tipo di trattamento
risulta, ad esempio, più costoso all'ospedale S. Rafael di Santa
Tecla - municipio nell'interland della capitale - che al policlinico
Rosales di San Salvador. Il personale medico ed infermieristico
peraltro (lo abbiamo verificato nelle visite che Pax Christi Italia
compie regolarmente da due anni) lavora con competenza e una dedizione
che va oltre il dovuto dall'etica professionale; ma, evidentemente,
non possono fare miracoli. A questa situazione, che oltrepassa
di gran lunga i limiti dell'assurdo, il governo salvadoregno vorrebbe
ora applicare la ricetta tutta "neoliberale", e dettata dal Fondo
Monetario Internazionale, della privatizzazione. Ciò comporterebbe,
di fatto, che l'intero sistema sanitario non fosse più gestito
dal Ministero della Sanità, ma direttamente da un ente assicurativo;
condannando irrimediabilmente l'85% della popolazione, che non
potrebbe stabilire una polizza, all'esclusione da ogni forma di
cura. Perciò il popolo è insorto: dopo manifestazioni di piazza,
il blocco delle frontiere e uno sciopero nel principale ospedale
del paese (interrotto con l'irruzione della forza pubblica), nei
primi giorni di gennaio, gli studenti hanno occupato la cattedrale
di San Salvador e hanno distribuito un appello a "tutte le organizzazioni
sociali del paese perché si incorporino a questa grande battaglia
popolare con l'unico obiettivo di fermare ogni tipo di privatizzazione
e/o vendita del patrimonio del paese". La mediazione - richiesta
dagli stessi occupanti - del vescovo ausiliare, Gregorio Rosa
Chavez e della Procuratrice per la Difesa dei Diritti Umani, Beatrice
de Carillo (di origine italiana), ha fortunatamente garantito
che la situazione si risolvesse senza gravi conseguenze. La protesta
però ormai dilaga e non si limita alle privatizzazioni in genere,
perché nel mirino dei salvadoregni e delle popolazioni limitrofe
sono anche l'ALCA (il trattato di libero commercio delle Americhe),
ed in particolare il Plan Puebla-Panamá. Quest'ultimo è un progetto
economico che mira a trasformare l'intera area che va da Puebla
(in Messico) a Panamá in una grande zona di sfruttamento delle
risorse lavorative e del territorio. Le "maquillas", fabbriche
di assemblaggio a capitale straniero, spuntano come funghi un
po' dappertutto. Vi lavorano in prevalenza donne e ragazzi, impegnati
a montare pezzi costruiti meccanicamente nelle regioni meridionali
degli USA. Sottoposti a turni che arrivano fino alle 10-12 ore
al giorno, non godono di alcuna tutela sanitaria né dei più comuni
diritti sindacali; il tutto per uno stipendio mensile da fame:
250 dollari USA in Salvador, 100 in Chiapas (Messico), due realtà
in cui il carovita non differisce molto dal nostro. All'esterno
delle maquillas, incisa a caratteri cubitali, capeggia la scritta:
"zona franca internazionale", il che significa che lo stato non
solo non percepisce alcun contributo fiscale, ma nemmeno ha il
diritto di intervenire (difficilmente comunque lo farebbe) per
accertarsi di quanto avviene all'interno. Anche il territorio
sarà sottoposto al massimo dello sfruttamento possibile. E' infatti
prevista la realizzazione di un centinaio di centrali idroelettriche
(di cui una sessantina nel solo Chiapas), l'estrazione intensiva
di tutte le materie prime (petrolio compreso) e la costruzione
di grandi autostrade e ferrovie per il trasporto delle merci che,
oltre a deturpare l'ambiente, renderanno necessario lo sfratto
delle popolazioni native. Il tutto mescolato con altri "ingredienti"
della suddetta ricetta, ovvero chiusura delle scuole, con relativo
innalzamento dell'analfabetismo; denutrizione e/o malnutrizione,
con l'innalzamento della mortalità infantile e delle infermità
croniche; la privatizzazione dell'acqua, che in alcuni paesi,
come la Bolivia, ha già privato molte popolazioni dell'acqua potabile,
con prevedibili conseguenze… Più in generale la "dollarizzazione"
dell'economia, o come nel caso del Salvador, il suo "ancoraggio"
al dollaro USA (mero espediente linguistico per aggirare la Costituzione),
fa sì che il potere d'acquisto dei salari precipiti sempre più
e suonino paradossalmente "veritiere" le parole del presidente
salvadoregno, Francisco Flores, invitato speciale al G8 di Genova:
"in Salvador abbiamo vinto la povertà". Già, perché s'è trasformata
in miseria! E allora il monito di Paolo VI ci offre davvero una
imprescindibile chiave di lettura per comprendere l'odierna situazione
internazionale: fino a quando l'80% dell'umanità dovrà arrancare
con appena il 20% delle risorse del pianeta non potremo considerare
la guerra un incidente di percorso. Sarà piuttosto una tragica
"necessità", voluta e contemplata per garantire lo status quo,
il nostro standard di vita; una logica conseguenza dell'attuale
modello economico. L'alternativa è possibile, ma solo nella direzione
più volte indicata dall'attuale pontefice: "Il modo di vivere
di quanti usufruiscono del benessere, il loro modo di consumare,
debbono essere rivisti alla luce delle ripercussioni che hanno
sugli altri Paesi. Si pensi, ad esempio, al problema dell'acqua...
Tutti i popoli hanno il diritto di ricevere una parte equa dei
beni di questo mondo, e della conoscenza scientifica e tecnologica
dei Paesi più capaci. Come, ad esempio, non pensare all'accesso
per tutti ai medicinali generici, necessari per sostenere la lotta
contro le epidemie attuali? Questo accesso è spesso impedito da
considerazioni economiche a corto termine". Altrimenti le
conseguenze saranno veramente imprevedibili!
Alberto
Vitali
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