Mons. Samuel Ruiz García

 


Quando il Vangelo diventa storia

di Samuel Ruiz

È interessante notare come oggi in America Latina si vivono situazioni che sono state vissute in passato, agli inizi della storia della Chiesa, mentre oggi vengono presentate come novità. Uno dei primi problemi che si presentarono alla Chiesa degli inizi fu quello della situazione culturale e religiosa dei convertiti dall'impero romano al cristianesimo. La prima domanda che ci si poneva era: questa gente deve essere convertita prima alla legge di Mosè e poi, tramite questa, diventare cristiani, dato che la promessa è stata fatta al popolo eletto di Dio, i Giudei? Sappiamo che pur essendo d'accordo, anche Pietro e Paolo hanno avuto atteggiamenti diversi di fronte a questa questione, fino al punto che gruppi di cristiani si sono attestati su ognuna delle due posizioni: non si è trattato, insomma, di una questione secondaria, tanto che Paolo ha subìto persecuzioni a causa di questo. Il primo Concilio di Gerusalemme ha fornito le indicazioni per la soluzione del problema: Paolo dice che Dio stesso ha permesso a quanti non hanno ricevuto la rivelazione di Cristo di ricevere comunque una rivelazione di Dio, una presenza salvifica di Dio, finquando è arrivato il momento di configurare il nuovo popolo di Dio che non è un gruppo etnico di una sola lingua o di una sola corrente culturale, bensì un popolo di popoli. Nonostante che questa sia stata la prima esperienza forte che la chiesa abbia fatto, proprio agli inizi della sua vita, essa non è servita da insegnamento per le epoche successive. Infatti, poiché l'innesto del vangelo sulla cultura romana ha prodotto una grandiosa cultura, quella occidentale, chiamata cristiana proprio per l'influsso del cristianesimo, quando poi si è trattato di espandere questa cultura, i missionari piuttosto che evangelizzare hanno occidentalizzato gli altri popoli e le altre culture: basta guardare alla storia della Cina, ad esempio, e specificatamente all'America Latina. Qui non si è ferificato un dialogo, un incontro tra il cristianesimo e le religioni pre-colombiane: solo adesso si prepara questo incontro! L'idea dei missionari dell'epoca (che era forse l'idea di molti prima del Concilio Vaticano II) era che nelle religioni pre-cristiane non è possibile rinvenire alcuna traccia di bontà, verità, tant'è che l'opera dei missionari veniva considerata come fatta "tra le ombre della morte e le tenebre del peccato". Per questo è stato impossibile stabilire un dialogo con quelle culture e i missionari sono vissuti nell'angoscia di vedere milioni di persone che non avevano alcuna coscienza della rivelazione cristiana, il che confermava il detto, mal interpretato,di Sant'Ireneo "al di fuori della chiesa non c'è salvezza". La chiesa veniva paragonata all'arca di Noè, costruita sotto la diretta regia di Dio, e nella quale solo gli esseri che vi si sono potuti ricoverare hanno potuto trovare la salvezza. E sappiamo che degli animali, sono le coppie che sono entrate a bordo dell'arca hanno potuto salvarsi, mentre tutte le altre hanno trovato la morte a causa del diluvio. Ma mi chiedo: quante balene e quanti delfini, invece, sono comunque riusciti a salvarsi nonostante che non siano riusciti ad entrare nell'arca di Noè? Allo stesso modo noi guardiamo al Vangelo che parla spesso di "altri" che sono "al di là": San Paolo ha detto che Dio si è rivelato a queste popolazioni per permettere loro una vita di salvezza e avere la possibilità così di partecipare a quel popolo di Dio che comprende tutti i popoli della terra. In America Latina è avvenuto che l'angoscia dei missionari li ha spinti a forzare il momento della conversione degli indigeni, perciò hanno distrutto i monumenti e le culture pre-colombiane: non c'è stato alcun dialogo, ma solo una pressione operata con le armi dagli invasori. E quando gli indigeni hanno abbracciato il cristianesimo lo hanno fatto perché rassegnati a dover soccombere dinanzi alla superiorità degli invasori, ma nello stesso momento sono stati costretti ad accettare la cosiddetta cultura occidentale come l'unico mezzo di espressione della loro fede. Gli indigeni hanno dovuto rigettare la propria cultura, i propri valori e accettare la cultura occidentale straniera. In 500 anni di evangelizzazione non è mai esistita nel nostro continente quella che il Concilio chiama una "chiesa autoctona", cioè un'incarnazione del Vangelo nella cultura di una popolazione e il riconoscimento di una rivelazione di Dio a quella popolazione che non è soltanto un avvicinamento al cristianesimo ma un'introduzione al vangelo, una sorta di "Antico testamento" di queste culture. Bisogna essere grati all'intervento dei vescovi africani che nel Concilio hanno richiamato fortemente questa attenzione nel documento "Ad gentes" e che dicevano: "Noi non vogliamo che il Concilio ci dia un riassunto dell'attività missionaria, se mai avessimo dimenticato la nostra storia! Vogliamo che il Concilio ci aiuti a sciogliere le difficoltà e i problemi che derivano dall'azione missionaria, dal confronto con le scienze antropologiche e sociologiche." Pur essendo presente al Concilio in tutte le sessioni, non avevo compreso la profondità di questo contenuto finché ritornando in Messico e collaborando alla preparazione della conferenza della Celam di Medellin ho partecipato ad un'interessante riunione in Colombia nella quale due antropologi ci hanno particolarmente colpiti parlandoci della distruzione che l'evangelizzazione provocava nelle culture del continente. Ci dicevano le conseguenze che portava con sè l'atteggiamento dell'assumere la propria cultura come l'unica e vera cultura, tanto da rigettare ogni altra forma culturale ed espressione umana. Così, il missionario che giungeva in una terra sconosciuta e veniva a contatto con una cultura estranea, non poteva che giudicare quella sulla base della propria cultura. Si racconta ad esempio di missionari che giunsero in una comunità di indios nella foresta amazzonica venezuelana che non indossavano vestiti, non avendone bisogno vista la temperatura durante tutto l'anno; lì i missionari restarono scandalizzati da questo fatto e interpretarono questa situazione come il frutto di una cultura permissiva e di una morale corrotta; si sono interessati dunque di far giungere dei vestiti. Ma che cosa è accaduto? Anzitutto, la comunità è diventata silenziosa e triste in quanto i membri comunicavano tra loro tramite i dipinti e i tatuaggi, resi però impossibili dall'uso dei vestiti, ma soprattutto si è dimezzata la popolazione: la metà della gente infatti è morta perché, non avendo la possibilità e i mezzi per riparare o confezionare i vestiti, questi sono diventati facile mezzo di trasmissione di malattie infettive. Questo ci ricorda l'importanza di abbandonare il nostro punto di vista quando ci avviciniamo ad un'altra cultura diversa dalla nostra. Nel nostro continente si è dunque prodotta una sorta di divisione profonda nell'imposizione di una cultura estranea: gli indios, per professare la fede cristiana, sono come costretti ad uscire dalla propria situazione culturale e utilizzare una cultura estranea, appunto quella "cristiano-occidentale". Col Concilio abbiamo cominciato a sperimentare l'esperienza del riconoscimento non solo dei diritti e dei valori delle comunità indigene ma anche della presenza di una rivelazione divina, insomma dell'incarnazione del vangelo. L'emergere recente delle comunità indigene nel continente come soggetto della nostra storia ha una grande importanza ed è accompagnato dal lavoro di riflessione e recupero dell'elemento religioso dal punto di vista della propria cultura, il che recupera quella frattura interna e profonda di cui parlavo prima. Così come avviene in Europa con l'incontro di culture asiatiche ed africane provenienti dalle migrazioni, anche in America Latina si verifica l'esigenza di una riflessione della cultura del continente anche dal punto di vista religioso e dell'azione evangelizzatrice della chiesa, considerando l'emergere delle chiese autoctone. Si parla molto di teologia indigena, anche a causa delle riserve mosse dal card. Ratzinger... La teologia india non è una teologia semplicemente cattolica, ma ecumenica e transreligiosa: essa infatti permette agli indios di riflettere sulla propria religiosità precolombiana. Lo stesso significato del termine teologia è diverso: i catechisti e i pastori che lavorano nelle comunità indigene, ad esempio, utilizzano molto più il termine saggezza per intendere quello che noi intendiamo come teologia. Un esempio singolare descrive in maniera estrema questa differenza: una giovane a chi le stava parlando di Gesù Cristo ha avuto una reazione quasi isterica e ha gridato "basta! prima di parlarmi di Gesù Cristo, permettetemi di sapere chi sono io": questa è la vera tragedia dell'evangelizzazione che il nostro continente ha vissuto, con l'imposizione di una cultura che annullò la richiesta di presa di coscienza della propria identità. E i vescovi latino-americani riuniti a dieci anni da Medellin hanno promesso di accompagnare questo popolo nel recupero della propria identità, dato che abbiamo collaborato alla distruzione della sua identità. Nella nostra diocesi stiamo sperimentando proprio questo: abbiamo attualmente 18.000 catechisti indigeni, che sono passati da un modello di imposizione culturale dall'esterno a un modello che chiede di esprimere la propria fede cristiana con la propria cultura. Con la recente ordinazione di 102 diaconi permanenti (ordinazione che ha sconvolto un po' la curia romana) abbiamo 500 diaconi sposati, e questo è il frutto di un lavoro durato molti anni. Quanto alla situazione più generale nella nostra diocesi, un'indigena rispondendo a un italiano venuto a visitarci e che chiedeva "che cosa accadrà ora che il vescovo titolare (Mons. Samuel Ruiz, ndr) se ne va e che se ne andrà anche il vescovo coadiutore con diritto di successione (Mons. Ràul Vera Lòpez, ndr)?" disse: "Noi, continueremo a camminare: se il vescovo che verrà ci accompagnerà in questo cammino, saremo contenti, altrimenti se non camminerà con noi vorrà dire che camminerà da solo". Questo significa che la diocesi cammina e procede nel suo cammino post-conciliare e che le vicende dei vescovi che vengono e che vanno non arrestano tale cammino: non so quando le mie dimissioni saranno accolte, è probabile che passi ancora del tempo ma è anche possibile che al mio rientro dal Salvador trovi già il mio successore... nel frattempo la diocesi continua a camminare. È questo anche ciò che abbiamo voluto sottolineare quando abbiamo criticato la decisione del Vaticano di inviare ad altra diocesi il vescovo ausiliare con diritto di successione nella mia diocesi, alla luce della pecularità che indubbiamente possiede la diocesi di san Cristobal de las Casas.



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