Samuel
Ruiz García, vescovo emerito di San Cristóbal de
Las Casas (Chiapas, Messico) divenne famoso con la sua gente all'indomani
del 1° gennaio 1994, quando gli indigeni zapatisti insorsero
contro l'entrata in vigore del Trattato di libero commercio tra
Canada, Stati Uniti e Messico (NAFTA). Il suo percorso con i discendenti
degli antichi Maya, però, era iniziato molti anni prima,
nel gennaio 1960, non appena nominato vescovo di quella regione
sperduta sulle montagne del sud est messicano. Nei primi mesi
del suo ministero, don Samuel non si era comportato in modo diverso
da quanto ci si potesse aspettare da un ecclesiastico del tempo:
una pastorale ordinaria, fatta di organizzazione del clero, visita
alle comunità, buoni rapporti con i signorotti locali.
Di
quel periodo lui stesso dirà più tardi: "All'inizio
ero come un pesce che dorme con gli occhi aperti... avevo gli
occhi aperti, ma non vedevo la realtà... Vedevo gente povera,
chiese piene, gente che cantava; sentivo che c'era una dimensione
di religiosità straordinaria... Ma un giorno mi riferirono
che avevano tenuto un indigeno legato a un albero e lo avevano
punito, fustigandolo, proprio mentre ero in visita in quel luogo...".
La
cosa lo colpì al punto da fargli ribaltare totalmente la
prospettiva. Stimolato anche da alcuni eventi ecclesiali, che
divennero pietre miliari nella sua evoluzione - il Concilio Vaticano
II (dove fu il vescovo più giovane); la II Conferenza dell'Episcopato
Latinoamericano, riunitasi a Medellín (Colombia) nel 1968,
da cui sorse la teologia della Liberazione; e I Incontro Missionario
Continentale ancora nel 1968, a Melgar (Colombia), intuì
quella che sarebbe rimasta la prospettiva fondamentale di tutta
la sua azione: non era sufficiente sviluppare una pastorale indigenista,
che avrebbe continuato a trattare quelle popolazioni come mero
oggetto di cure provvidenti, ma urgeva una vera e propria pastorale
indigena, per cui loro stessi fossero diventati protagonisti del
proprio riscatto e soggetti attivi della missione ecclesiale.
Peraltro, da tempo, s'era reso conto che non poteva limitarsi
a insegnare il castigliano agli indigeni, per dar loro una consistenza
sociale: doveva lui stesso imparare le loro cinque lingue, per
immergersi in quelle culture.
Fu
così che quando il governatore del Chiapas, nell'ottobre
1974, decise di promuovere un Congresso Indigeno, in occasione
del IV centenario della nascita di Bartolomé de Las Casas
- che nelle sue intenzioni doveva essere niente più che
una rassegna accademica tra specialisti "lascasiani"
- e delegò il vescovo per l'intera organizzazione, lui
la affidò alle comunità indigene. Il risultato fu
una sorpresa per tutti, vescovo compreso: la mattina del 12 ottobre,
infatti, arrivarono a San Cristóbal 2000 delegati eletti
democraticamente dalle loro comunità. Si trovavano così
riuniti per la prima volta dopo cinque secoli. Dibatterono per
tre giorni su temi da loro scelti, utilizzando le proprie lingue,
prontamente tradotte per essere intese da tutti e stilarono alcuni
documenti finali. A distanza di quasi trentasette anni, è
interessante notare le profonde affinità tra le rivendicazioni
avanzate in occasione di quel congresso e quelle proposte, vent'anni
più tardi, dagli stessi indigeni, insorti nel movimento
zapatista.
E
certo non è un caso che da decenni gli riconoscano il titolo
di Tatic. Nelle lingue indigene, infatti, Tatic significa "padre",
ma come titolo viene attribuito soltanto a coloro che rivestono
una paternità fortemente riconosciuta dalla comunità.
E' necessario quindi conoscere la chiusura auto-protettiva di
quelle popolazioni per rendersi conto di quanto fosse tutt'altro
che scontato che lo riconoscessero a un meticcio, venuto dal nord,
terra degli antichi rivali aztechi e degli oppressori di oggi...
Per tali premesse, lunghe una vita, apparve immediatamente il
candidato naturale per la mediazione tra il governo federale e
gli insorti zapatisti, che occuparono gran parte del territorio
chiapaneco il 1° gennaio 1994. Anche in quella occasione non
seguì formule già sperimentate, tanto formali quanto
fallimentari. Elaborò piuttosto un suo modello di mediazione,
esplicitato nell'immagine del "niño gordo y del niño
flaco" (del bambino grasso e del bambino magro).
Disse,
infatti: "se due bambini, uno grasso e l'altro magro, giocano
sull'altalena a bilancia, questa non si muove. Uno resterà
fermo in alto e l'altro in basso e nessuno si divertirà.
A nulla servirà quindi che il mediatore si metta nel centro,
ad equa distanza, sul perno della bilancia. Dovrà invece
mettersi dalla parte del bimbo magro, alla "giusta"
distanza: allora sì, l'altalena si muoverà ed entrambi
potranno giocare". Per questo don Samuel non accettò
di mettersi "al di sopra delle parti", ma si schierò
decisamente a fianco delle "giuste richieste degli indigeni".
Soltanto la grande autorevolezza che gli veniva riconosciuta da
entrambe le parti poté permettergli tanto. Quando poi nel
maggio 2000 dovette lasciare la diocesi, per raggiunti limiti
di età, gli indigeni lo nominarono loro "portavoce
a vita". Precisamente quanto ha fatto fino alla fine. Ora,
per sua volontà, riposa in quella Cattedrale che durante
i mesi caldi della primavera 1994 fu rinominata la "Cattedrale
della Pace", perché vi si svolsero alcune fasi delle
trattative tra governo e zapatisti. Sulle montagne del sud-est
messicano però non si trova un solo indigeno disposto a
credere che il Tatic, "el caminante", si sia davvero
fermato.
Alberto
Vitali
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