A Santiago inciampai nella miseria

                                                                    



La sera del 12 marzo 1977, Rutilio Grande, gesuita, fu inutilmente atteso nel suo borgo nativo, El Paisnal, per la celebrazione della novena di S. Giuseppe. Arrivò invece la notizia che il padre era stato assassinato, sulla strada sterrata che dal municipio di Aguilares, di cui era parroco, conduce alla povera frazione. Con lui morirono anche il vecchio Manuel Solorzano ed il piccolo Nelson Lesmus, che lo accompagnavano. Il caso suscitò scalpore. Anzitutto perché era la prima volta che nel cattolicissimo paese centroamericano veniva ucciso un sacerdote; ma anche perché il p. Grande, esponente della linea pastorale della teologia della liberazione salvadoregna, avendo svolto per anni il ruolo di direttore spirituale nel Seminario interdiocesano nazionale, era abbastanza conosciuto. Tra gli amici di una vita, che quella notte vennero a piangerlo, c'era anche il neoeletto arcivescovo di San Salvador, Oscar Arnulfo Romero. Ma chi era quest'uomo che l'oligarchia aveva fortemente voluto a capo della diocesi-guida e la cui nomina aveva gettato nello sconforto le Comunità Ecclesiali di Base? Tutti credevano di conoscerlo… ma erano veramente pochi quelli che, in quelle prime settimane, avevano avuto la possibilità di rendersi conto di quale reale cambiamento fosse avvenuto in lui, da quando - appena due anni e tre mesi prima - era stato nominato vescovo di Santiago de Maria. Anche quella era stata una nomina fortemente voluta: non dagli amici, ma da quanti, stanchi delle sue posizioni reazionarie, avevano messo l'anziano arcivescovo Chávez nelle condizioni di dover chiedere una promozione per il suo ausiliare, al fine di renderlo il più innocuo possibile.

Il "sistema degli aiuti"

Il 14 dicembre 1974 Mons. Romero arrivò così a Santiago de Maria, piccola cittadina di ca. 12.000 abitanti, a mille metri sul livello del mare: una delle zone più povere del paese, dominata da grandi piantagioni di caffè e cotone, dove in inverno accorrevano migliaia di raccoglitori, pagati una miseria e trattati peggio delle bestie. Arrivò con l'intenzione di "incoraggiare la fede, promuovere l'insegnamento religioso, favorire l'unità e la pace, vigilare sull'ortodossia della religione" come egli stesso disse, durante la cerimonia d'ingresso. I primi mesi passarono di conseguenza in modo alquanto "normale": tra raccolte di fondi all'estero, da destinare ad opere religiose o caritative e la preoccupazione di migliorare, per quanto possibile, la scadente formazione del clero, a cui regalò l'abbonamento a "Palabra", la rivista dell'Opus Dei. Un anno gli fu sufficiente però per non rinnovare quella scelta. Nell'apparente tranquillità della provincia infatti Santiago gli riservava delle sorprese… tragedie che, sulle prime, nemmeno aveva potuto immaginare! Fu rincasando, nelle fredde notti d'inverno, dopo serate trascorse a discutere coi sacerdoti o nelle case dei proprietari terrieri, che iniziò ad "inciampare" in una folla di poveracci, ammassati alle porte delle chiese o buttati per le strade. Non erano vagabondi, ma quegli stessi stagionali che, dall'alba al tramonto, venivano sfruttati nei grandi latifondi. Romero - da sempre sensibile agli indigenti, pur non essendosi ancora criticamente interrogato sulle cause di quelle ingiustizie - attivò immediatamente le risorse delle Caritas e le parrocchie, affinché venisse offerta ospitalità e qualche cosa di caldo a quelle persone. Andò oltre… e avvicinandoli personalmente, scoprì il cosiddetto "sistema degli aiuti", quello per cui nelle aziende di caffè e di cotone, iscrivevano soltanto un determinato numero di raccoglitori sulla tabella lavorativa, pur ammettendone molti altri, qualificati semplicemente come "aiutanti". Costoro venivano pagati "a cottimo" e "in nero", così da non dovergli corrispondere il settimo giorno, né garantirgli il pranzo, a cui avrebbero avuto diritto, secondo i contratti sindacali. Romero ne restò fulminato: "Ma com'è possibile che gente tanto cristiana compia certe cose?". Era l'inizio di un difficile, ma inesorabile processo di conversione.

Un paese "cristiano"?

Arrivò l'estate e il sangue impregnava sempre più il suolo salvadoregno. Il 21 giugno 1975, in un villaggio chiamato "Tres Calles", la Guardia Nazionale, massacrò sei contadini e oltraggiò le loro famiglie. Nulla di nuovo o di straordinario; anzi nel Salvador sarebbe diventata la norma. Quella però fu "la prima volta" per Romero: la prima volta che, da vescovo, dovette incrociare gli occhi imploranti e disperati delle vedove e degli orfani; che sentì la propria responsabilità paterna, oltre che pastorale, nei confronti di quella gente; che comprese che il suo ministero esigeva da lui una presa di posizione ufficiale, per richiamare tanto le autorità civili quanto quelle religiose alle proprie rispettive responsabilità. Fu così che decise di scrivere un rapporto dettagliato "ai fratelli vescovi" e "all'amico presidente", colonnello Arturo Armando Molina… E fu così che ricevette le prime, scottanti, delusioni. Allo stesso presidente Molina scriverà di nuovo, in occasione dell'assassinio del p. Grande, ma con toni ormai decisamente disincantati: "Non mi spiego, Signor Presidente, come lei da un lato si proclami cattolico di formazione e convinzione davanti alla nazione e dall'altro permetta questi oltraggi inqualificabili da parte dei corpi di sicurezza, in un paese che chiamiamo civile e cristiano…".

L'"affaire" del Centro "Los Naranjos"

Ma intanto anche all'interno della Chiesa il vescovo di Santiago veniva sempre più incalzato, perché prendesse provvedimenti contro gli insegnamenti di "sicuro stampo comunista" che venivano impartito al Centro di Promozione Contadina "Los Naranjos". "Nato dall'esigenza e dal desiderio di aiutare i contadini ad incontrare se stessi come uomini e come cristiani e ad assumere con sicurezza il proprio posto nella società e nella Chiesa", il Centro era gestito dai padri Passionisti - in quel periodo, i principali collaboratori di Mons. Romero - ed era ubicato nella parrocchia di Jiquilisco, sotto la sua giurisdizione. Il caso divenne un vero e proprio "affaire": da un lato i settori ecclesiali più reazionari e l'oligarchia, che, con le loro bordate, non faticarono ad aprire una breccia nelle fobie "anticomuniste" del vescovo; dall'altro i Passionisti, che in tutti i modi cercavano di difendere il proprio operato, soprattutto per non vedersi costretti ad abbandonare quei contadini e quelle comunità, che con tanto entusiasmo avevano iniziato a dare i frutti sperati. Così, dopo alcune settimane di incertezze, il Centro venne chiuso - per volontà di Mons. Romero - dalla metà di agosto al 13 dicembre del 1975. Non fu però un periodo vuoto o tempo sciupato. Fu l'occasione di un lungo confronto - per il quale venne redatto un apposito "Documento base per il dialogo" - che servì a sviscerare i sospetti, placare i rancori, confrontare le opinioni, comporre le diverse esigenze, verificare i contenuti e i metodi di insegnamento, valutare i risultati. Gli attori furono molteplici: oltre a Mons. Romero e ai padri in questione, vennero coinvolti il Provinciale Regionale ed il Vicario Generale dei Passionisti e alcuni rappresentanti delle Cancellerie diocesane di Santiago e di ciascuna delle diocesi che "co-patrocinavano" il Centro, mandandovi i propri fedeli. Alla fine Mons. Romero decise di far riprendere i corsi. Lo fece senza imporre cambiamenti: se qualcosa stava cambiando era piuttosto la sua mentalità. Per questo l'ipotesi secondo cui la grande disputa sul Centro abbia offerto a Mons. Romero l'occasione di approfondire e fondare, a livello teorico e teologico, quelle scelte che, a livello pastorale, la storia gli andava già suggerendo, appare alquanto fondata. Lo fece - questo sì - con la radicalità di sempre: non si limitò a riaprire il Centro; nominò uno dei Passionisti, il p. Juan Macho Merino, Vicario di Pastorale e tagliò corto con quanti ancora lo incalzavano, accusando un altro padre d'essere comunista: "se il Padre David è comunista, io sono cinese".

Ritorno alle origini

Questo era l'uomo che amici e nemici avevano perso di vista, quando il 22 febbraio 1977 divenne Arcivescovo di San Salvador. La morte di Rutilio Grande non fu per lui una caduta da cavallo, come una certa "mitologia" (un po' clericale, per la verità) avrebbe poi tramandato; è però indubbio che il sangue dell'amico gesuita fu un sigillo martiriale impresso su una conversione senza ritorno. Così, qualche mese dopo, in una bella serata romana, camminando su via della Conciliazione, lui stesso lo avrebbe confidato al provinciale salvadoregno dei gesuiti: "Nacqui in una famiglia molto povera. Ho provato la fame, so cosa significa lavorare da bambini… Da quando entrai in seminario e iniziai gli studi - mi mandarono qui a Roma per terminarli - passai anni tra i libri e dimenticai le mie origini. Mi feci un altro mondo… Mi mandarono poi a Santiago de Maria e lì si che tornai a scontrarmi con la miseria. Con quei bambini che morivano per l'acqua che bevevano, con quei contadini maltrattati durante i raccolti… E sa, padre, il carbone diventato brace si riprende al primo soffio. Non fu poco quello che successe appena diventato arcivescovo; il fatto del padre Grande. Lei sa che io lo apprezzavo molto. Quando vidi Rutilio morto, pensai: se l'hanno ucciso per quello che faceva mi tocca andare per la sua stessa strada… cambiai, ma fu anche un ritorno…". Quella strada l'avrebbe percorsa fino in fondo.

Alberto Vitali

(articolo apparso su Mosaico di Pace - marzo 2007)



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