Confesso che quando il mio parroco, nonché direttore
di questa rivista, mi ha detto: "dicci in tre parole perché,
trent'anni dopo, dovremmo ricordare Romero" mi è
tornata alla mente una canzonetta in voga pochi anni fa: Dammi
tre parole... E sia, mi sono detto, proviamo a riassumere in
tre parole la figura di un grande testimone del nostro tempo:
Pastore, Profeta e Martire.
Per
alcuni Romero è anzitutto un martire. Per quanto tale
riconoscimento abbia faticato a imporsi, nonostante la sua evidenza,
per ragioni "giuridiche" (non è stato infatti
ucciso in odio alla fede) sembra ormai cosa fatta, grazie alla
decisione personale di Giovanni Paolo II d'inserire il suo nome
nell'elenco dei martiri del Novecento, letto durante la celebrazione
al Colosseo il 7 maggio 2000. Del resto, un martire fa onore
alla Chiesa e se relegato tra una palma e l'aureola non da fastidio
a nessuno.
Per
altri invece è soprattutto un profeta e allora le cose
si complicano. Un profeta, infatti, per definizione parla e
Romero ha detto cose tanto scomode da portare alcuni ad ucciderlo,
altri ad ammonirlo e i biografi di ogni latitudine a misurasi
con le parole, per ossequiare la verità senza venir a
loro volta condannati. Sì perché se la profezia
di Romero ha fatto fremere di sdegno le case degli oligarchici
che opprimevano il suo popolo e d'ira le cancellerie e i comandi
militari di mezzo continente... non di meno ha scosso più
volte anche i sacri palazzi.
Per
tutti, infine, è stato un grande pastore, ma questo sembrerebbe
l'aspetto meno qualificante. Che un prete o un vescovo, infatti,
sia un pastore - più o meno apprezzato, più o
meno santo - è cosa abbastanza scontata. Se però
chiedessimo a lui in quali di queste tre parole si riconoscesse
di più, forse avremmo delle sorprese.
Il
martirio, infatti, lo impauriva e ha sperato fino all'ultimo
che gli fosse risparmiato. Poche settimane prima di morire,
aveva confidato a un amico: "Le dico la verità,
dottore: non voglio morire. Per lo meno non ora, non voglio
morire adesso. Non ho mai amato tanto la vita! Glielo dico onestamente:
non ho la vocazione al martirio, non ce l'ho. È chiaro
che se è quello che Dio mi chiede..." . Nemmeno
la profezia fu qualcosa che perseguì per inclinazione
caratteriale: "In realtà, Romero non perse mai l'innata
timidezza e molti ricordano, con rinnovato stupore, come si
trasformasse soltanto nel momento di salire sul pulpito: tanto
ansioso prima - perché consapevole della gravità
di quelle denunzie - quanto focoso e coinvolgente poi.
Un
vero profeta insomma: avrebbe evitato volentieri quel ruolo,
ma era altresì consapevole di non potersi tirare indietro,
per obbedienza a Chi glielo aveva affidato" . L'unico compito
che Romero desiderò veramente e perseguì con tutte
le forze, in ogni stagione della vita, fu quello di pastore.
Semplicemente, voleva essere un buon pastore. Questo lo portò
a mettersi profondamente in discussione e a lasciarsi ammaestrare
dal suo popolo: "Sento che il popolo è il mio profeta".
Lo portò a cambiare radicalmente nella prassi, per restare
fedele a quel Dio che glielo aveva affidato, in quella situazione
concreta.
Solo
per questo è diventato anche profeta e martire. Romero
allora deve essere ricordato perché rappresenta il segno
più eloquente di come non soltanto la Parola illumini
la realtà, ma anche la realtà illumina la Parola.
Dev'essere ricordato soprattutto da ogni Chiesa che voglia essere
fedele al mandato ricevuto: quello di occuparsi del bene delle
persone, molto più che della salvaguardia dei principi.
Soltanto i buoni pastori, infatti, sanno essere veri profeti...
fino al martirio.
E
forse non è un caso che in tutte le marce che attraversano
oggi il continente latinoamericano la gente ripeta lo stesso
slogan: "Queremos obispos a lado de los pobres!" (Vogliamo
vescovi a fianco dei poveri!). Niente di che. O no?