Romero, profeta e martire
perché pastore

                                                                    



"Dicono che eri un uomo religioso. Io dico che eri di giustizia e di pace, che eri l'orazione di ogni uomo che non sa pregare; di quello che ha appena la forza di lottare...". Inizia così il canto che Manuel Contreras, giovane cantautore salvadoregno, ha recentemente dedicato a Mons. Romero.

E' questa, infatti, una delle caratteriste della figura del grande vescovo centroamericano: a trentatré anni da quella sera del 24 marzo 1980, quando cadde sotto i colpi di un sicario mentre celebrava la messa, continua a far discutere e ciascuno privilegia questo o quell'aspetto, in base alla propria esperienza o sensibilità.

Per alcuni Romero è anzitutto un martire. Per quanto tale riconoscimento abbia faticato a imporsi, nonostante la sua evidenza, per ragioni "giuridiche" (non è stato infatti ucciso in odio alla fede) sembra ormai cosa fatta, grazie alla decisione personale di Giovanni Paolo II d'inserire il suo nome nell'elenco dei martiri del Novecento, letto durante la celebrazione al Colosseo il 7 maggio 2000. Del resto, un martire fa onore alla Chiesa e se relegato tra una palma e l'aureola non da fastidio a nessuno.

Per altri invece è soprattutto un profeta e allora le cose si complicano. Un profeta, infatti, per definizione parla e Romero ha detto cose tanto scomode da portare alcuni ad ucciderlo, altri ad ammonirlo e i biografi di ogni latitudine a misurasi con le parole, per ossequiare la verità senza venir a loro volta condannati. Sì perché se la profezia di Romero ha fatto fremere di sdegno le case degli oligarchici che opprimevano il suo popolo e d'ira le cancellerie e i comandi militari di mezzo continente... non di meno ha scosso più volte anche i sacri palazzi.

Per tutti, infine, è stato un grande pastore e questo sembrerebbe l'aspetto meno qualificante. Che un prete o un vescovo, infatti, sia un pastore - più o meno apprezzato, più o meno santo - è cosa abbastanza scontata. Se però chiedessimo a lui in quali di queste tre parole si riconoscesse di più, forse avremmo delle sorprese. Il martirio, infatti, lo impauriva e ha sperato fino all'ultimo che gli fosse risparmiato.

Nemmeno la profezia fu qualcosa che perseguì per inclinazione caratteriale: "In realtà, Romero non perse mai l'innata timidezza e molti ricordano, con rinnovato stupore, come si trasformasse soltanto nel momento di salire sul pulpito: tanto ansioso... quanto focoso e coinvolgente poi. Un vero profeta insomma: avrebbe evitato volentieri quel ruolo, ma era altresì consapevole di non potersi tirare indietro, per obbedienza a Chi glielo aveva affidato" .

L'unico compito che Romero desiderò veramente e perseguì con tutte le forze, in ogni stagione della vita, fu quello di pastore. Semplicemente, voleva essere un buon pastore. Questo lo portò a mettersi profondamente in discussione e a lasciarsi ammaestrare dal suo popolo: "Sento che il popolo è il mio profeta". Lo portò a cambiare radicalmente nella prassi, per restare fedele a quel Dio che glielo aveva affidato, in quella situazione concreta.

Per questo e solo per questo è diventato anche profeta e martire e s'è trasformato nel segno più eloquente di come Vita e Parola si illuminino a vicenda e solo tenendole strettamente unite si possano comprendere appieno.

Alberto Vitali



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