Anno
2005
Per
i migranti, così come per i salvadoregni in genere, la
questione della memoria costituisce oggi una vera e propria sfida,
per ragioni assai diverse tra loro. Anzitutto il 60% della popolazione
è al di sotto dei 20 anni, vale a dire: sono persone nate
almeno 5 anni dopo la morte dell'arcivescovo Romero. A questa
percentuale và aggiunta quella di coloro che, pur essendo
nati nella seconda parte degli anni settanta, erano evidentemente
troppo piccoli per poter ricordare.
Nella
stragrande maggioranza dei casi, si tratta di persone impegnate
quotidianamente a lottare per la sopravvivenza (nemmeno più
per la liberazione, come avveniva negli anni '80) tanto in patria
che all'estero, dove si trova circa un terzo della popolazione
(due milioni sui sei o poco più presenti nel paese; di
cui circa 5.000 a Milano e 15.000 in Lombardia) alla ricerca di
lavoro, con tutti i problemi che concernono oggi l'immigrazione.
E' inoltre importante considerare come molti di loro, avendo subito
traumi ed ogni forma di violenza, portino delle ferite mai completamente
cicatrizzate, che generano paura di parlare se non addirittura
un desiderio più o meno coscio di rimozione
tutte
dinamiche che impediscono drasticamente la trasmissione della
memoria.
Ad
incrementare questo silenzio da paura concorre ampiamente la situazione
politica attuale; tanto nazionale che internazionale. All'interno,
non solo il potere è saldamente detenuto da un unico partito,
al governo dal 1989, grazie ad una serie di elezioni che chiamarle
"regolari" sarebbe fantasia, ma aumentano i livelli
di violenza e repressione, costantemente denunciati dalla Procuratrice
per la Difesa dei Diritti Umani (figura istituzionale del paese),
l'italiana Beatrice Alemanni de Carrillo: "Un elemento che
può aiutare a comprendere il momento attuale è lo
stato della Polizia Nazionale Civile, nata bene a seguito degli
accordi di pace, e poi degenerata completamente. Ora è
guidata dai grandi 'ex' della Guardia Nazionale, cioè la
linea dura del passato, i capi dei corpi speciali della repressione.
Ritornano casi di tortura ed esecuzioni mirate, e ne abbiamo le
prove. C'è l'ordine di trasformare la popolazione, dall'alto
verso il basso, in un oggetto di questo sistema. Senza considerare
la corruzione terribile all'interno della polizia e la sua cronica
incompetenza. Per difendersi, la gente dovrebbe rivolgersi alla
Fiscalia, che corrisponde in Italia al Procuratore Generale, che
però è molto influenzato dal sistema. In El Salvador,
o non si investiga, o se si investiga lo si fa in modo corrotto,
perpetuando l'impunità".
Sul
piano internazionale, El Salvador è un paese che - sebbene
in modo diverso - si trova ancora al centro di uno scontro di
natura geopolitica, sul proprio territorio. Va infine considerato
come il popolo salvadoregno sia sprovvisto non soltanto di mezzi
economici, ma anche culturali e mediatici, necessari per difendersi
da qualsiasi attacco revisionista. E' per me doloroso affermarlo,
ma non posso non riconoscere come oggi il popolo salvadoregno
sia "perseguito nella memoria" persino dalla Chiesa.
E questo perché da parte di importanti settori ecclesiali
si vorrebbe "addomesticare" la profezia di quell'arcivescovo
scomodo, che, al contrario, continua ad essere attuale e graffiante.
Le condizioni locali infatti sono cambiate soltanto all'apparenza
(e - come abbiamo sottolineato - non sempre in meglio), mentre
è rimasto invariato lo scenario economico e politico internazionale,
in cui il suo ministero si iscriveva.
Queste
preoccupazioni sono assolutamente evidenti nelle dinamiche (oltre
che nei tempi) del processo di beatificazione, dove la pretesa
di "purificare" la figura di Monsignor Romero da supposte
mitizzazioni ideologiche scaturisce dall'accusa di strumentalizzazione
politica costantemente rivolta a quegli stessi settori dei quali
egli diceva: "Sinistra? Io non le chiamo forze di sinistra,
ma forze del popolo"
Non a caso, perché quelle
organizzazioni, che troppo spesso vengono sbrigativamente etichettate
secondo una logica esclusivamente politica ed eurocentrica, sono
in realtà composte, nella maggioranza dei casi, da cristiani
delle Comunità Ecclesiali di Base, per i quali è
naturale - anche nella lotta per l'edificazione di una società
più giusta - ispirarsi alla parola del loro pastore. Del
resto alquanto significativi appaiono gli spostamenti cui, nel
corso degli anni, fu sottoposta la bara di Mons. Romero: dalla
prima sistemazione in cattedrale, venne successivamente spostata
nella cripta e ora di nuovo traslata - di notte e a porte chiuse
- sul fondo della stessa, sotto un pesante monumento di bronzo
scuro - nonché di discutibile gusto - portato dall'Italia
e alieno dalla sensibilità salvadoregna. Ma il caso forse
più emblematico di questa "sopraffazione della memoria"
è quello che tenta di delegittimare dal punto di vista
dell'attendibilità storiografica il ricordo personale e
la testimonianza diretta (certamente poco riscontrabili, secondo
gli attuali criteri di veridicità; per di più appassionati
e vivaci) a vantaggio esclusivo della documentazione conservata
negli archivi, che meglio garantisce quel distacco asettico, cui
una certa pretesa di scientificità accademica non vuole
certo rinunciare. Non vogliamo qui inoltrarci in intricate, quanto
spesso viziose, questioni ermeneutiche.
Vorremmo
però avanzare almeno due sottolineature: la prima è
che se i ricordi cadono inevitabilmente in una sorta di mitizzazione
affettiva, i documenti ufficiali - per loro natura - sono "accomodati"
fin dall'origine, nel senso che pagano un inevitabile tributo
al politically correct; in questo caso tanto civile che ecclesiastico.
La
seconda consiste in una sorta di parallelismo della dinamica:
i racconti di coloro che vissero direttamente a contatto con Mons.
Romero hanno molto in comune - nella forma - con le tradizioni
orali che portarono alla formazione dei vangeli. Non mi sembra
perciò esagerato mettere in guardia dallo sminuirne il
valore testimoniale, unicamente per la semplicità ed il
trasporto emotivo dei protagonisti. Equivarrebbe - per restare
sullo stesso esempio - a considerare i vangeli secondi alle grandi
opere storiografiche loro contemporanee o alle elaborazione teologiche
dei secoli successivi, soltanto perché la comunità
delle origini non ha potuto (né voluto) disgiungere la
propria testimonianza dalla passione amorosa nei confronti del
Nazareno. Nell'uno e nell'altro caso si tratta di una narrazione
esperienziale, vera teologia narrativa, basata sui ricordi e la
buona fede dei diretti testimoni. Del resto gli stessi "documenti
d'archivio" si basano in ultima istanza sulla buona fede
di chi li ha redatti. Una valutazione analoga potrebbe essere
fatta a proposito di una certa, accanita, "esegesi"
delle parole, omelie e discorsi, di Mons. Romero: utilizzando
lo stesso parametro - che vorrebbe salvaguardare esclusivamente
le ipsissima verba, negando valore alla capacità di comprensione
degli ascoltatori, i quali hanno naturalmente riportato non solamente
le sillabe, ma il senso generale dei suoi interventi - non si
salverebbe la metà dei discorsi evangelici. In sintesi:
se per canonizzare Mons. Romero è necessario stravolgerne
la figura, svilirne la profezia, "rubarlo" al popolo
meglio non farlo! Del resto non soltanto i salvadoregni, ma milioni
di persone nel mondo lo hanno già proclamato "San
Romero d'America" e mai come in questo caso appare appropriato
il detto "vox populi, vox Dei". Nonostante tutto, mi
sento quindi di affermare, con convinzione, che in El Salvador
un "resto" c'è
e per quanto l'impresa possa
apparire titanica sono convinto che riuscirà a riscattare
la memoria martiriale non solo dell'arcivescovo Romero, ma dell'intero
popolo. Anche perché chi crede sa di poter contare sulla
forza del martirio, convinto che Dio non permetta mai che alcuno
dei suoi martiri sia morto invano.
Alberto
Vitali
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