Per
i migranti, così come per i salvadoregni in genere, la questione
della memoria costituisce oggi una vera e propria sfida, per ragioni
assai diverse tra loro.
Anzitutto il 60% della popolazione è al di sotto dei 20 anni,
vale a dire: sono persone nate almeno 5 anni dopo la morte dell'arcivescovo
Romero. A questa percentuale và aggiunta quella di coloro che,
pur essendo nati nella seconda parte degli anni settanta, erano
evidentemente troppo piccoli per poter ricordare.
Nella stragrande maggioranza dei casi, si tratta di persone impegnate
quotidianamente a lottare per la sopravvivenza (nemmeno più per
la liberazione, come avveniva negli anni '80) tanto in patria
che all'estero, dove si trova circa un terzo della popolazione
(due milioni sui sei o poco più presenti nel paese; di cui circa
5.000 a Milano e 15.000 in Lombardia) alla ricerca di lavoro,
con tutti i problemi che concernono oggi l'immigrazione.
E' inoltre importante considerare come molti di loro, avendo subito
traumi ed ogni forma di violenza, portino delle ferite mai completamente
cicatrizzate, che generano paura di parlare se non addirittura
un desiderio più o meno coscio di rimozione… tutte dinamiche che
impediscono drasticamente la trasmissione della memoria. Ad incrementare
questo silenzio da paura concorre ampiamente la situazione politica
attuale; tanto nazionale che internazionale.
All'interno, non solo il potere è saldamente detenuto da un unico
partito, al governo dal 1989, grazie ad una serie di elezioni
che chiamarle "regolari" sarebbe fantasia, ma aumentano i livelli
di violenza e repressione, costantemente denunciati dalla Procuratrice
per la Difesa dei Diritti Umani (figura istituzionale del paese),
l'italiana Beatrice Alemanni de Carrillo: "Un elemento che può
aiutare a comprendere il momento attuale è lo stato della Polizia
Nazionale Civile, nata bene a seguito degli accordi di pace, e
poi degenerata completamente. Ora è guidata dai grandi 'ex' della
Guardia Nazionale, cioè la linea dura del passato, i capi dei
corpi speciali della repressione. Ritornano casi di tortura ed
esecuzioni mirate, e ne abbiamo le prove. C'è l'ordine di trasformare
la popolazione, dall'alto verso il basso, in un oggetto di questo
sistema. Senza considerare la corruzione terribile all'interno
della polizia e la sua cronica incompetenza. Per difendersi, la
gente dovrebbe rivolgersi alla Fiscalia, che corrisponde in Italia
al Procuratore Generale, che però è molto influenzato dal sistema.
In El Salvador, o non si investiga, o se si investiga lo si fa
in modo corrotto, perpetuando l'impunità".
Sul piano internazionale, El Salvador è un paese che - sebbene
in modo diverso - si trova ancora al centro di uno scontro di
natura geopolitica, sul proprio territorio.
Va infine considerato come il popolo salvadoregno sia sprovvisto
non soltanto di mezzi economici, ma anche culturali e mediatici,
necessari per difendersi da qualsiasi attacco revisionista.
E' per me doloroso affermarlo, ma non posso non riconoscere come
oggi il popolo salvadoregno sia "perseguito nella memoria" persino
dalla Chiesa. E questo perché da parte di importanti settori ecclesiali
si vorrebbe "addomesticare" la profezia di quell'arcivescovo scomodo,
che, al contrario, continua ad essere attuale e graffiante.
Le condizioni locali infatti sono cambiate soltanto all'apparenza
(e - come abbiamo sottolineato - non sempre in meglio), mentre
è rimasto invariato lo scenario economico e politico internazionale,
in cui il suo ministero si iscriveva.
Queste preoccupazioni sono assolutamente evidenti nelle dinamiche
(oltre che nei tempi) del processo di beatificazione, dove la
pretesa di "purificare" la figura di Monsignor Romero da supposte
mitizzazioni ideologiche scaturisce dall'accusa di strumentalizzazione
politica costantemente rivolta a quegli stessi settori dei quali
egli diceva: "Sinistra? Io non le chiamo forze di sinistra, ma
forze del popolo"… Non a caso, perché quelle organizzazioni, che
troppo spesso vengono sbrigativamente etichettate secondo una
logica esclusivamente politica ed eurocentrica, sono in realtà
composte, nella maggioranza dei casi, da cristiani delle Comunità
Ecclesiali di Base, per i quali è naturale - anche nella lotta
per l'edificazione di una società più giusta - ispirarsi alla
parola del loro pastore.
Del resto alquanto significativi appaiono gli spostamenti cui,
nel corso degli anni, fu sottoposta la bara di Mons. Romero: dalla
prima sistemazione in cattedrale, venne successivamente spostata
nella cripta e ora di nuovo traslata - di notte e a porte chiuse
- sul fondo della stessa, sotto un pesante monumento di bronzo
scuro - nonché di discutibile gusto - portato dall'Italia e alieno
dalla sensibilità salvadoregna.
Ma il caso forse più emblematico di questa "sopraffazione della
memoria" è quello che tenta di delegittimare dal punto di vista
dell'attendibilità storiografica il ricordo personale e la testimonianza
diretta (certamente poco riscontrabili, secondo gli attuali criteri
di veridicità; per di più appassionati e vivaci) a vantaggio esclusivo
della documentazione conservata negli archivi, che meglio garantisce
quel distacco asettico, cui una certa pretesa di scientificità
accademica non vuole certo rinunciare.
Non vogliamo qui inoltrarci in intricate, quanto spesso viziose,
questioni ermeneutiche.
Vorremmo però avanzare almeno due sottolineature: la prima è che
se i ricordi cadono inevitabilmente in una sorta di mitizzazione
affettiva, i documenti ufficiali - per loro natura - sono "accomodati"
fin dall'origine, nel senso che pagano un inevitabile tributo
al politically correct; in questo caso tanto civile che ecclesiastico.
La seconda consiste in una sorta di parallelismo della dinamica:
i racconti di coloro che vissero direttamente a contatto con Mons.
Romero hanno molto in comune - nella forma - con le tradizioni
orali che portarono alla formazione dei vangeli.
Non mi sembra perciò esagerato mettere in guardia dallo sminuirne
il valore testimoniale, unicamente per la semplicità ed il trasporto
emotivo dei protagonisti. Equivarrebbe - per restare sullo stesso
esempio - a considerare i vangeli secondi alle grandi opere storiografiche
loro contemporanee o alle elaborazione teologiche dei secoli successivi,
soltanto perché la comunità delle origini non ha potuto (né voluto)
disgiungere la propria testimonianza dalla passione amorosa nei
confronti del Nazareno.
Nell'uno e nell'altro caso si tratta di una narrazione esperienziale,
vera teologia narrativa, basata sui ricordi e la buona fede dei
diretti testimoni. Del resto gli stessi "documenti d'archivio"
si basano in ultima istanza sulla buona fede di chi li ha redatti.
Una valutazione analoga potrebbe essere fatta a proposito di una
certa, accanita, "esegesi" delle parole, omelie e discorsi, di
Mons. Romero: utilizzando lo stesso parametro - che vorrebbe salvaguardare
esclusivamente le ipsissima verba, negando valore alla capacità
di comprensione degli ascoltatori, i quali hanno naturalmente
riportato non solamente le sillabe, ma il senso generale dei suoi
interventi - non si salverebbe la metà dei discorsi evangelici.
In sintesi: se per canonizzare Mons. Romero è necessario stravolgerne
la figura, svilirne la profezia, "rubarlo" al popolo… meglio non
farlo! Del resto non soltanto i salvadoregni, ma milioni di persone
nel mondo lo hanno già proclamato "San Romero d'America" e mai
come in questo caso appare appropriato il detto "vox populi, vox
Dei".
Nonostante tutto, mi sento quindi di affermare, con convinzione,
che in El Salvador un "resto" c'è… e per quanto l'impresa possa
apparire titanica sono convinto che riuscirà a riscattare la memoria
martiriale non solo dell'arcivescovo Romero, ma dell'intero popolo.
Anche perché chi crede sa di poter contare sulla forza del martirio,
convinto che Dio non permetta mai che alcuno dei suoi martiri
sia morto invano.
Alberto
Vitali
(intervento
al "Convegno Romero ed il Centroamerica, 25 anni dopo"
Milano, 19 novembre 2005)
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