Mons. Oscar Arnulfo Romero

 


Sentire cum Ecclesia, il ministero episcopale di O. A. Romero  

di Abramo Levi

Sono trascorsi ormai vent'anni dall'assassinio brutale e clamoroso del vescovo di San Salvador O.A. Romero. La distanza temporale ed emoti-va dell'evento permette una riflessione più pacata sul senso del suo ministero episcopale, condotto con coraggio e forza fino a quella morte, le cui circostanze - sull'altare, al momento dell'Offertorio - sono simbo-licamente tanto dense.

Assassinio sull'altare

A fermare l'occhio della nostra memoria sugli avvenimenti che culmi-narono la sera del 24 marzo 1980 con l'assassinio del vescovo Oscar Arnulfo Romero, nella Cappella dell'Ospedale Divina Provvidenza in San Salvador, c'è quella messa non finita, e il sangue vivo del celebrante versato sull'altare.
Non c'è solo da ricordare un 'assassinio nella cattedrale', dopo circa novecento anni da quello famoso. C'è altresì da superare uno scarto di anni, esilissimo a confronto - venti appena - ma già molti e forse troppi per la labilità della nostra memoria. L'assassinio del vescovo Romero non si presta all'enfasi (storica o letteraria) dell'assas-sinio nella Cattedrale del vescovo Becket, ma in compenso ha qualche cosa di molto più puntuale e preciso nello spazio e nel tempo: sull'altare e al momento dell'offertorio della Messa.

Ne rilevò l'aspetto inedito e costrittivo p. Turoldo:
"Amico, qui ti devi fermare. E medita, e rileggi... E' Dio che vuoi farsi capire. Non lo ha colto (il vescovo Romero) per una strada; si potrebbe dire: non fosse passato per quella strada! Non lo ha colto in un salotto: uno potrebbe dire: non fosse andato in quel salotto!... Invece l'ha colto mentre celebrava. E stava con il calice in mano. E aveva appena detto che in quel calice c'era del vino in attesa di farsi sangue"1.

Fermiamoci dunque. La pregnanza del modulo evangelico ci obbliga ad adottare, per intenderlo, il modello tradizionale di riflessione con i suoi due tempi: Factum audivimus mysterium requiramus. Ecco il fatto.
Dopo l'omelia del 23 marzo nella quale mons. Romero pregò e ordinò ai soldati di non uccidere, il colonnello Marco Aurelio Gonza-les disse: "L'Arcivescovo ha commesso un delitto, gettando il disprez-zo sul nostro glorioso esercito". La sera del 24 marzo alle 18.30 nella cappella della Divina Provvidenza Monsignore terminò la sua breve omelia. Prese il corporale per stenderlo sull'altare. In quell'attimo si udì uno sparo e Romero cadde di schianto. Il colpo venne dal lato occidentale della Cappella dell'Ospedale, dove l'Arcivescovo risiede-va con i più poveri e abbandonati. Il proiettile penetrò all'altezza del cuore, senza però toccarlo. Era un proiettile esplosivo. Provocò una emorragia diffusa. Il colpo fu preceduto da tre flash del fotografo che si era installato sul pulpito. Al terzo flash il colpo, che a molti parve lo scoppio di una lampadina. Passato il primo momento di stupore, alcune religiose ed altre persone cercarono di aiutarlo. Madre Juanita prese in grembo la testa di Monsignore e gli levò la stola dal collo. La città fu tutta confusione. Scemarono i trasporti pubblici, si chiusero ristoranti e negozi.
L'Arcivescovo fu deposto in un feretro metallico di color grigio a un paio di metri dal pulpito della Cattedrale, luogo che diventò famoso in tutto il mondo per le vigorose denunce che mons. Romero lanciò negli ultimi anni con inusitato rigore contro coloro che violano i diritti umani in questa piccola nazione centro-americana. All'interno della Cattedrale, dietro l'altare, un gruppo di 22 tra sacerdoti, religio-se e seminaristi fanno un digiuno completo fino al momento della sepoltura dell'Arcivescovo. Il digiuno e la preghiera sono la maniera con cui il popolo di Dio mostra il suo desiderio di cambiamento in momenti estremi. Questo dunque il fatto. A cui si può aggiungere la testimonianza di un altro fedele: un'ora prima della Messa l'Arcive-scovo si recò a S. Tecla per confessarsi, come era solito fare ogni settimana.

Il mysterium della morte di Romero

Prima di passare al secondo momento, mysterium requiramus, c'è da rispondere a un'obiezione, che si può sbrigativamente formulare così:
"Qui di mistero non ce n'è. Qui c'è soltanto il fatto di un vescovo che si è sbilanciato un po' troppo a sinistra, con tutte le buone intenzioni - ovviamente - e con una buona dose di ingenuità, così da provocare per una sorta di reazione uguale e contraria la sua eliminazione fisica". Io penso che questa sarà stata e sarà, nei dovuti modi e forme, l'obiezione che l'avvocato del diavolo solleverà nel processo di beati-ficazione. E penso anche che il postulatore della causa farà notare a sua volta che la reazione fu per ogni verso eccessiva e non certamente uguale. E tuttavia c'è ragione di parlare di mistero. E i primi ad avvertirne l'aura furono i più alti rappresentanti della gerarchia du-rante le esequie dell'Arcivescovo.

Il card. Corripio, rappresentante del Papa, disse: La Chiesa universale celebra oggi l'ingresso di Gesù a Gerusalemme. E mentre alcuni stendevano sul suo cammino i mantelli e agitavano rami di palma, altri sconcertati, si domandavano: - Chi è costui? Oggi la città di San Salvador fa la stessa domanda per mons. Romero: - Chi è costui? E noi che lo conosciamo, rispondiamo: - E' un Pastore che ubbidì fino all'ultimo ai dettami della sua coscienza.

A sua volta il Vicario capitolare, mons. Urioste diceva: Siamo come cristiani il giorno della Pentecoste, parliamo varie lingue, riceviamo telegrammi che ci riesce difficile tradurre. Il fatto è che gli uomini di buona volontà di tutto il mondo sono riuniti in questa Catte-drale di San Salvador, perché crediamo che mons. Romero è vivo e crediamo pure che il suo spirito, che è lo spirito di Gesù, rinasce in ciascuno di noi.

Accanto a queste voci alte c'è il sottovoce di testimonianze umilissime, ma ancor meglio intonate al modulo evangelico, fin quasi a coincidere. Una di queste venne segnalata dal Vescovo ausiliare di Madrid, mons. Iniesta.

Una mattina andai a baciare quelle suppellettili sacre e consacrate da quella morte. Nel chinarmi vidi sotto l'altare una corona di spine. Ne chiesi conto alla religiosa dell'Ospedale che mi accompagnava. Mi rac-contò un grazioso episodio praticamente sconosciuto in San Salvador. Una vecchietta salvadoregna veniva di quando in quando, da molto lontano, ad ascoltare la messa mattutina dell'Arcivescovo, poi si intratte-neva qualche po' con lui e gli offriva frutti, portati da lei stessa. Un giorno, l'ultima volta che venne a vederlo, già parecchi mesi fa, gli portò come sempre della frutta che gli consegnò al finire della Messa. Questa volta però gli portò un crocifisso che gli pose al collo e una corona di spine presa da una pianta chiamata izcanal con spine di due o tre centime-tri e chiese di mettergliela sulla testa. Monsignor Romero accettò, e mentre l'Arcivescovo teneva la corona di spine in testa e il crocifisso al petto, lo benedisse.

Questo episodio fa pensare all'unzione di Maria di Betania, con quel tanto di diverso che ne assicura l'autenticità eliminando qualsiasi forma di attrazione analogica. C'è la medesima grazia nella risposta che il vescovo Romero diede alle Suore che lo guardavano con una certa invidia, quella mattina del 24 marzo, recarsi al mare per riposare e bagnare i piedi nel mare: "Dove vado io, voi non potete venire!". Cosa avranno detto le Suore quella sera?

La conversione

Noi non possiamo far nostra la certezza della presenza di un mistero reale quale vi fu nella vecchietta della corona di spine o nelle religiose che udirono quella citazione evangelica, così verde di speranza alla mattina e così rossa di sangue la sera. Per il mistero del vescovo Romero noi abbiamo un'altra possibilità: quella di declinarlo sul para-digma della 'conversione'. Questa declinazione è alla nostra portata. Tramite essa noi possiamo avvicinarci in maniera convincente alla reale vita, passione e morte di mons. Romero. Ma la conversione del vescovo Romero deve essere a sua volta analizzata per non rischiare di cadere in belle approssimazioni drammatiche.
Non c'è paragone tra questa conversione e quella, per citare episo-di famosi, di un Saulo o di un Agostino.
Iniziamo con una doppia domanda: Come fu vista da fuori la conversione di Romero? Come fu vissuta da lui stesso? Per la prima domanda abbiamo una testimonianza preziosa: quella di Jon Sobrino, il gesuita che, solo per essere in quel torno di tempo assente (si trovava in Thailandia), sfuggì al massacro dei gesuiti dell'Università Centro Americana (UCA) perpetrato dagli squadroni della morte nel novem-bre 1989. Ebbene, cosa pensava J. Sobrino di mons. Romero al tempo dell'ingresso in San Salvador come Arcivescovo? Ascoltiamolo:

"È evidente che non vedevamo di buon occhio che mons. Romero fosse il successore dell'arcivescovo Luis Chavez, vescovo pastorale molto vicino al popolo e con cui avevamo buonissimi rapporti... Mi chiedevo se mons. Romero aveva il coraggio di denunciare la repressione o se, al contrario, la voleva facilitare. Pochi giorni dopo ricevetti una cartolina postale da un gesuita messicano la quale per poco non mi faceva le condoglianze. Noi tutti vedevamo un orizzonte molto scuro. Per fortuna, ci sbagliammo".

Ecco invece la testimonianza dello stesso Sobrino dopo l'assassinio dei gesuiti, a dieci anni dalla morte di Romero:

Voglio dire invece qualche cosa su ciò di cui, con frequenza, parlavamo di Monsignor Romero. Quello era linguaggio di fede. Voler bene e ammirare Monsignor Romero non è una cosa difficile in assoluto; lo è magari per quelli che negano la luce e hanno un cuore di pietra, ma cercar di seguire e accettare tutto Monsignor Romero è cosa di fede. Io credo che per loro, (i gesuiti uccisi, n.d.r.), per me e per tanti altri, Monsignor Romero fu un Cristo attualizzato e, come Cristo, sacramento di Dio... Non credo che né il Signore Gesù né il Padre siano gelosi che io parli così di Monsignor Romero. Dopo tutto, lui è stato per noi tutti il loro dono più prezioso in questi giorni.

La conversione di mons. Romero è dunque da collocare nella cornice di queste due testimonianze, almeno per quel che riguarda la conver-sione vista da fuori. Ma è ormai tempo che cerchiamo quel che è più difficile trovare, cioè come la conversione fu vista e vissuta dallo stesso Vescovo. Non pretendiamo di sapere come Romero vide la propria conversione. Possiamo invece conoscere come la proiettava fuori di sé. Cosa che fece in un'intervista del 9 novembre 1979 a Giorgio Callegari che chiedeva: "Ma Lei si è convertito davvero?". Mons. Romero rispose con molta vivacità:

"Magari mi fossi convertito! La conversione è sempre verso Dio, e il povero è precisamente un testimone di questa necessità dell'intervento di Dio. Trattando con il povero si capisce che egli è un uomo che deve porre tutta la sua fiducia in un altro. Se quest'altro è Dio, si ha la vera conver-sione, perché si può altresì porre la fiducia nell'idolo del potere, della ricchezza. Convertirsi significa volgersi al Dio vivo e vero e in questo senso lo sento che il mio contatto con i poveri conduce a sentire sempre meglio la necessità di Dio. L'esempio del povero che scopre al di là di un certo complesso di inferiorità di essere prediletto da Dio e che quanto più è privo di idoli terrestri tanto più conta sulla protezione di Dio e pone in Dio la speranza della sua liberazione insegna a tutti, anche a noi che lo predichiamo, che senza Dio non possiamo far nulla".

Il testo di questa intervista ci servirà per indovinare come fu vissuta la conversione da parte del vescovo Romero. Dico indovinare, perché potrà accadere che nel vissuto quotidiano del Vescovo non si riesca a trovare qualche cosa di simile a una conversione quale noi immaginia-mo, con esorcismo sulla vita passata, con propositi di completo rinno-vamento, con preghiere e astinenze, con una scelta di povertà volonta-ria. Niente di tutto questo nella conversione del vescovo Romero. Porto un solo esempio a riprova.
Nell'occasione dell'ingresso dell'Arcivescovo a San Salvador (se ne è già trattato) alcune signore della aristocrazia salvadoregna avevano avanzato la proposta della costruzione di una nuova sede episcopale degna dell'alto ministero: "Volentieri accetterò questa casa - rispose l'Arcivescovo - quando tutti i poveri che abitano nei barrios della miseria avranno una casa". Non c'è nulla in questa risposta che risenta di quel pauperismo (sempre un po' ambiguo) che spesso connota delle scelte radicali. L'Arcivescovo non è contrario a una bella resi-denza, ma che non stoni con la miseria degli altri, come stona l'illumi-nazione notturna di certe chiese e monumenti che schiacciano ancor più nel buio le altre abitazioni.

Sentire con la Chiesa

Difficile dunque isolare questa conversione, che si realizza, si direbbe, nell'identico. Infatti i termini reali della conversione, il suo statuto e le sue esigenze sono già inscritte come in una sorta di codice genetico nel motto che il Vescovo scelse per il suo stemma e che poi adottò anche come sigla per la sua radio Isax: "Sentire cum Ecclesia". Se andiamo a rileggere l'intervista non facciamo certo fatica a rintracciarvi termini come 'sentire', 'senso', 'sento'. Si può ben dire che la storia della conversione di Romero è la storia di questo 'sentire' che determina poi il modo di guardare alla Chiesa, di vederla, di ascoltarla.
In un primo tempo il "Sentire cum Ecclesia" fu inteso da Monsignor Romero nel senso più ovvio ed elementare, scolastico. È il senso di tutto ciò che nella vita è propedeutico, preparatorio. Il sapere quel che si deve fare e l'eseguirlo secondo l'ordine ricevuto fa parte della propedeutica della vita. A questo proposito il vescovo Romero rac-contava un particolare della sua fanciullezza. La famiglia Romero si poteva classificare come una famiglia agiata (anche se non appartene-va alle famose 14 famiglie detentrici della maggior parte delle proprie-tà in Salvador). Piccolo emblema di questa agiatezza era un cavallino di legno regalato in qualche occasione al piccolo Oscar. Quando la mamma mandava il figlioletto per qualche servizio e voleva una obbe-dienza pronta e gioiosa, gli diceva: "Monta sul tuo cavallino e va'!". E Oscar, docile, saliva sul suo 'ippogrifo' e si metteva al galoppo, andata e ritorno.
Questo episodio mi sembra illuminante per capire quale senso abbia avuto in quel primo tempo il motto "Sentire cum Ecclesia". Esso significò per il Vescovo un'adesione intelligente, incondizionata, gio-iosa alla dottrina della Chiesa, al suo magistero, alle sue direttive. Un passaggio limpido e senza riserve dall'obbedienza alla madre all'obbe-dienza alla madre Chiesa. Perfino il cavallino ha qui il suo simbolismo. Mons. Romero fin dall'inizio del suo ministero tenne molto all'uso di tutti i mezzi di comunicazione forniti dal progresso tecnico: la stazio-ne radio diocesana, l'altoparlante montato sulla camionetta che lo tra-sportava nella visita alle parrocchie. Romero non era certo un laudator temporis acti. Fin da giovane prete aveva preso ad amare la sua fotocopiatrice e il suo computer, magari in un'edizione rudimentale.
Il motto "Sentire cum Ecclesia" aveva dunque un suo significato chiaro. Tra consenso e dissenso egli si collocava senza il minimo di esitazione dalla parte del consenso; e non risparmiava dure strigliate ai 'medellinisti', tra i quali in prima fila i teologi dell'UCA. In questo modo però il motto "Sentire cum Ecclesia" veniva onorato solo nella sua accezione più ovvia: consentire, non dissentire! Ma quel motto portava da sé molto più avanti: non a una sterile dialettica tra consen-so e dissenso, bensì alla ricerca del 'senso'. Il passaggio, o, se proprio si vuole, la conversione del vescovo Romero avvenne per il tramite di un approfondimento del 'sentire' con la Chiesa. Così il Vescovo andava a raggiungere quella radice autentica alla quale si era afferrata Teresa di Lisieux (dottore della Chiesa!) quando diceva: "sento che non mi sbaglio".
Approfondimento definitivo e veramente 'radicale' quello di Tere-sa di Lisieux: "Nel cuore della Chiesa mia madre io sarò l'amore". Approfondimento graduale, ma lineare e inflessibile nella sua direzio-ne, nel vescovo Romero. Anche in lui c'è il passaggio dagli ingranaggi della Chiesa al suo cuore pulsante, dalla gerarchia della Chiesa alla genesi della Chiesa. Scriveva in un suo 'Piano pastorale':

"Non si deve intendere la fondazione della Chiesa in maniera legale, giuridica, come se Cristo avesse dato una carta fondamentale ad alcuni uomini tenendosi poi separato dagli uomini. L'origine della Chiesa è assai più profonda. Cristo fondò la Chiesa per restare egli stesso presente nella storia degli uomini tramite il gruppo dei cristiani che formano la Chiesa. La Chiesa è la carne nella quale Cristo concreta lungo i secoli la propria vita e missione personale".
Credo che con questo testo Romero tocchi il punto dottrinalmente più profondo del suo 'sentire con la Chiesa'. Da quella profondità vengono le affermazioni, che sono ovvie quando vengono prese in astratto, in generale, ma che diventano scandalose quando sono de-dotte in pratica pastorale. Eccone una:

"Questo è il pensiero fondamentale della mia predicazione. Niente mi interessa come la vita umana... Il sangue e la morte vanno molto più in là di ogni politica e toccano il cuore stesso di Dio... Niente ha tanta impor-tanza per la Chiesa come la vita umana, come la persona umana. Soprat-tutto la persona dei poveri e oppressi, per i quali Gesù disse che tutto ciò che viene fatto a essi viene fatto a lui".

È chiaro che qui i poveri non sono considerati alla stregua di una platea di bocche da sfamare, ma di bocche dalle quali imparare la verità del Vangelo. Queste parole Romero le pronunziò alte e chiare nel discorso in occasione del conferimento della Laurea Honoris causa a Lovanio:

"Il mondo dei poveri con caratteristiche sociali e politiche assai concrete, ci insegna dove deve incarnarsi la Chiesa per evitare la falsa universalizza-zione che termina sempre con la connivenza coi potenti. Il mondo dei poveri ci insegna come deve essere l'amore cristiano, che intende certa-mente la pace, ma che smaschera il falso pacifismo, la rassegnazione e l'inattività. Crediamo che questa sia la maniera di conservare l'identità e la trascendenza stessa della Chiesa, perché in questa maniera conservia-mo la fede in Dio.

Identità e trascendenza: l'ultima omelia

Identità e trascendenza. Queste due parole sono la bussola sulla quale il Vescovo si orienta nella ricerca del 'senso' del "Sentire cum Ecclesia". Cerchiamo di seguirlo in questa ricerca tenendo sott'occhio in parti-colare le omelie della Quaresima del 1980 (che culminò con la sua morte). Quelle omelie suscitarono vaste e opposte reazioni per qual-che cosa di inedito, di inusuale. Chi mai fa attenzione allo schema delle omelie che il prete fa in Chiesa? È già molto se la gente si porta via qualche buon pensiero dall'insieme della predica. Qui invece è proprio lo schema della predica a entusiasmare o a scandalizzare, a suscitare ovazioni e proteste altissime. Lo schema delle omelie quare-simali di Monsignor Romero era così stilato: la prima parte era un commento alle letture bibliche, la seconda era costituita da un elenco puntuale, dettagliato, anagrafico degli assassinati della settimana e, quando era possibile, dei loro assassini o mandanti. Questa scaletta di argomenti era per se stessa un segno di contraddizione. C'era chi apprezzava la prima parte dell'omelia (nella quale il Vescovo si dimo-strava un buon conoscitore della Bibbia e dei biblisti) e magari si fosse fermato lì! C'era invece chi era tutt'orecchi per la seconda parte e avrebbe magari tagliato corto sulla prima.
Per il Vescovo invece il "Sentire cum Ecclesia" si traduceva in quella concatenazione di argomenti solo apparentemente disparati. Le due parti dell'omelia erano i due dadi di una sola giocata. Nella prima parte dell'omelia c'era tutta la forza propulsiva che poi andava a sfociare nella seconda parte. Vediamo più da vicino.
Nella prima parte Romero metteva in luce la paziente opera di Mosé nell'educare il popolo eletto, così che arrivasse a essere tanto più popolo quanto più popolo di Dio e tanto più popolo di Dio quanto più popolo. Applicata al popolo salvadoregno (Monsignor Romero insiste-va volentieri nel parallelismo tra il popolo d'Israele e il popolo del Salvador) la lezione di Mosè girava attorno a quelle due parole-chiave:
identità e trascendenza. Quale storia meschina e a corto respiro può fare il popolo del Salvador, se non è popolo di Dio! Cogliamo qua e là dalle omelie:

"Quando si perde di vista la trascendenza della lotta, tutto si fa consistere in cose che invece sono addirittura sbagliate. Attenzione! Quelli che lavorano oggi per la liberazione del popolo sappiano che senza Dio non si può fare nulla e che con Dio anche la cosa più insignificante è un apporto quando la si fa con buona volontà". (Omelia della quinta domeni-ca di Quaresima)

E nell'omelia del 13 gennaio 1980:

"Io vorrei qui supplicare i leaders politici che parlano al microfono di non gridare per il semplice fatto di avere davanti a sé un microfono. La gente dice: Che cosa gli serve il microfono a questo uomo?! C'è un proverbio che dice: "Non alzare la voce, rafforza invece le tue ragioni".

Nell'omelia del 27 gennaio 1980 affiora prepotente il suo "Sentire cum Ecclesia".

"In queste ore nelle quali tutto sembra relativo, nelle quali tutto è confu-sione e niente è vero, come rimane solida la parola del Vangelo. Il Vangelo dà una consistenza eterna alla Chiesa. Perciò ripetiamo: la Chie-sa non vive di congiunture, la Chiesa vive dell'eterna verità che si è realizzata nel tempo".

Nella stessa omelia.

"Io non ho il minimo dubbio che tanto dolore e tanto sangue non abbiano a dare un giorno un buon raccolto. Sono tempi duri, Dio vuole che li comprendiamo tuttavia, che riusciamo a interpretare attraverso essi i segni dei tempi".

Nell'omelia della quinta domenica di Quaresima troviamo questa suggestiva definizione della Chiesa: "La Chiesa è l'eterna pellegrina della storia". Questo mistero di immanenza e di trascendenza diventa particolarmente luminoso nella figura di Maria:

"Maria, la Vergine, la serva di Jahweh, nel suo Magnificat canta il Dio che libera gli uomini, i poveri; ma la dimensione politica di questa liberazione esplode quando ella dice testualmente: 'Dio rimanda a mani vuote i ricchi e ricolma di beni i poveri'. Maria continua poi con una parola che noi potremmo dire insurrezionale: 'ha rovesciato i potenti dal trono'. Questa è la dimensione politica della nostra fede: la visse Maria, la visse Gesù". (Omelia del 17 febbraio 1980)

Tutto questo è molto bello e importante. Ma se il vescovo Romero si fosse fermato qui nessun tiratore scelto avrebbe mirato al suo cuore quella sera del 24 marzo 1980 nella Cappella della Divina Provviden-za. C'era da realizzare la seconda parte del progetto di educazione di Mosè al popolo eletto: il popolo sarà tanto più popolo di Dio quanto sarà popolo. Questo fu l'aspetto ultimo e definitivo "Sentire cum Ecclesia" da parte di Monsignor Romero. Qui infatti il 'sentire' ha relazione immediata con la 'sensibilità'. In questo l'insegnamento del vescovo Romero coincide con l'insegnamento del Papa. Parlando nel Yankee Stadium nell'ottobre del 1979 Giovanni Paolo Il diceva:

"Il pensiero sociale e la pratica sociale ispirata al Vangelo dovranno sem-pre essere caratterizzati da una sensibilità per quelli che più soffrono, per quelli che sono in estrema miseria, per gli oppressi da mali fisici, mentali e morali che affliggono l'umanità. Bisogna cercare le cause strutturali che provocano i diversi tipi di povertà nel mondo".

E il vescovo Romero:

"Se insisto che c'è una repressione sempre crescente e che sempre meno si reagisce di fronte a questo fatto, comprendetemi bene: non voglio incitar-vi alla violenza. Coloro che mi hanno capito così mi calunniano. Al contrario, quello che a me interessa è domandare ai responsabili della escalation della repressione di smettere dall'usare violenza per mantenere il popolo nell'oppressione. E voglio pure convincere il popolo a non perdere la sua sensibilità morale e la sua coscienza critica". (Omelia della seconda domenica di Quaresima, 1980)

L'insensibilità agisce come un corrosivo nel tessuto sociale ed eccle-siale. Ed è esattamente a questo che tende il clima di terrore: che sia nell'aria, ma non nominabile, non identificabile, anonimo, senza i nomi degli assassini e delle vittime. Si arriva al punto di cospargere i volti degli uccisi con liquidi corrosivi per impedirne il riconoscimento e la denuncia al mondo di fuori. 'Cambiare i connotati' ai singoli, farne una pedina nell'ingranaggio: questa è la strategia di uno Stato che diventa signore e fa dell'uomo uno schiavo.
Era appunto al fine di tener viva la sensibilità, di non fare il callo attorno al cuore che il vescovo Romero si estendeva, nella seconda parte dell'omelia, in un elenco dettagliato di nomi, contro l'inqualifi-cabile strategia dei desaparecidos. In questo compito di dare a ogni volto di ucciso il suo documento di identità il Vescovo fu aiutato da donne come Marianela Garcia.

C'è una domanda da fare, a conclusione. È mai possibile che queste due realtà 'popolo di Dio' e 'popolo' si fondano in una realtà unica?
Monsignor Romero lo crede e lo dimostra con alla mano l'esempio di Maria.

"L'attitudine di Maria - dice nell'omelia del 1980 sulle nozze di Cana - deve esser la nostra attitudine di Chiesa, fiduciosa ma attiva [...]. Non si può ottenere un miracolo solo sperandolo da Dio, senza porre da parte nostra tutto quello che è alla nostra portata. Maria è la coniugazione meravigliosa della fede e della attività".

Da questa coniugazione nasce la gioia. Gioia più esplosiva delle bom-be nei canti della Cattedrale. Gioia che risplende di maggior luce sul corpo opaco che è la fede di molti cristiani "così incolore, così smorta, così spenta" (Omelia della Santa Famiglia 1980)

È una gioia feconda, perché riempie i seminari di giovani: "Abbon-dano le vocazioni fino al punto che non è possibile riceverle nei nostri seminari". Ed erano cinque. Il Vescovo apre le porte. "Dico a quelli che non hanno potuto entrare in seminario: potete prepararvi anche nelle vostre case, e un giorno presentarvi già pronti a ricevere l'ordina-zione".
Dipende molto da noi cristiani europei non essere un corpo opaco sul quale per un attimo fiammeggia l'esempio del vescovo Romero, ma rifletterne invece, nella fede e nella vita, il fermo e lontano fulgore.

(La Rivista del clero italiano, 5 maggio 2000)

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1. Dalla prefazione di David M. Turoldo al libro di Levi A., Oscar Arnulfo Romero, un vescovo fatto popolo, Brescia 1981.
2 Radius, Monsignor Romero, Milano 1993, p. 53.
3 "Il Regno. Attualità", 1990.



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