| Sentire 
                cum Ecclesia, il ministero episcopale di O. A. Romero 
                   di 
                Abramo LeviSono 
                trascorsi ormai vent'anni dall'assassinio brutale e clamoroso 
                del vescovo di San Salvador O.A. Romero. La distanza temporale 
                ed emoti-va dell'evento permette una riflessione più pacata 
                sul senso del suo ministero episcopale, condotto con coraggio 
                e forza fino a quella morte, le cui circostanze - sull'altare, 
                al momento dell'Offertorio - sono simbo-licamente tanto dense.Assassinio 
                sull'altareA 
                fermare l'occhio della nostra memoria sugli avvenimenti che culmi-narono 
                la sera del 24 marzo 1980 con l'assassinio del vescovo Oscar Arnulfo 
                Romero, nella Cappella dell'Ospedale Divina Provvidenza in San 
                Salvador, c'è quella messa non finita, e il sangue vivo 
                del celebrante versato sull'altare.Non c'è solo da ricordare un 'assassinio nella cattedrale', 
                dopo circa novecento anni da quello famoso. C'è altresì 
                da superare uno scarto di anni, esilissimo a confronto - venti 
                appena - ma già molti e forse troppi per la labilità 
                della nostra memoria. L'assassinio del vescovo Romero non si presta 
                all'enfasi (storica o letteraria) dell'assas-sinio nella Cattedrale 
                del vescovo Becket, ma in compenso ha qualche cosa di molto più 
                puntuale e preciso nello spazio e nel tempo: sull'altare e al 
                momento dell'offertorio della Messa.
Ne 
                rilevò l'aspetto inedito e costrittivo p. Turoldo:"Amico, qui ti devi fermare. E medita, e rileggi... E' Dio 
                che vuoi farsi capire. Non lo ha colto (il vescovo Romero) per 
                una strada; si potrebbe dire: non fosse passato per quella strada! 
                Non lo ha colto in un salotto: uno potrebbe dire: non fosse andato 
                in quel salotto!... Invece l'ha colto mentre celebrava. E stava 
                con il calice in mano. E aveva appena detto che in quel calice 
                c'era del vino in attesa di farsi sangue"1.
Fermiamoci 
                dunque. La pregnanza del modulo evangelico ci obbliga ad adottare, 
                per intenderlo, il modello tradizionale di riflessione con i suoi 
                due tempi: Factum audivimus mysterium requiramus. Ecco il fatto.Dopo l'omelia del 23 marzo nella quale mons. Romero pregò 
                e ordinò ai soldati di non uccidere, il colonnello Marco 
                Aurelio Gonza-les disse: "L'Arcivescovo ha commesso un delitto, 
                gettando il disprez-zo sul nostro glorioso esercito". La 
                sera del 24 marzo alle 18.30 nella cappella della Divina Provvidenza 
                Monsignore terminò la sua breve omelia. Prese il corporale 
                per stenderlo sull'altare. In quell'attimo si udì uno sparo 
                e Romero cadde di schianto. Il colpo venne dal lato occidentale 
                della Cappella dell'Ospedale, dove l'Arcivescovo risiede-va con 
                i più poveri e abbandonati. Il proiettile penetrò 
                all'altezza del cuore, senza però toccarlo. Era un proiettile 
                esplosivo. Provocò una emorragia diffusa. Il colpo fu preceduto 
                da tre flash del fotografo che si era installato sul pulpito. 
                Al terzo flash il colpo, che a molti parve lo scoppio di una lampadina. 
                Passato il primo momento di stupore, alcune religiose ed altre 
                persone cercarono di aiutarlo. Madre Juanita prese in grembo la 
                testa di Monsignore e gli levò la stola dal collo. La città 
                fu tutta confusione. Scemarono i trasporti pubblici, si chiusero 
                ristoranti e negozi.
 L'Arcivescovo fu deposto in un feretro metallico di color grigio 
                a un paio di metri dal pulpito della Cattedrale, luogo che diventò 
                famoso in tutto il mondo per le vigorose denunce che mons. Romero 
                lanciò negli ultimi anni con inusitato rigore contro coloro 
                che violano i diritti umani in questa piccola nazione centro-americana. 
                All'interno della Cattedrale, dietro l'altare, un gruppo di 22 
                tra sacerdoti, religio-se e seminaristi fanno un digiuno completo 
                fino al momento della sepoltura dell'Arcivescovo. Il digiuno e 
                la preghiera sono la maniera con cui il popolo di Dio mostra il 
                suo desiderio di cambiamento in momenti estremi. Questo dunque 
                il fatto. A cui si può aggiungere la testimonianza di un 
                altro fedele: un'ora prima della Messa l'Arcive-scovo si recò 
                a S. Tecla per confessarsi, come era solito fare ogni settimana.
Il 
                mysterium della morte di RomeroPrima 
                di passare al secondo momento, mysterium requiramus, c'è 
                da rispondere a un'obiezione, che si può sbrigativamente 
                formulare così:"Qui di mistero non ce n'è. Qui c'è soltanto 
                il fatto di un vescovo che si è sbilanciato un po' troppo 
                a sinistra, con tutte le buone intenzioni - ovviamente - e con 
                una buona dose di ingenuità, così da provocare per 
                una sorta di reazione uguale e contraria la sua eliminazione fisica". 
                Io penso che questa sarà stata e sarà, nei dovuti 
                modi e forme, l'obiezione che l'avvocato del diavolo solleverà 
                nel processo di beati-ficazione. E penso anche che il postulatore 
                della causa farà notare a sua volta che la reazione fu 
                per ogni verso eccessiva e non certamente uguale. E tuttavia c'è 
                ragione di parlare di mistero. E i primi ad avvertirne l'aura 
                furono i più alti rappresentanti della gerarchia du-rante 
                le esequie dell'Arcivescovo.
 
                Il card. Corripio, rappresentante del Papa, disse: La Chiesa universale 
                celebra oggi l'ingresso di Gesù a Gerusalemme. E mentre 
                alcuni stendevano sul suo cammino i mantelli e agitavano rami 
                di palma, altri sconcertati, si domandavano: - Chi è costui? 
                Oggi la città di San Salvador fa la stessa domanda per 
                mons. Romero: - Chi è costui? E noi che lo conosciamo, 
                rispondiamo: - E' un Pastore che ubbidì fino all'ultimo 
                ai dettami della sua coscienza.A 
                sua volta il Vicario capitolare, mons. Urioste diceva: Siamo come 
                cristiani il giorno della Pentecoste, parliamo varie lingue, riceviamo 
                telegrammi che ci riesce difficile tradurre. Il fatto è 
                che gli uomini di buona volontà di tutto il mondo sono 
                riuniti in questa Catte-drale di San Salvador, perché crediamo 
                che mons. Romero è vivo e crediamo pure che il suo spirito, 
                che è lo spirito di Gesù, rinasce in ciascuno di 
                noi.Accanto 
                a queste voci alte c'è il sottovoce di testimonianze umilissime, 
                ma ancor meglio intonate al modulo evangelico, fin quasi a coincidere. 
                Una di queste venne segnalata dal Vescovo ausiliare di Madrid, 
                mons. Iniesta.Una 
                mattina andai a baciare quelle suppellettili sacre e consacrate 
                da quella morte. Nel chinarmi vidi sotto l'altare una corona di 
                spine. Ne chiesi conto alla religiosa dell'Ospedale che mi accompagnava. 
                Mi rac-contò un grazioso episodio praticamente sconosciuto 
                in San Salvador. Una vecchietta salvadoregna veniva di quando 
                in quando, da molto lontano, ad ascoltare la messa mattutina dell'Arcivescovo, 
                poi si intratte-neva qualche po' con lui e gli offriva frutti, 
                portati da lei stessa. Un giorno, l'ultima volta che venne a vederlo, 
                già parecchi mesi fa, gli portò come sempre della 
                frutta che gli consegnò al finire della Messa. Questa volta 
                però gli portò un crocifisso che gli pose al collo 
                e una corona di spine presa da una pianta chiamata izcanal con 
                spine di due o tre centime-tri e chiese di mettergliela sulla 
                testa. Monsignor Romero accettò, e mentre l'Arcivescovo 
                teneva la corona di spine in testa e il crocifisso al petto, lo 
                benedisse.Questo 
                episodio fa pensare all'unzione di Maria di Betania, con quel 
                tanto di diverso che ne assicura l'autenticità eliminando 
                qualsiasi forma di attrazione analogica. C'è la medesima 
                grazia nella risposta che il vescovo Romero diede alle Suore che 
                lo guardavano con una certa invidia, quella mattina del 24 marzo, 
                recarsi al mare per riposare e bagnare i piedi nel mare: "Dove 
                vado io, voi non potete venire!". Cosa avranno detto le Suore 
                quella sera?
 La 
                conversione
Noi 
                non possiamo far nostra la certezza della presenza di un mistero 
                reale quale vi fu nella vecchietta della corona di spine o nelle 
                religiose che udirono quella citazione evangelica, così 
                verde di speranza alla mattina e così rossa di sangue la 
                sera. Per il mistero del vescovo Romero noi abbiamo un'altra possibilità: 
                quella di declinarlo sul para-digma della 'conversione'. Questa 
                declinazione è alla nostra portata. Tramite essa noi possiamo 
                avvicinarci in maniera convincente alla reale vita, passione e 
                morte di mons. Romero. Ma la conversione del vescovo Romero deve 
                essere a sua volta analizzata per non rischiare di cadere in belle 
                approssimazioni drammatiche.Non c'è paragone tra questa conversione e quella, per citare 
                episo-di famosi, di un Saulo o di un Agostino.
 Iniziamo con una doppia domanda: Come fu vista da fuori la conversione 
                di Romero? Come fu vissuta da lui stesso? Per la prima domanda 
                abbiamo una testimonianza preziosa: quella di Jon Sobrino, il 
                gesuita che, solo per essere in quel torno di tempo assente (si 
                trovava in Thailandia), sfuggì al massacro dei gesuiti 
                dell'Università Centro Americana (UCA) perpetrato dagli 
                squadroni della morte nel novem-bre 1989. Ebbene, cosa pensava 
                J. Sobrino di mons. Romero al tempo dell'ingresso in San Salvador 
                come Arcivescovo? Ascoltiamolo:
"È 
                evidente che non vedevamo di buon occhio che mons. Romero fosse 
                il successore dell'arcivescovo Luis Chavez, vescovo pastorale 
                molto vicino al popolo e con cui avevamo buonissimi rapporti... 
                Mi chiedevo se mons. Romero aveva il coraggio di denunciare la 
                repressione o se, al contrario, la voleva facilitare. Pochi giorni 
                dopo ricevetti una cartolina postale da un gesuita messicano la 
                quale per poco non mi faceva le condoglianze. Noi tutti vedevamo 
                un orizzonte molto scuro. Per fortuna, ci sbagliammo".Ecco 
                invece la testimonianza dello stesso Sobrino dopo l'assassinio 
                dei gesuiti, a dieci anni dalla morte di Romero:Voglio 
                dire invece qualche cosa su ciò di cui, con frequenza, 
                parlavamo di Monsignor Romero. Quello era linguaggio di fede. 
                Voler bene e ammirare Monsignor Romero non è una cosa difficile 
                in assoluto; lo è magari per quelli che negano la luce 
                e hanno un cuore di pietra, ma cercar di seguire e accettare tutto 
                Monsignor Romero è cosa di fede. Io credo che per loro, 
                (i gesuiti uccisi, n.d.r.), per me e per tanti altri, Monsignor 
                Romero fu un Cristo attualizzato e, come Cristo, sacramento di 
                Dio... Non credo che né il Signore Gesù né 
                il Padre siano gelosi che io parli così di Monsignor Romero. 
                Dopo tutto, lui è stato per noi tutti il loro dono più 
                prezioso in questi giorni.La 
                conversione di mons. Romero è dunque da collocare nella 
                cornice di queste due testimonianze, almeno per quel che riguarda 
                la conver-sione vista da fuori. Ma è ormai tempo che cerchiamo 
                quel che è più difficile trovare, cioè come 
                la conversione fu vista e vissuta dallo stesso Vescovo. Non pretendiamo 
                di sapere come Romero vide la propria conversione. Possiamo invece 
                conoscere come la proiettava fuori di sé. Cosa che fece 
                in un'intervista del 9 novembre 1979 a Giorgio Callegari che chiedeva: 
                "Ma Lei si è convertito davvero?". Mons. Romero 
                rispose con molta vivacità:"Magari 
                mi fossi convertito! La conversione è sempre verso Dio, 
                e il povero è precisamente un testimone di questa necessità 
                dell'intervento di Dio. Trattando con il povero si capisce che 
                egli è un uomo che deve porre tutta la sua fiducia in un 
                altro. Se quest'altro è Dio, si ha la vera conver-sione, 
                perché si può altresì porre la fiducia nell'idolo 
                del potere, della ricchezza. Convertirsi significa volgersi al 
                Dio vivo e vero e in questo senso lo sento che il mio contatto 
                con i poveri conduce a sentire sempre meglio la necessità 
                di Dio. L'esempio del povero che scopre al di là di un 
                certo complesso di inferiorità di essere prediletto da 
                Dio e che quanto più è privo di idoli terrestri 
                tanto più conta sulla protezione di Dio e pone in Dio la 
                speranza della sua liberazione insegna a tutti, anche a noi che 
                lo predichiamo, che senza Dio non possiamo far nulla".Il 
                testo di questa intervista ci servirà per indovinare come 
                fu vissuta la conversione da parte del vescovo Romero. Dico indovinare, 
                perché potrà accadere che nel vissuto quotidiano 
                del Vescovo non si riesca a trovare qualche cosa di simile a una 
                conversione quale noi immaginia-mo, con esorcismo sulla vita passata, 
                con propositi di completo rinno-vamento, con preghiere e astinenze, 
                con una scelta di povertà volonta-ria. Niente di tutto 
                questo nella conversione del vescovo Romero. Porto un solo esempio 
                a riprova.Nell'occasione dell'ingresso dell'Arcivescovo a San Salvador (se 
                ne è già trattato) alcune signore della aristocrazia 
                salvadoregna avevano avanzato la proposta della costruzione di 
                una nuova sede episcopale degna dell'alto ministero: "Volentieri 
                accetterò questa casa - rispose l'Arcivescovo - quando 
                tutti i poveri che abitano nei barrios della miseria avranno una 
                casa". Non c'è nulla in questa risposta che risenta 
                di quel pauperismo (sempre un po' ambiguo) che spesso connota 
                delle scelte radicali. L'Arcivescovo non è contrario a 
                una bella resi-denza, ma che non stoni con la miseria degli altri, 
                come stona l'illumi-nazione notturna di certe chiese e monumenti 
                che schiacciano ancor più nel buio le altre abitazioni.
Sentire 
                con la ChiesaDifficile 
                dunque isolare questa conversione, che si realizza, si direbbe, 
                nell'identico. Infatti i termini reali della conversione, il suo 
                statuto e le sue esigenze sono già inscritte come in una 
                sorta di codice genetico nel motto che il Vescovo scelse per il 
                suo stemma e che poi adottò anche come sigla per la sua 
                radio Isax: "Sentire cum Ecclesia". Se andiamo a rileggere 
                l'intervista non facciamo certo fatica a rintracciarvi termini 
                come 'sentire', 'senso', 'sento'. Si può ben dire che la 
                storia della conversione di Romero è la storia di questo 
                'sentire' che determina poi il modo di guardare alla Chiesa, di 
                vederla, di ascoltarla.In un primo tempo il "Sentire cum Ecclesia" fu inteso 
                da Monsignor Romero nel senso più ovvio ed elementare, 
                scolastico. È il senso di tutto ciò che nella vita 
                è propedeutico, preparatorio. Il sapere quel che si deve 
                fare e l'eseguirlo secondo l'ordine ricevuto fa parte della propedeutica 
                della vita. A questo proposito il vescovo Romero rac-contava un 
                particolare della sua fanciullezza. La famiglia Romero si poteva 
                classificare come una famiglia agiata (anche se non appartene-va 
                alle famose 14 famiglie detentrici della maggior parte delle proprie-tà 
                in Salvador). Piccolo emblema di questa agiatezza era un cavallino 
                di legno regalato in qualche occasione al piccolo Oscar. Quando 
                la mamma mandava il figlioletto per qualche servizio e voleva 
                una obbe-dienza pronta e gioiosa, gli diceva: "Monta sul 
                tuo cavallino e va'!". E Oscar, docile, saliva sul suo 'ippogrifo' 
                e si metteva al galoppo, andata e ritorno.
 Questo episodio mi sembra illuminante per capire quale senso abbia 
                avuto in quel primo tempo il motto "Sentire cum Ecclesia". 
                Esso significò per il Vescovo un'adesione intelligente, 
                incondizionata, gio-iosa alla dottrina della Chiesa, al suo magistero, 
                alle sue direttive. Un passaggio limpido e senza riserve dall'obbedienza 
                alla madre all'obbe-dienza alla madre Chiesa. Perfino il cavallino 
                ha qui il suo simbolismo. Mons. Romero fin dall'inizio del suo 
                ministero tenne molto all'uso di tutti i mezzi di comunicazione 
                forniti dal progresso tecnico: la stazio-ne radio diocesana, l'altoparlante 
                montato sulla camionetta che lo tra-sportava nella visita alle 
                parrocchie. Romero non era certo un laudator temporis acti. Fin 
                da giovane prete aveva preso ad amare la sua fotocopiatrice e 
                il suo computer, magari in un'edizione rudimentale.
 Il motto "Sentire cum Ecclesia" aveva dunque un suo 
                significato chiaro. Tra consenso e dissenso egli si collocava 
                senza il minimo di esitazione dalla parte del consenso; e non 
                risparmiava dure strigliate ai 'medellinisti', tra i quali in 
                prima fila i teologi dell'UCA. In questo modo però il motto 
                "Sentire cum Ecclesia" veniva onorato solo nella sua 
                accezione più ovvia: consentire, non dissentire! Ma quel 
                motto portava da sé molto più avanti: non a una 
                sterile dialettica tra consen-so e dissenso, bensì alla 
                ricerca del 'senso'. Il passaggio, o, se proprio si vuole, la 
                conversione del vescovo Romero avvenne per il tramite di un approfondimento 
                del 'sentire' con la Chiesa. Così il Vescovo andava a raggiungere 
                quella radice autentica alla quale si era afferrata Teresa di 
                Lisieux (dottore della Chiesa!) quando diceva: "sento che 
                non mi sbaglio".
 Approfondimento definitivo e veramente 'radicale' quello di Tere-sa 
                di Lisieux: "Nel cuore della Chiesa mia madre io sarò 
                l'amore". Approfondimento graduale, ma lineare e inflessibile 
                nella sua direzio-ne, nel vescovo Romero. Anche in lui c'è 
                il passaggio dagli ingranaggi della Chiesa al suo cuore pulsante, 
                dalla gerarchia della Chiesa alla genesi della Chiesa. Scriveva 
                in un suo 'Piano pastorale':
"Non 
                si deve intendere la fondazione della Chiesa in maniera legale, 
                giuridica, come se Cristo avesse dato una carta fondamentale ad 
                alcuni uomini tenendosi poi separato dagli uomini. L'origine della 
                Chiesa è assai più profonda. Cristo fondò 
                la Chiesa per restare egli stesso presente nella storia degli 
                uomini tramite il gruppo dei cristiani che formano la Chiesa. 
                La Chiesa è la carne nella quale Cristo concreta lungo 
                i secoli la propria vita e missione personale".Credo che con questo testo Romero tocchi il punto dottrinalmente 
                più profondo del suo 'sentire con la Chiesa'. Da quella 
                profondità vengono le affermazioni, che sono ovvie quando 
                vengono prese in astratto, in generale, ma che diventano scandalose 
                quando sono de-dotte in pratica pastorale. Eccone una:
"Questo 
                è il pensiero fondamentale della mia predicazione. Niente 
                mi interessa come la vita umana... Il sangue e la morte vanno 
                molto più in là di ogni politica e toccano il cuore 
                stesso di Dio... Niente ha tanta impor-tanza per la Chiesa come 
                la vita umana, come la persona umana. Soprat-tutto la persona 
                dei poveri e oppressi, per i quali Gesù disse che tutto 
                ciò che viene fatto a essi viene fatto a lui".È 
                chiaro che qui i poveri non sono considerati alla stregua di una 
                platea di bocche da sfamare, ma di bocche dalle quali imparare 
                la verità del Vangelo. Queste parole Romero le pronunziò 
                alte e chiare nel discorso in occasione del conferimento della 
                Laurea Honoris causa a Lovanio:"Il 
                mondo dei poveri con caratteristiche sociali e politiche assai 
                concrete, ci insegna dove deve incarnarsi la Chiesa per evitare 
                la falsa universalizza-zione che termina sempre con la connivenza 
                coi potenti. Il mondo dei poveri ci insegna come deve essere l'amore 
                cristiano, che intende certa-mente la pace, ma che smaschera il 
                falso pacifismo, la rassegnazione e l'inattività. Crediamo 
                che questa sia la maniera di conservare l'identità e la 
                trascendenza stessa della Chiesa, perché in questa maniera 
                conservia-mo la fede in Dio.Identità 
                e trascendenza: l'ultima omeliaIdentità 
                e trascendenza. Queste due parole sono la bussola sulla quale 
                il Vescovo si orienta nella ricerca del 'senso' del "Sentire 
                cum Ecclesia". Cerchiamo di seguirlo in questa ricerca tenendo 
                sott'occhio in parti-colare le omelie della Quaresima del 1980 
                (che culminò con la sua morte). Quelle omelie suscitarono 
                vaste e opposte reazioni per qual-che cosa di inedito, di inusuale. 
                Chi mai fa attenzione allo schema delle omelie che il prete fa 
                in Chiesa? È già molto se la gente si porta via 
                qualche buon pensiero dall'insieme della predica. Qui invece è 
                proprio lo schema della predica a entusiasmare o a scandalizzare, 
                a suscitare ovazioni e proteste altissime. Lo schema delle omelie 
                quare-simali di Monsignor Romero era così stilato: la prima 
                parte era un commento alle letture bibliche, la seconda era costituita 
                da un elenco puntuale, dettagliato, anagrafico degli assassinati 
                della settimana e, quando era possibile, dei loro assassini o 
                mandanti. Questa scaletta di argomenti era per se stessa un segno 
                di contraddizione. C'era chi apprezzava la prima parte dell'omelia 
                (nella quale il Vescovo si dimo-strava un buon conoscitore della 
                Bibbia e dei biblisti) e magari si fosse fermato lì! C'era 
                invece chi era tutt'orecchi per la seconda parte e avrebbe magari 
                tagliato corto sulla prima.Per il Vescovo invece il "Sentire cum Ecclesia" si traduceva 
                in quella concatenazione di argomenti solo apparentemente disparati. 
                Le due parti dell'omelia erano i due dadi di una sola giocata. 
                Nella prima parte dell'omelia c'era tutta la forza propulsiva 
                che poi andava a sfociare nella seconda parte. Vediamo più 
                da vicino.
 Nella prima parte Romero metteva in luce la paziente opera di 
                Mosé nell'educare il popolo eletto, così che arrivasse 
                a essere tanto più popolo quanto più popolo di Dio 
                e tanto più popolo di Dio quanto più popolo. Applicata 
                al popolo salvadoregno (Monsignor Romero insiste-va volentieri 
                nel parallelismo tra il popolo d'Israele e il popolo del Salvador) 
                la lezione di Mosè girava attorno a quelle due parole-chiave:
 identità e trascendenza. Quale storia meschina e a corto 
                respiro può fare il popolo del Salvador, se non è 
                popolo di Dio! Cogliamo qua e là dalle omelie:
"Quando 
                si perde di vista la trascendenza della lotta, tutto si fa consistere 
                in cose che invece sono addirittura sbagliate. Attenzione! Quelli 
                che lavorano oggi per la liberazione del popolo sappiano che senza 
                Dio non si può fare nulla e che con Dio anche la cosa più 
                insignificante è un apporto quando la si fa con buona volontà". 
                (Omelia della quinta domeni-ca di Quaresima)E 
                nell'omelia del 13 gennaio 1980:"Io 
                vorrei qui supplicare i leaders politici che parlano al microfono 
                di non gridare per il semplice fatto di avere davanti a sé 
                un microfono. La gente dice: Che cosa gli serve il microfono a 
                questo uomo?! C'è un proverbio che dice: "Non alzare 
                la voce, rafforza invece le tue ragioni".Nell'omelia 
                del 27 gennaio 1980 affiora prepotente il suo "Sentire cum 
                Ecclesia"."In 
                queste ore nelle quali tutto sembra relativo, nelle quali tutto 
                è confu-sione e niente è vero, come rimane solida 
                la parola del Vangelo. Il Vangelo dà una consistenza eterna 
                alla Chiesa. Perciò ripetiamo: la Chie-sa non vive di congiunture, 
                la Chiesa vive dell'eterna verità che si è realizzata 
                nel tempo".Nella 
                stessa omelia."Io 
                non ho il minimo dubbio che tanto dolore e tanto sangue non abbiano 
                a dare un giorno un buon raccolto. Sono tempi duri, Dio vuole 
                che li comprendiamo tuttavia, che riusciamo a interpretare attraverso 
                essi i segni dei tempi".Nell'omelia 
                della quinta domenica di Quaresima troviamo questa suggestiva 
                definizione della Chiesa: "La Chiesa è l'eterna pellegrina 
                della storia". Questo mistero di immanenza e di trascendenza 
                diventa particolarmente luminoso nella figura di Maria:"Maria, 
                la Vergine, la serva di Jahweh, nel suo Magnificat canta il Dio 
                che libera gli uomini, i poveri; ma la dimensione politica di 
                questa liberazione esplode quando ella dice testualmente: 'Dio 
                rimanda a mani vuote i ricchi e ricolma di beni i poveri'. Maria 
                continua poi con una parola che noi potremmo dire insurrezionale: 
                'ha rovesciato i potenti dal trono'. Questa è la dimensione 
                politica della nostra fede: la visse Maria, la visse Gesù". 
                (Omelia del 17 febbraio 1980)Tutto 
                questo è molto bello e importante. Ma se il vescovo Romero 
                si fosse fermato qui nessun tiratore scelto avrebbe mirato al 
                suo cuore quella sera del 24 marzo 1980 nella Cappella della Divina 
                Provviden-za. C'era da realizzare la seconda parte del progetto 
                di educazione di Mosè al popolo eletto: il popolo sarà 
                tanto più popolo di Dio quanto sarà popolo. Questo 
                fu l'aspetto ultimo e definitivo "Sentire cum Ecclesia" 
                da parte di Monsignor Romero. Qui infatti il 'sentire' ha relazione 
                immediata con la 'sensibilità'. In questo l'insegnamento 
                del vescovo Romero coincide con l'insegnamento del Papa. Parlando 
                nel Yankee Stadium nell'ottobre del 1979 Giovanni Paolo Il diceva:"Il 
                pensiero sociale e la pratica sociale ispirata al Vangelo dovranno 
                sem-pre essere caratterizzati da una sensibilità per quelli 
                che più soffrono, per quelli che sono in estrema miseria, 
                per gli oppressi da mali fisici, mentali e morali che affliggono 
                l'umanità. Bisogna cercare le cause strutturali che provocano 
                i diversi tipi di povertà nel mondo".E 
                il vescovo Romero:"Se 
                insisto che c'è una repressione sempre crescente e che 
                sempre meno si reagisce di fronte a questo fatto, comprendetemi 
                bene: non voglio incitar-vi alla violenza. Coloro che mi hanno 
                capito così mi calunniano. Al contrario, quello che a me 
                interessa è domandare ai responsabili della escalation 
                della repressione di smettere dall'usare violenza per mantenere 
                il popolo nell'oppressione. E voglio pure convincere il popolo 
                a non perdere la sua sensibilità morale e la sua coscienza 
                critica". (Omelia della seconda domenica di Quaresima, 1980)L'insensibilità 
                agisce come un corrosivo nel tessuto sociale ed eccle-siale. Ed 
                è esattamente a questo che tende il clima di terrore: che 
                sia nell'aria, ma non nominabile, non identificabile, anonimo, 
                senza i nomi degli assassini e delle vittime. Si arriva al punto 
                di cospargere i volti degli uccisi con liquidi corrosivi per impedirne 
                il riconoscimento e la denuncia al mondo di fuori. 'Cambiare i 
                connotati' ai singoli, farne una pedina nell'ingranaggio: questa 
                è la strategia di uno Stato che diventa signore e fa dell'uomo 
                uno schiavo.Era appunto al fine di tener viva la sensibilità, di non 
                fare il callo attorno al cuore che il vescovo Romero si estendeva, 
                nella seconda parte dell'omelia, in un elenco dettagliato di nomi, 
                contro l'inqualifi-cabile strategia dei desaparecidos. In questo 
                compito di dare a ogni volto di ucciso il suo documento di identità 
                il Vescovo fu aiutato da donne come Marianela Garcia.
C'è 
                una domanda da fare, a conclusione. È mai possibile che 
                queste due realtà 'popolo di Dio' e 'popolo' si fondano 
                in una realtà unica?Monsignor Romero lo crede e lo dimostra con alla mano l'esempio 
                di Maria.
"L'attitudine 
                di Maria - dice nell'omelia del 1980 sulle nozze di Cana - deve 
                esser la nostra attitudine di Chiesa, fiduciosa ma attiva [...]. 
                Non si può ottenere un miracolo solo sperandolo da Dio, 
                senza porre da parte nostra tutto quello che è alla nostra 
                portata. Maria è la coniugazione meravigliosa della fede 
                e della attività".Da 
                questa coniugazione nasce la gioia. Gioia più esplosiva 
                delle bom-be nei canti della Cattedrale. Gioia che risplende di 
                maggior luce sul corpo opaco che è la fede di molti cristiani 
                "così incolore, così smorta, così spenta" 
                (Omelia della Santa Famiglia 1980)È 
                una gioia feconda, perché riempie i seminari di giovani: 
                "Abbon-dano le vocazioni fino al punto che non è possibile 
                riceverle nei nostri seminari". Ed erano cinque. Il Vescovo 
                apre le porte. "Dico a quelli che non hanno potuto entrare 
                in seminario: potete prepararvi anche nelle vostre case, e un 
                giorno presentarvi già pronti a ricevere l'ordina-zione".Dipende molto da noi cristiani europei non essere un corpo opaco 
                sul quale per un attimo fiammeggia l'esempio del vescovo Romero, 
                ma rifletterne invece, nella fede e nella vita, il fermo e lontano 
                fulgore.
(La 
                Rivista del clero italiano, 5 maggio 2000)================================================================1. 
                Dalla prefazione di David M. Turoldo al libro di Levi A., Oscar 
                Arnulfo Romero, un vescovo fatto popolo, Brescia 1981.2 Radius, Monsignor Romero, Milano 1993, p. 53.
 3 "Il Regno. Attualità", 1990.
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