Se
dovessi sintetizzare in uno slogan la figura di Mons. Romero,
parafrasando il titolo della prima biografia apparsa in Italia
ad opera di Abramo Levi, lo definirei: "un vescovo fatto
dal popolo, perché fedele a Dio". Sono queste, infatti,
le due dimensioni fondamentali della sua persona; imprescindibili
per comprendere gli elementi di continuità e quelli di
discontinuità nella vicenda umana e sacerdotale di questo
grande profeta e martire.
Un
vero "romano"
Nell'arco
della sua vita possiamo facilmente individuare tre periodi, che
corrispondono anche a tre fasi ben caratterizzate.
Nel primo, che copre la quasi totalità del tempo - dalla
nascita, il 15 agosto 1917 al 14 dicembre 1974, per sfumare in
un chiaro-scuro di luci ed ombre nel corso del 1975 - Mons. Romero
fu un "vero romano".
Certo,
egli si sentì sempre profondamente "salvadoregno"
e conservò fino alla fine alcuni tratti del "niño
de la flauta" ("il bambino del flauto"), com'era
chiamato da piccolo per l'estro musicale che lo distingueva e
sfogava nel flauto. Fatale gli fu la buona predisposizione agli
studi, nonché l'ottima disciplina, di cui aveva dato prova
nei primi anni di seminario, che spinsero i superiori ad inviarlo
a Roma per completare gli studi teologici e ricevere una solida
formazione, "romana" appunto! Rientrato in patria, questo
bagaglio gli spianò una fulminea carriera ecclesiastica:
parroco - per pochi anni - e segretario del vescovo di San Miguel;
poi segretario della Conferenza Episcopale, a San Salvador; quindi,
nel 1970, vescovo ausiliare dell'arcivescovo Luis Chávez
y González, uno dei grandi protagonisti della II Conferenza
Generale dell'Episcopato Latinoamericano di Medellín.
Le
testimonianze di quegli anni concordano nel definirlo uomo generosissimo,
capace di privarsi anche del necessario per distribuirlo ai poveri,
ma accecato dalla fobia anticomunista e dal sospetto verso tutto
ciò che in qualche modo poteva rappresentare una novità,
tanto fuori quanto dentro la Chiesa.
Lo stesso Concilio Vaticano II e la Conferenza di Medellín
li aveva accettati solo in nome della sua assoluta e incondizionata
obbedienza alla Chiesa, ma pur sempre nutrendo una buona dose
di dubbi
Furono
anni tormentati per il piccolo paese centroamericano, nei quali,
a dispetto di quanto stava succedendo e delle scelte pastorali
degli altri confratelli, egli si guadagnò la stima e l'amicizia
dell'oligarchia salvadoregna, vale a dire delle 14 famiglie che
erano proprietarie dell'intera nazione. Ai suoi occhi esse rappresentavano
una garanzia di stabilità e quindi una sicurezza per la
libertà religiosa e gli interessi della Chiesa. Nello stesso
periodo, accostò l'Opus Dei, già presente nel paese
ma ancora ai margini della vita ecclesiale, senza però
arrivare a farne parte. In poche parole: ne fece letteralmente
"di tutti i colori". Basti un solo esempio: quale direttore
di Orientación, la rivista ufficiale dell'arcidiocesi,
attaccò pesantemente i padri gesuiti, che reggevano il
seminario interdiocesano, l'università cattolica (UCA)
e l'esternato San José, accusandoli di comunismo e auspicandone
la rimozione, in un momento in cui simili accuse sortivano l'effetto
sicuro e immediato di fare iscrivere gli accusati nel registro
degli squadroni della morte. Per loro e sua fortuna, mancava ancora
qualche anno al momento in cui, anche in un paese profondamente
cattolico come il Salvador, i militari avrebbero superato la remora
di uccidere un prete.
La
misura invece era già colma per i sacerdoti e nemmeno la
stima di un arcivescovo tanto apprezzato e amato - da loro come
dal popolo - fu sufficiente a salvarlo: Mons. Luis Chávez
si vide costretto a chiedere al Vaticano di applicare la nota
formula del "promoveatur ut moveatur"
e il 14
dicembre 1974 Mons. Romero fece il suo ingresso a Santiago de
Maria, quale vescovo titolare della più piccola e povera
diocesi del Salvador.
Il
popolo è il mio profeta
Fu
questo il periodo più breve e sconosciuto (allora come
oggi) della vita di Mons. Romero, ma fu anche il tempo e il luogo
in cui qualcosa di imprevedibile successe: a Santiago de Maria,
in due anni e due mesi, Mons. Romero maturò la sua "conversione".
Una conversione lenta ma progressiva, secondo le testimonianze
di diversi collaboratori che ebbero modo di notare il suo profondo
cambiamento - tanto sul piano delle convinzioni teologiche quanto
su quello della prassi pastorale - dovuto all'incontro con la
miseria dei contadini e l'oppressione inflitta agli stagionali,
giunti in città per la raccolta del cotone e del caffè.
Fra queste testimonianze, prima per autorevolezza è certamente
la confidenza che lo stesso Romero fece al padre Jerez, gesuita,
in una bella serata romana, passeggiando per via della Conciliazione:
"Monsignore, lei è cambiato, si nota in tutto, cosa
è successo?
E' che ognuno ha le sue radici
io nacqui in una famiglia molto povera
Poi, tornato in Salvador
passai ventitré anni sommerso tra le carte. E quando mi
chiamarono a San Salvador, come vescovo ausiliare, caddi nelle
mani dell'Opus Dei e lì rimasi
Mi mandarono poi a
Santiago de Maria e lì sì che tornai a scontrarmi
con la miseria. Con quei bambini che morivano per l'acqua che
bevevano, con quei contadini maltrattati durante i raccolti
E sa, padre, il carbone diventato brace si riprende al primo soffio.
cambiai, ma fu anche un ritorno".
Per
approfondire questo aspetto è preziosa una pubblicazione
curata da alcuni padri Passionisti che lavorarono strettamente
a contatto con lui negli anni di Santiago: tanto documentata quanto
- anch'essa - sconosciuta, indica nel 1976 l'anno della svolta,
quello in cui si resero evidenti i segni d'un progressivo cambiamento,
a cui contribuirono, in modo sensibile, da prima una strage di
inermi civili (nel cantone "Tres Calles") che fu il
suo "battesimo di sangue"; poi una lunga verifica, condotta
personalmente da Romero, sul lavoro pastorale degli stessi padri
Passionisti, presso il Centro "Los Naranjos", per la
formazione cristiana e la promozione umana dei contadini. Nelle
sue intenzioni voleva essere una "verifica dell'ortodossia
e dell'ortoprassi" dei padri
finì per trasformare
il ministero del vescovo!
Appare
dunque un mito da sfatare quello che vorrebbe la "conversione"
di Romero un evento improvviso, "alla S. Paolo", dovuto
all'impatto emotivo provocatogli dalla morte dell'amico sacerdote
Rutilio Grande, ucciso il 12 marzo 1977 dagli squadroni della
morte, nel primo mese del suo ministero episcopale a San Salvador.
Tale versione non solo non corrisponde alla verità storica,
ma soprattutto non rende merito al popolo salvadoregno d'essere
stato il vero artefice (con la profezia e il martirio) della trasformazione
del suo pastore. Corrisponde piuttosto ad un modo un po' clericale
di scrivere la storia, per cui la morte di un solo prete o di
un solo vescovo fa più notizia di quella di migliaia di
umili e anonimi contadini. Ciò detto, è indubbio
che l'assassinio del p. Grande costituì comunque un punto
di non ritorno, un sigillo di sangue posto su una conversione
già maturata e portata a compimento anche dalla grazia
di questo martirio.
Ad
ulteriore conferma di quanto era già maturato in lui negli
anni di Santiago, restano i primi gesti clamorosi compiuti da
Mons. Romero appena nominato arcivescovo. All'oligarchia che voleva
festeggiare la sua nomina - fortemente caldeggiata mediante pressioni
sul nunzio apostolico - costruendogli un palazzo vescovile (in
Salvador non c'era da quasi un secolo e Mons. Chavez risiedeva
in seminario) rispose: "sarò ben contento di accettare
la vostra offerta quando avrete costruito una casa degna di questo
nome per ciascun salvadoregno", decidendo di andare a vivere
in una stanzetta attigua alla sacrestia della cappella (in cui
sarà ucciso), presso l'Ospedale della Divina Provvidenza,
gestito dalle suore Carmelitane per la cura dei malati terminali
di cancro, poveri. In seguito le suore gli avrebbero costruito
tre stanzette prefabbricate nel cortile dell'ospedale. Stesso
diniego toccò all'offerta del Gen. Molina, presidente della
giunta di governo che voleva regalargli un auto. A questo punto,
tutti, amici e nemici si resero conto di quanto Romero fosse ormai
cambiato e i fronti si invertirono.
La profezia di Mons. Romero, ieri
e oggi
Da
quel momento fu un incalzare pazzo di avvenimenti: migliaia di
desaparecidos, assassinati, torturati
tra loro migliaia
di cristiani impegnati, catechisti, religiosi, 5 preti e poi 4
religiose missionarie. Nella cerimonia di riparazione della chiesa
parrocchiale di Aguilares, profanata dall'esercito, dove si contarono
almeno 200 morti, Mons. Romero arrivò a definire il suo
ministero un "andare in giro a raccogliere cadaveri".
Ma ormai navigava con piena convinzione in una scelta che aveva
fatto fino in fondo: non per motivi ideologici, non per eccesso
di "orizzontalismo", ma perché aveva capito che
sulla coerenza evangelica a questa posizione si sarebbe giocato,
in un senso o nell'altro, la sua fedeltà a Dio.
Soffrì
l'incomprensione di molti confratelli vescovi e di altissime autorità
vaticane, ma il suo ausiliare, i suoi preti e la stragrande maggioranza
del popolo salvadoregno erano con lui. Il seminario scoppiava,
al punto che dovettero inventarsi una forma di "esternato"
perché non potevano accogliere tutti. Le sue omelie (in
media di 1 ora e mezzo) divennero la sola voce in difesa degli
oppressi: la radio diocesana le trasmetteva e tutto il Salvador
si fermava per ascoltarlo. Quando una bomba fece saltare l'antenna
di trasmissione, una radio del Costa Rica, collegata via telefono
con la cattedrale, iniziò a trasmettere le sue parole,
in onde corte, a tutto il Centro America. Nel corso di pochi mesi
furono moltissimi gli episodi degni di nota: da quelli più
ameni, di un vescovo che si lasciava spiegare il Vangelo dai contadini,
a quelli più drammatici, dei massacri, fuori e dentro le
chiese. Qui possiamo soltanto limitarci a suggerire la lettura
delle testimonianze (ad es. su www.sicsal.it).
Tra
i più stretti collaboratori di questi anni va certamente
annoverato il padre Ignacio Ellacuria, gesuita e rettore dell'UCA,
assassinato a sua volta con 5 confratelli nel novembre del 1989
ed esponente di primo piano della Teologia della Liberazione:
con lui Romero preparava le omelie settimanali, i discorsi, i
piani pastorali.
Si arrivò così al 24 marzo 1980: alle 18.25, mentre
Mons. Romero celebrava la Messa nella cappella dell'ospedale,
nel momento in cui si apprestava a stendere il corporale per iniziare
l'offertorio, offrì la sua vita. Un tiratore scelto gli
sparò un solo piccolo proiettile, ma esplosivo e riempito
di cianuro che lo colpì al cuore. Il giorno prima aveva
pronunciato forse la più celebre delle sue omelie: "
In
nome di Dio, quindi, e in nome di questo popolo sofferente, i
cui lamenti salgono fino al cielo ogni giorno più tumultuosi,
vi supplico, vi prego, vi ordino in nome di Dio: cessi la repressione!".
I suoi funerali, celebrati da cardinali, vescovi, centinaia di
sacerdoti, migliaia di persone, sulla piazza della cattedrale,
furono interrotti da un nuovo massacro: l'esercitò bombardò
e sparò sulla folla. Non si seppe mai il numero esatto
dei morti, certamente non meno di 50: anche in cielo Mons. Romero
non vi entrò da solo, ma in compagnia del suo popolo martire.
Da
allora sono passati 33 anni: i primi 12 dei quali bruciati in
una guerra civile che ha prostrato il paese. Oggi non si registra
più quel livello di repressione violenta, ma molti contadini,
a ragione, ripetono, con pudore e dignità: "oggi stiamo
peggio di allora"; e ancora: "prima ci uccidevano con
le pallottole, oggi con la fame". E' vero. Dal 1989 al 2009,
infatti, il paese è stato ininterrottamente governato da
ARENA - il partito nato da una formazione dell'estrema destra
militare, ORDEN, fondato dal mandante riconosciuto dell'assassinio
di Mons. Romero , il maggiore Roberto D'Aubuisson. Ventennio nel
quale l'aggressività nei confronti della popolazione ha
solo cambiato nome e modalità: ora si chiama TLC, ovvero
Trattato di Libero Commercio, con gli Stati Uniti d'America. Con
esso, ad esempio, sono state messe fuori legge le sementi tradizionali
e i contadini (sotto controllo poliziesco e militare) potrebbero
coltivare soltanto OGM
ma questi portano il copyright delle
grandi multinazionali e hanno costi proibitivi. Risultato: la
fame. Una fame progressiva che si vede sul volto di quei bambini
denutriti che a 10 anni ne mostrano 5. Per anni, inoltre, un milione
di donne, ogni giorno, ha dovuto prendere denaro in prestito dalle
banche, per realizzare piccoli commerci al mercato nero e restituirlo
a sera, pagando un interesse del 24-27%, per "sfamare"
con un po' di mais e fagioli i propri figli. Nelle Maquillas -
fabbriche di assemblaggio a capitale straniero - lo sfruttamento
è stato invece garantito dalla formula "zona franca
internazionale", cioè terra di nessuno, per cui v'è
legge o diritti sindacali che tengano. Anche l'assistenza sanitaria
s'è tentato continuamente di privatizzarla e solo la dedizione
e la caparbietà del personale medico e infermieristico
ha evitato il peggio.
Negli
ultimi quattro anni, in realtà, qualcosa ha iniziato a
cambiare, grazie all'elezione alla presidenza della Repubblica
di un bravo e preparato giornalista, Mauricio Funes, sostenuto
da una coalizione sui generis (ex guerriglieri del Fronte Farabundo
Martí per la Liberazione Nazionale - FMLN - industriali
illuminati e settori eterogenei della società civile),
ma progressista. Qualcuno avrebbe voluto molto più che
i modesti risultati ottenuti in campo sanitario e scolastico,
ma quanti riescono a mantenere un giudizio distaccato e obiettivo
si rendono perfettamente conto che non si poteva fare di più.
Qualcuno, infine, si chiede cosa direbbe, oggi, Mons. Romero.
Personalmente, credo che ripeterebbe gli stessi moniti e rinnoverebbe
i medesimi auspici, perché, a ben guardare, i punti critici
sono rimasti gli stessi. Non a caso, il suo messaggio continua
ad infastidire i cultori di un certo sistema economico, sociale,
politico... ed ecclesiale. Forse è anche per questo che
il processo di beatificazione ha segnato pesantemente il passo.
Chissà se ora con papa Francesco... In tutti i casi, oggi
come ieri, resta un arcivescovo scomodo.
Alberto
Vitali
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