Quando
fu nominato vescovo (21 aprile 1970), come ausiliare di Mons.
Chávez y Gonzalez, arcivescovo di San Salvador e sostenitore
delle innovazioni conciliari, Mons. Oscar Romero non poteva
certo immaginare dove l'avrebbe condotto il motto scelto per
il proprio episcopato: "Sentire con la Chiesa". Per
lui significava ancora semplicemente un'adesione incondizionata
e rassicurante, benché intelligente, alla dottrina ecclesiale
e alle direttive del Magistero: "Da parte nostra abbiamo
preferito ancorarci a ciò che vi è di sicuro,
aderire con timore e tremore alla roccia di Pietro, ripararci
all'ombra del magistero ecclesiastico, porre gli orecchi vicino
alle labbra del Papa, invece che andarcene come acrobati audaci
e temerari per le speculazioni di pensatori azzardati e di movimenti
sociali di dubbia ispirazione" . Una fedeltà indiscussa,
quindi, che sebbene da tempo gli procurasse conflitti nell'ambito
ecclesiale locale - fortemente segnato dalla recente Conferenza
di Medellín e dagli albori della Teologia della Liberazione
- lo compensava però con una profonda pace interiore.
Interiore al suo cuore e a quegli uffici curiali, da cui si
allontanava il meno possibile. Durò poco. Appena cinque
anni... poi sul muro della sua "cella interiore" iniziarono
a profilarsi delle crepe: all'inizio quasi impercettibili, poi
sempre più apparenti e minacciose. Cominciarono soprattutto
a vacillare molti pregiudizi, nel sistema ben ordinato delle
sue convinzioni. L'evento scatenante fu la nomina alla sede
di Santiago de María (dicembre 1974), dove - in un rapporto
finalmente diretto tra pastore e gregge - si scontrò
tragicamente con la miseria: "con quei bambini che morivano
per l'acqua che bevevano, con quei contadini maltrattati durante
i raccolti" . Per lui tutto cambiò: nelle frequentazioni,
nella pratica pastorale, nei rapporti con le istituzioni civili...
uniche a resistere, incrollabili fino alla fine, la fede e la
fedeltà alla Chiesa, entrambe però purificate
e trasfigurate dal sangue dei poveri.
Discontinuità
nella continuità
Seguire
l'evoluzione che le esperienze pastorali impressero al ministero
di Mons. Romero è un cammino obbligato - oltre che affascinante
- per comprenderne la figura e cogliere come in lui profezia
e istituzione abbiano potuto convivere, in modo a tratti doloroso,
ma senza dicotomia o contraddizioni. Al contempo rappresenta
una sfida, perché obbliga a vigilare costantemente per
non cadere in nessuno dei diversi e opposti cliché che
nel tempo si sono formati. A Santiago, dunque, arrivò
un vescovo con idee molto chiare, quanto al proprio ruolo e
all'impronta da imprimere alla Chiesa, come testimoniano i discorsi
inaugurali e le iniziative dei primi mesi... a partire dalla
cura per la formazione del clero, che oltre ad essere il più
scarso del paese era anche il più impreparato. Unica
eccezione: i missionari passionisti, malvisti però da
buona parte dei parroci e dall'aristocrazia locale, per la loro
opera di evangelizzazione, congiunta alla promozione umana e
sociale dei contadini. Saranno proprio due di loro, Zacarías
Díez e Juan Macho, non solo a ricordare come all'inizio
del 1975, il nuovo vescovo regalò a tutte le parrocchie
l'abbonamento alla rivista dell'Opus Dei, "Palabra"
- segno evidente delle sue simpatie e della direzione auspicata
per il cammino diocesano - ma soprattutto ad accompagnarlo in
quei due anni, fondamentali per la sua trasformazione. Il destino,
infatti, o meglio lo Spirito attendeva Mons. Romero sull'aia
di un piccolo villaggio, "Tres Calles", dove sei contadini
furono brutalmente assassinati dagli agenti della Guardia nazionale,
il 21 giugno 1975. Fu per lui un vero battesimo di sangue: la
prima volta in cui dovette "andare a raccogliere cadaveri",
come in seguito definirà il proprio ministero e soprattutto
guardare direttamente negli occhi i sopravissuti, per leggervi
il dolore, il terrore e quell'impotenza che grida giustizia
al cospetto di Dio. Allora si rese conto della complicità
delle autorità nazionali - della cui buona fede non aveva
ancora dubitato - ma anche della distanza, se non della connivenza,
di ampi settori ecclesiali. Così quando, alcuni mesi
dopo, dovette affrontare l'"affaire" del Centro Los
Naranjos, gestito dagli stessi passionisti, accusati d'impartire
"lezioni di comunismo" nelle ore di "realtà
nazionale", Mons. Romero, dopo infinite indagini, consultazioni
e sopralluoghi, si schierò con piena convinzione dalla
loro parte, approvandone il metodo, tanto da nominare uno di
loro, il p. Juan Macho vicario della pastorale diocesana. Impegnato
com'era, si "dimenticò" persino di rinnovare
quegli abbonamenti... In realtà stava cambiando a una
velocità che forse nemmeno lui percepiva. Stava cambiando
però per non cambiare e la sua era una discontinuità
nella continuità: le trasformazioni esteriori, infatti,
ben visibili nella prassi, erano profondamente motivate e radicate
in quella stessa fedeltà a Dio e nella ricerca indiscussa
della sua volontà, che lo avevano sempre caratterizzato.
Per questo restava un radicale: come lo era stato prima in un
senso, lo sarà dopo nell'altro. Ed è questo l'uomo
che - perso di vista da tutti: amici e nemici - nel febbraio
del 1977 divenne arcivescovo di San Salvador, nominato dal Vaticano,
su richiesta pressante dell'aristocrazia locale.
La
Chiesa è il popolo
Il
cammino di Mons. Romero era però irreversibile e - se
ce ne fosse stato bisogno - lo sigillò definitivamente
l'assassino di padre Rutilio Grande (12 marzo 1977), suo grande
amico e direttore spirituale della maggior parte dei giovani
sacerdoti salvadoregni. Non solo. Su richiesta del presbiterio,
Romero decise che, la domenica successiva, in tutta la diocesi
si sarebbe celebrata un'unica messa, nella cattedrale, partecipata
da tutti, per esprimere l'unità della Chiesa in quel
drammatico momento. Questo gli costò il primo grave scontro
con il Vaticano e la disobbedienza della prelatura dell'Opus
Dei che, per non costringere i propri addetti a mischiarsi con
il popolo, celebrò nelle cappelle private. Al tempo stesso
però aiutò l'arcivescovo ad aprire ulteriormente
gli occhi su quelle connivenze che stavano favorendo i crimini
più efferati. Di conseguenza, Romero non fu disposto
a sacrificare il popolo per salvaguardare il simulacro di una
fittizia unità ecclesiale, posto che quanto il Concilio
Vaticano II aveva magistralmente insegnato da oltre un decennio,
l'aveva finalmente imparato sul campo: la Chiesa altro non è
che il popolo di Dio... e pertanto tutto ciò che minaccia
la vita e la dignità del popolo, minaccia direttamente
la missione della Chiesa. "La Chiesa non può tacere
di fronte a queste ingiustizie di ordine economico, politico,
sociale. Se tacesse, la Chiesa sarebbe complice... Questa è
la voce della Chiesa, fratelli. E finché non le si permetterà
di proclamare queste verità del suo Evangelo, ci sarà
persecuzione. Si tratta di cose sostanziali, non di poca importanza.
E' questione di vita o di morte per il Regno di Dio, su questa
terra" (omelia del 24 giugno 1977). Per Romero dunque esiste
piena identificazione tra missione della Chiesa e difesa della
giustizia, tra ministero e profezia, tra la Chiesa e il popolo.
Per lui "sentire con il popolo" è ormai l'unica
via sicura per "sentire con la Chiesa" e rappresenta
quella certezza definitivamente acquisita che lo porterà
ad affrontare infinite traversie in patria, nello spazio di
pochi mesi, ma soprattutto a subire incomprensioni e ostilità
interne all'amata Chiesa, fino ai livelli più alti. Questo
lo farà soffrire, terribilmente, ma mai non lo porterà
ad accettare quelle posizioni che pretendevano di scomporre
e contrapporre dall'interno la Chiesa, in comunità di
base e gerarchia. Per Romero, infatti, la Chiesa è e
non può che essere una e indivisa: quando soffre e quando
insegna, quando serve e quando profetizza. Così nelle
ultime ore del suo ministero possiamo assistere alla piena identificazione
- nella sua persona - tra profezia e servizio istituzionale.
"La Chiesa, difensora dei diritti di Dio, della Legge di
Dio, della dignità umana, della persona, non può
restare in silenzio di fronte a tanta abominazione
In
nome di Dio, quindi, e in nome di questo popolo sofferente,
i cui lamenti salgono fino al cielo ogni giorno più tumultuosi,
vi supplico, vi prego, vi ordino in nome di Dio: cessi la repressione!"
(omelia 23 marzo 1980). Romero aveva ormai raggiunto la piena
e definitiva consapevolezza che la sua parola non era soltanto
l'estremo appello di un coraggioso profeta, ma l'autorevole
voce della Chiesa che esegue il mandato ricevuto da Cristo:
di lì a poche ore, lo sigillerà con il proprio
sangue.