Volendo
analizzare le pesanti situazioni di povertà diffuse ormai
a macchia di leopardo sull'intero pianeta, o meglio, volendo volgere
lo sguardo agli stessi poveri, in carne e ossa, per cogliere le
cause più profonde della loro situazione e la denuncia
che ne scaturisce, dobbiamo anzitutto vincere un'ostinata serie
di pregiudizi assai diffusi nel cosiddetto "primo mondo",
che ci trascinerebbero inesorabilmente a imputare certe realtà
alla fatalità, se non addirittura all'imperizia o peggio
alla passività umana.
Quanti
poi abbiamo ricevuto una formazione cattolica, siamo stati educati,
fin da piccoli, a "ricordarci dei fratelli più bisognosi"...
potendo così vantare una serie considerevole di collette
quaresimali o natalizie, ma anche l'inevitabile danno di percepire
la situazione in cui versano milioni di esseri umani come un evento
semplicemente naturale, dal momento che nei comuni percorsi formativo-religiosi,
si parla quasi con la stessa semplicità e naturalezza del
sole, dei fiori... e dei poveri!
Così
facendo non soltanto viene compromessa la capacità di un
giudizio critico nei confronti della realtà - per cui saremo
capaci di compassione, ma non di scandalo e indignazione etica
- ma ogni possibile azione scivola inesorabilmente dal piano dell'etica
e della giustizia a quello della carità, arrivando a compromettere
persino quello teologico.
Perché
se ogni anno - secondo l'ultimo Rapporto della FAO (SOFI 2005,
22 novembre 2005) - sei milioni di bambini muoiono soltanto a
causa della fame e della malnutrizione - è bene ricordarlo
- la colpa non è certo del buon Dio: Lui non ha sbagliato
a fare i conti e la terra sarebbe ancora sufficiente perché
tutti abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza (Gv 10,10). Se
i poveri esistono - diciamocelo con franchezza - è perché
esistono i ricchi, e la grande torta, la Terra, viene sempre più
tagliata e ripartita in maniera diseguale e iniqua.
Volendo
perciò impegnarci in una lettura quanto più verosimile
della realtà, che ci permetta di formulare considerazioni
efficaci, tanto sul piano della solidarietà che su quelli
dell'etica e della fede, non possiamo prescindere da un'analisi
attenta e persino spietata dei meccanismi economici e politici
attuali; assumendo come punto di vista quello degli oppressi,
certamente il più moralmente e politicamente corretto,
perché "l'emarginato ha interesse a smascherare la
violenza della quale è vittima e a far trionfare la luce"
(G. Girardi, Gli esclusi costruiranno la nuova storia?, Borla,
Roma 1994, p. 21) , non a occultarla.
Infine,
una nota personale: ho iniziato a scrivere queste righe sull'aereo
che mi riportava dal Centro America (CA), dove, ancora una volta,
la suggestione più grande non è stato l'impatto
con la miseria o il contrasto violento dello skyline di San Salvador,
diviso tra i profili delle banche, degli innumerevoli centri commerciali
e delle infinite baracche, ma la lucidità dell'analisi
economica di decine di donne contadine - ex profughe nei campi
dell'Honduras - che ci hanno spiegato, con le tinte forti della
quotidianità, i diabolici meccanismi dei trattati internazionali
che stanno strozzando i loro popoli. Analisi e dati che coincidono
in maniera impressionante con quelli degli analisti, che pure
abbiamo incontrato, e delle maggiori Istituzioni internazionali,
ma testimoniatici con l'aggiunta del sottinteso: "sappiamo
bene perciò di cosa moriremo... però non possiamo
farci niente!".
In
tale contesto, il primo dato rivelatore della situazione e delle
sue dinamiche è certamente quello già menzionato
della fame. Se, infatti, le carestie rappresentano una calamità
ricorrente nella storia millenaria dell'umanità, lo è
anche il loro carattere temporaneo... ora invece intere popolazioni
hanno a che fare con una situazione permanente.
Forse
l'abitudine a certe immagini da "giornata missionaria",
con il negretto ischeletrito, ci hanno fatto dimenticare che persino
in Africa, il continente più ricco di ogni bene, la fame
cronica è - storicamente parlando - un fattore abbastanza
recente, perché il continente nero è stato autosufficiente
dal punto di vista alimentare fino ai primi del '900. Nel 1961
lo era ancora al 98%; dieci anni dopo all'89%, mentre nel 1978
era già sceso al 78%. Ora è alla fame e si salverebbe
soltanto con l'autoconsumo, vale a dire se potesse produrre soltanto
per consumare.
Meno
disperata, ma altrettanto drammatica è la situazione in
CA, dove già si contano almeno 8,6 milioni di persone alla
fame e non è raro incontrare bambini con evidenti segni
di insanabili ritardi nello sviluppo, a causa della denutrizione.
Nel caso di El Salvador, su una popolazione di ca. 6,5 milioni
di abitanti, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha lanciato
l'allarme per altri 1,5 milioni di persone a rischio fame e ha
proposto di prestare al paese 6 milioni di dollari per acquistare
prodotti chimici finalizzati all'agricoltura.
Eppure
nel mondo - CA compreso - la coltivazione del mais aumenta, a
dismisura. Paradossalmente però proprio questo è
il problema.
Anzitutto
perché alcuni paesi - è il caso di El Salvador,
impegnatosi con gli USA, mediante un Trattato di Libero Commercio
(TLC) - hanno già messo fuori legge le sementi native per
rendere obbligatorie quelle geneticamente modificate (OGM), a
vantaggio esclusivo delle grandi transazionali del settore. Gli
OGM, non soltanto fanno male, ma costano, perché protetti
da copyright, oltre ad essere sterili - e quindi da ricomprarsi
ogni anno - e a rendere, a sua volta, sterile il terreno verso
altri tipi di coltivazione; infine richiedono un abbondante uso
di prodotti chimici, venduti ovviamente dalle stesse Corporation.
Questo ha gettato sul lastrico i contadini, anche perché
- sempre in El Salvador e sempre in virtù del TLC - l'economia
è stata completamente dollarizzata, mettendo fuori uso
la divisa nazionale - il Colon - con un cambio di 1$ per 8,75C.
Non a torto le nostre amiche ex-profughe, ora contadine, ripetono
come un responsorio: "prima ci uccidevano con le pallottole,
ora con la fame".
Ma
anche quando e dove il mais viene seminato su larga scala i beneficiari
non sono gli umani. Anzitutto lo si produce per alimentare quel
bestiame che, sotto forma di hamburger, finirà in tutti
i Fast Food del mondo; poi - ed è la novità crescente
- per produrre biocombustibile. La propaganda del settore insiste
molto sul suo aspetto ecologico e sull'affrancamento dal petrolio:
quello che non dice è che tutto il mais che finisce nei
motori è tolto dalla bocca dei poveri. E che, anzi, sempre
più terre sono tolte ai contadini per destinarle alla coltivazione
intensiva di quello che si prospetta come il business del futuro.
Di
pari passo va il problema dell'acqua. Questo in realtà
riguarda tutti, perché già oggi soltanto il 2,5%
delle acque del pianeta è dolce e va esaurendosi con una
velocità inaudita. Ma colpisce soprattutto quel miliardo
di persone che non ha accesso all'acqua potabile e quei 3,4 milioni
di persone che ogni anno (tra loro, 5 mila bambini al giorno)
muoiono a causa di malattie trasmesse dall'acqua.
Ciò
nonostante il "progresso" non si arresta e peggiora
la vita di molti. Così se un po' dappertutto l'acqua viene
privatizzata, trasformando un Diritto fondamentale (quest'anno
celebreremo il 60° anniversario della Carta dei Diritti dell'Uomo)
in bene di consumo, ad appannaggio esclusivo di chi può
permetterselo, in diversi luoghi - il riferimento principale continua
a essere il CA - viene ulteriormente ridotta con la coltivazione
intensiva degli Eucalipti e della Palma africana (finalizzati
all'esportazione); inquinata, mediante l'estrazione mineraria,
che scola nelle falde mercurio e cianuro; concentrata in dighe
idroelettriche, che sommergendo molti villaggi, creano centinaia
di migliaia di profughi; e convogliata in enormi acquedotti per
essere portata nelle zone più ricche del pianeta (ne è
progettato uno che dal CA e Caribe andrà negli USA).
Tutto
ciò genera e acuisce una situazione di miseria crescente,
difficilmente riscontrabile negli indici ufficiali di sviluppo
- per la legge del pollo diviso in parti diseguali - ma assolutamente
visibile per le strade, dove persone ignude, spesso giovani e
bambini devastati dalla colla che aspirano, per stordirsi e placare
i morsi della fame, si aggirano come fantasmi senza pace.
Quelli
che tentano di reagire, lo fanno andando a ingrossare le fila
dei migranti. Emblematico è ancora il caso di El Salvador,
che contando una popolazione di ca. 6,5 milioni di abitanti in
patria, ha pressappoco 3 milioni di migranti all'estero; in prevalenza
negli USA e in Europa. Ogni giorno escono dal paese almeno 800
persone, di cui una parte viene fermata e ricacciata, alla frontiera
del Messico o negli USA, da dove ogni giorno parte un volo di
150 rimpatriati forzati. Da parte sua il governo salvadoregno
fa tutto il possibile per favorire questa migrazione, perché
è fonte di un fiume di dollari che, sotto forma di rimesse
familiari, entra nel paese. Si calcola che nel solo 2007 siano
entrati 3.300 milioni di dollari, equivalenti al 20% del PIL nazionale.
Grazie ad essi gira il sistema paese e quello bancario, entrambi
in mano ad appena 8 grandi gruppi finanziari.
Questo
ovviamente genera squilibri sociali irreparabili. Anzitutto perché
ad uscire sono evidentemente le persone più attive e spesso
intraprendenti e dotate; poi perché viene a spezzarsi il
rapporto generazionale, dovendo molto spesso i nonni, in patria,
farsi carico dei nipoti; inoltre, perché le rimesse creano
una situazione di dipendenza, spesso comoda e viziosa, in taluni
soggetti; infine perché si stanno creando situazioni di
emergenza per interi villaggi, costituiti ormai soltanto da vecchi,
rimasti soli in paesi che non conoscono alcuna forma di prevenzione
sociale e che tradizionalmente erano fondati su una struttura
famigliare molto compatta e autosufficiente.
Ed
è soprattutto su questi soggetti più deboli (anziani
e bambini) che si abbatte la scure dei crimini sanitari. Perché
se già l'assistenza sanitaria in molti casi è del
tutto inesistente, a peggiorare le cose ci si mette la politica
di marketing dei grandi complessi farmaceutici. Famose sono diventate
le dispute legali tra l'India e il Sud Africa con alcuni di questi
colossi, per la produzione dei farmaci generici. Non tutti gli
Stati però hanno la loro forza e possibilità e allora
semplicemente rinunciano. Inoltre non mancano quelli che perseguono
ostinatamente la via della privatizzazione sanitaria, condannando
alla deriva milioni di persone.
In
El Salvador, paese dove soltanto il 4% della gente può
permettersi cure private e appena il 16% gode di una forma d'assistenza
garantita ai lavoratori regolari, non soltanto l'accesso agli
ospedali è un lusso per la stragrande maggioranza della
popolazione, ma il governo ha pensato bene di estromettere l'elenco
dei farmaci generici dal TLC, per fare gli interessi dell'unico
importatore, che in questo modo può venderli ad un prezzo
superiore del 50% rispetto a quello praticato nel resto del continente.
E'
evidente - e non potrebbe essere altrimenti - che situazioni del
genere hanno un duplice sbocco obbligato: da un lato, la degenerazione
del contesto sociale, in tutte le sue forme; dall'altro, lo scoppio
della violenza, che quando non è finalizzata ad un obiettivo
politico di tipo rivoluzionario - sembra, infatti, che sia passato
il tempo per questo genere di cose, ma sarebbe difficile non ravvisarne
tutte le condizioni elencate dall'enciclica Populorom progressio
per riconoscerle legittime - sfocia nella violenza comune.
Anche
di questo sembrano non dolersene i governi, che anzi hanno trovato
il modo di volgerla a proprio vantaggio. Anzitutto, emettendo
un pacchetto di leggi comuni a tutto il CA: la cosiddetta "Mano
dura"; utile come alibi della sicurezza per reprimere ogni
genere di opposizione, anche sindacale. Poi per scatenare una
vera e propria strategia della tensione, ogni qualvolta all'orizzonte
si profili lo spettro delle elezioni. Basti ricordare che lo scorso
anno l'Agenzia delle Nazioni Unite per la Difesa dei diritti Umani,
da Ginevra, ha ammonito ufficialmente El Salvador per la ripresa
di alcuni casi di "sparizione" (desaparecidos), tra
i leader sindacali. Di conseguenza la situazione carceraria non
è difficile da immaginare.
Gli
esempi sarebbero ancora molti, evidentemente non ne abbiamo lo
spazio, ma non posso terminare senza un accenno alla questione
che forse più di ogni altra ci ha colpito e fatto male.
Da buoni europei siamo, infatti, abituati a pensare - secondo
l'esemplificazione di qualche analista - agli USA come Marte e
all'Unione Europea come Venere. Loro i forti, noi i buoni. Ebbene
la richiesta più pressante che ci è stata rivolta
in questa occasione è stata di muoverci in sede europea
per controllare il TLC (chiamato "Associazione") che
si sta negoziando proprio in questi mesi proprio tra l'UE e il
CA, perché, dati alla mano, risulterà peggiore di
quello già esistente con gli USA.
Termino
con due osservazioni.
Finora
ho volutamente utilizzato il termine, più generico e meno
preciso "poveri", trascurando quello più corretto,
suggeritoci dal titolo: "impoveriti", perché
questo, che implica un giudizio, risultasse quale conclusione
motivata di tutto il discorso e non apparisse a qualcuno un pregiudizio
ideologico. Credo che ora il lettore possa giudicare da sé
come, in realtà, "la povertà" non esista
"in natura", ma sia il risultato di una vessazione continua,
voluta e perciò colpevole.
Potrà
inoltre osservare come i punti che abbiamo trattato a titolo esemplificativo
- fame, acqua, miseria, migrazione, salute, carcere - coincidano
con quelli della celeberrima parabola di Matteo 25, sul Giudizio
universale.
Questo,
credo, spiega e motiva la durissima contrapposizione presente
nella forma lucana delle beatitudini: "Beati voi poveri...
Ma guai a voi, ricchi..." (Lc 6,20-26), che tanti fiumi di
inchiostro ha fatto scorrere nella storia della teologia, fin
dal tempo dei Padri, per cercare di ridurne l'impatto.
Certo,
anche oggi non mancheranno i profeti di corte e gli esegeti del
potere, per spiegare che in realtà non si tratta di una
maledizione, ma di un preciso genere letterario, comune a tanti
lamenti di Dio nel Primo Testamento e al pianto di Gesù
su Gerusalemme... come se il lamento di Dio e il pianto del suo
Messia, fossero cosa da poco.
Alberto
Vitali
(articolo apparso su Horeb
- Tracce di spiritualità - maggio-agosto 2008)
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