La dimensione politica della fede



Con l'intervento del prof. Franco Riva, docente di "filosofia della politica" all'Università Cattolica di Milano, la Commissione socio-politica della nostra parrocchia ha inaugurato, anche quest'anno, un ciclo di interventi volti a stimolare la riflessione sui temi che le sono propri, nella speranza di favorire così anche una partecipazione, cristianamente motivata, all'ambito della sfera civile.
Nel precedente biennio avevamo focalizzato l'attenzione sulle tragedie della guerra, sulle tematiche relative ai diritti umani e, grazie all'intervento del presidente Scalfaro, sull'importanza della Carta Costituzionale per la vita democratica del nostro paese.
Provocati da alcune osservazioni, fu anche l'occasione per precisare le ragioni ecclesiali e parrocchiali che ci avevano spinto - e ancora ci motivano - a formare tale commissione che, in stretto coordinamento con il Consiglio pastorale, si prefigge di stimolare l'azione pastorale della comunità. Lo facemmo mediante un articolo apparso su "Come albero" e ancora disponibile sul sito web della nostra parrocchia (www.sglaterano.it).
Introducendo il nuovo ciclo - che prevede serate di approfondimento sui temi dell'occupazione, il diritto alla casa, alla salute, all'acqua e la libertà d'informazione - don Alberto ha fatto esplicito riferimento al tema affidato a Mons. Romero - il vescovo martire di El Salvador - da parte dell'università di Lovanio (Belgio), in occasione del conferimento della Laurea Honoris Causa. La riflessione allora sviluppata fu quella della "dimensione politica della fede": un tema certamente difficile, ma pregnante, perché teso a sottolineare come la scelta politica non sia semplicemente un frutto importante, ma conseguente - e perciò in qualche modo estrinseco - alla fede, bensì una dimensione, intrinseca, della fede stessa.
L'arcivescovo salvadoregno infatti così puntualizzò: "Vi parlerò come un pastore che, insieme al suo popolo, ha imparato la bella e dura verità che la fede cristiana non ci separa dal mondo, ma ci sommerge in esso; che la Chiesa non è una parte separata dalla città, ma seguace di quel Gesù che visse, lavorò, lottò e morì in mezzo alla città, nella "polis"".
Precisò, di conseguenza, che per la natura stessa dell'annuncio evangelico, l'agire della Chiesa ha sempre delle ripercussioni sociali e politiche; sia quando prende posizione, sia quando non lo fa, rischiando molto spesso di avvallare - in base al principio del "silenzio-assenso" - le peggiori prepotenze a danno dei gruppi più fragili e disagiati.
Per questo l'arcivescovo volle spostare l'accento su un'altra questione: non tanto sul "se" quanto piuttosto sul "come" la Chiesa deve "fare politica" a partire dai fondamenti della fede e - com'era nel suo stile - andò a cercare una risposta sicura nei pronunciamenti del Concilio Vaticano II, da cui trasse la convinzione che "la missione della Chiesa è quella di salvare il mondo già nella storia, qui e adesso, a partire da chi è povero in tutti i sensi".
"I poveri sono la chiave di lettura per comprendere la fede cristiana, l'agire della Chiesa e la dimensione politica di questa fede e di questo agire ecclesiale..." perché - ha aggiunto - "… i poveri sono coloro che ci dicono cosa è il mondo e qual è il servizio ecclesiale al mondo. I poveri sono coloro che ci dicono cos'è la "polis", la città e cosa significa per la Chiesa vivere realmente nel mondo".
Una interessante coincidenza fa sì che il punto focale teologico individuato da Mons. Romero, per la prospettiva politico-pastorale che stava sviluppando, sia lo stesso scelto dal prof. Riva, quale punto di partenza e riferimento costante del proprio intervento: il testo biblico dell'Esodo.
E se Romero sottolinea l'iniziativa di Dio e la sua "presa di posizione": "Il Signore disse: "Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo"" (Es. 3,7-8) per motivare il dovere ecclesiale di una prassi anche politica; il prof. Riva continua nella medesima linea sottolineando come Dio non liberò il popolo a prescindere da esso, o limitandosi alla mediazione di Mosé ma: "chiamando tutto il popolo ad assumersi la responsabilità di salvaguardare il dono della liberazione, nella condivisione delle scelte gestionali (responsabilità e partecipazione) del nuovo modello sociale e politico che Dio stava loro proponendo".
E questo è il punto di partenza che permette al professore di spiegare come "partecipazione e responsabilità" siano due pilastri fondamentali per la democrazia; di come siano anteriori alle diverse modalità di attuazione e alle istituzioni... e di come siano interdipendenti: l'indebolimento di anche una sola di esse pregiudicherebbe seriamente l'esistenza della democrazia.
E qui nasce il problema: oggigiorno, non soltanto in Italia, ma a livello internazionale, assistiamo ad una divaricazione - che prelude talora ad una vera e propria separazione - fra partecipazione e responsabilità; e ciò rende sempre più fragili i diversi sistemi democratici.
Da un lato stanchezza, frustrazione, impegni (di lavoro e famigliari), la complessità stessa della quotidianità... inducono le persone ad una scarsa disponibilità alla partecipazione, subito recepita da alcuni gruppi di potere, pronti a trasformare in delega - sotto forma di "applausometro" - quella responsabilità che dovrebbe invece essere un dovere-diritto di tutti. E ciò può degenerare fino al punto che tale anomala situazione venga percepita come "normale", "giusta", "ordinaria"; così che, non di rado, la partecipazione finisce per essere accettata dal potere soltanto entro questi ambiti ristretti: se poi si manifesta sotto forma di protesta, anche solo settoriale o circoscritta, viene criticata e bollata come irresponsabile.
Dall'altro, cresce sempre più ciò che Riva chiama una "retorica della responsabilità"; vale a dire: l'urgenza, la complessità e la difficoltà dei problemi, così come la rapidità dell'evoluzione del progresso vengono presi a pretesto per concentrare nelle mani di pochi ampi poteri decisionali. Sempre più infatti vengono utilizzati termini quali "competenza", "efficienza", "tecnico", "esperienza"… che finiscono per sostituire quelli specifici della politica.
Questa situazione ci sta perciò lentamente, ma inesorabilmente, portando fuori dalla democrazia; anche se il tutto avviene in un contesto ancora formalmente democratico.
E' il fascino del cosiddetto "dirigismo": un modo di presentare la tecnocrazia come la via più efficace, sicura e veloce per rendere efficiente e snella la vita democratica; un "modello di rinnovamento" che però riduce la partecipazione alla semplice espressione di un "sì" o un "no" (con tutti i pericoli che questo comporta in una società fortemente mediatica); e di fatto consegna la responsabilità dei popoli in mano a pochi: l'esatto contrario di ciò che suppone la democrazia.
Tornando a citare il testo dell'Esodo, Riva sostiene infine che il presupposto di ogni vera democrazia è invece racchiuso in questa semplice convinzione: "nessuno è moralmente incapace di partecipare e la partecipazione è la prima forma di responsabilità". Vale a dire: tutti possono e devono partecipare e condividere la gestione e la responsabilità della cosa pubblica. Viceversa, coloro che chiedono di delegare l'altrui responsabilità in nome di una supposta competenza, dimenticano (o vogliono dimenticare, aggiungiamo noi) che oggi non è più possibile avere una competenza assoluta, capillare e universale.
Non è quindi possibile mediare fra democrazia e dirigismo pubblico, perché la prima è un concetto morale che valuta e da fiducia all'uomo (giudicandolo già per se stesso un valore); mentre l'altro è un aspetto tecnico che prescinde dall'uomo e non gli riconosce alcuna capacità.
Esattamente il contrario di quanto - come commissione e come parrocchia - intendiamo fare. E perciò non soltanto ci asteniamo dal lasciare (anche solo) intendere la benché minima indicazione di voto, e - come sempre - prendiamo le distanze da quanti non mancheranno, ancora una volta, di strumentalizzare l'uscita dalle SS. Messe, per volantinare propaganda politica… ma pur condividendo l'indicazione rivolta dalla Conferenza Episcopale Italiana ai credenti, perché votino secondo criteri cristiani, non riteniamo nemmeno di doverli ricordare, certi della "capacità" dei singoli. Vale a dire: certi che siano dotati della maturità necessaria per discernere i "segni dei tempi", secondo i principi dell'unico Vangelo di Gesù di Nazareth, a cui nessuno e per nessun motivo può aggiungere o togliere qualcosa (Ap 22,18).

Alberto Vitali

(articolo apparso su "Come albero" - marzo 2006)



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