Dopo
innumerevoli discussioni, polemiche, tentavi di strumentalizzazione,
si è finalmente svolta l'edizione 2001 della "Marcia della Pace
Perugia-Assisi", e ha superato ogni possibile previsione: più
di duecentomila persone sono convenute da ogni parte d'Italia.
Molte, se confrontate alle precedenti edizioni o alle più svariate
manifestazioni di piazza; poche, se pensiamo alle altre migliaia
di nostri connazionali che, pur condividendo lo stesso anelito,
per motivi diversi non vi hanno potuto partecipare. E quell'immenso
mare di folla - tranne poche, rispettate, eccezioni - alzava un
sola cristallina invocazione: Pace! Pace, senza "se" e senza "ma".
Pace vera e per tutti. Pace subito. Pace per l'Afganistan, per
il Medio Oriente, per ciascuno di noi. Non era semplicemente un
ideale, ma un bisogno profondo, che confutava tante pretestuose
"ragioni" della politica internazionale con le quali si vorrebbe
dare legittimità, e quasi carattere sacro, ad un intervento di
cui si ignorano le conseguenze e, soprattutto, si tacciono i motivi.
Quelli veri. Dalla televisione e dai giornali però è trapelato
solo qualche riverbero di questo spirito, perché i media, obbedienti
più che mai alla voce del padrone, hanno accuratamente ridimensionato
il significato profetico e universale dell'avvenimento, dissolvendolo
nelle scaramucce della politica interna. Ma lo si percepiva benissimo
passando tra la gente e avvertendo nei loro discorsi lo sconcerto
e la rabbia per essere, forzatamente, spettatori inerti di una
guerra non voluta, ma decisa da altri a nome loro. Ed io mi dicevo:
hanno ragione! Questa guerra non ci appartiene e, ancora una volta,
non riguarda nemmeno le religioni e le culture dei nostri popoli.
E' una guerra tra ricchi - miliardari e petrolieri, da una parte
e dell'altra - che da anni si contendono il controllo del medioriente,
cioè del petrolio, in un mondo ormai diventato troppo piccolo
per soddisfare le loro brame. Una guerra iniziata ben prima dell'undici
settembre e che, stiamone certi, non terminerà con la campagna
in Afghanistan. Purtroppo però, da copione, al massacro mandano
i poveri, gli innocenti, coloro che il mondo saprebbero farselo
bastare: i lavoratori delle Twin Towers da una parte; i bambini,
i vecchi e tutti i profughi afghani dall'altra. Così anche per
le organizzazioni umanitarie… la stessa Croce Rossa più volte
bombardata. Per errore? I suoi dirigenti dicono di no e preparano
una protesta formale. In mezzo ci siamo noi, bombardati a nostra
volta, non da missili, ma da parole, immagini, slogan, opportunamente
combinati che spesso assimiliamo acriticamente e ripetiamo, persuasi
che la verità non possa essere un'altra. Se le statistiche dicono
il vero, nel primo mese di guerra, l'85/90% degli statunitensi
era d'accordo con Bush sulla necessità dell'intervento armato;
così pure il 60% degli italiani, per non parlare degli inglesi…
Evidentemente tutte queste persone non sono guerrafondaie per
istinto, né approvano quanto sta avvenendo per un tornaconto personale:
semplicemente non riescono nemmeno ad immaginare che possa esistere
un modo diverso di risolvere i conflitti - di qualsiasi natura
- che non sia una guerra di simili proporzioni. E del resto, se
in tempo di "pace" gli stati gareggiano nella corsa agli armamenti,
è difficile pensare che, prima o poi, non li utilizzino per fare
una guerra. Al contrario, se ingenti risorse economiche ed intellettuali
non vengono mai destinate ad elaborare strategie alternative di
pace, "soluzioni non armate dei conflitti", è follia pensare di
poterle improvvisare nel momento del bisogno. Tra le due ipotesi,
in verità, ce ne sarebbe una terza, non certamente pacifica, ma
per lo meno con ripercussioni meno tragiche sulle popolazioni
civili. Non è compito nostro elaborarla, e nemmeno ne saremmo
all'altezza - o all'astuzia - e poi… insegnare agli Stati Uniti
come gestire la politica internazionale, catturare i nemici e
"instaurare" governi, usando diplomazie e servizi segreti, ci
farebbe un po' ridere… Soprattutto perché è difficile credere
che all'improvviso abbiano perso anni d'esperienza. Evidentemente
la cattura di Bin Laden e dei suoi fedelissimi non è il loro principale
obiettivo e tantomeno il primo in ordine di tempo… Ma intanto
la gente muore. Se non fosse per questo, forse, potrei persino
disinteressarmene. Sarei infatti tentato di pensare che, in fondo,
nei nostri paesi le garanzie democratiche sono assicurate e ciascuno
dei nostri popoli ha il governo che si è liberamente scelto: se
gli europei o gli americani preferiscono delegare ragione, decisioni
e sentimenti ai propri politici; se si accontentano di guardare
la realtà con gli occhi dei media, e volentieri prestano fede,
ancora da adulti, a fiabe, in cui c'è sempre un cattivo che perde,
e un principe - un po' machiavellico, ma proprio per questo -
"buono" che vince: facciano pure e vivano felici e contenti! Qui
però ci sono anche gli innocenti, i vecchi, i bambini… tanti bambini
- ma ne basterebbe uno - che muoiono sventrati o restano mutilati…
e allora l'incantesimo si rompe e, al contrario di quanto avviene
nelle fiabe, vince la strega, la morte! Una morte che non possiamo
rimuovere né esorcizzare dalla coscienza se non metabolizzando
una dose di cinismo tale da narcotizzare, o meglio ammazzare,
anche la stessa coscienza. No. Non posso, e non voglio, arrivare
al punto di ascoltare senza star male, il Direttore Belpietro,
che in una serata qualunque, da una trasmissione qualsiasi, riconosce,
con grande realismo, che non esistono bombe intelligenti né guerre
prive di vittime civili. Per poi ricordarci, e/o rinfacciarci,
che anche per liberare l'Italia gli statunitensi la bombardarono
- "a Milano, in una sola scuola, morirono 182 bambini" -, e concludere:
è il prezzo della libertà. Lo sarà certamente della sua - della
loro - "idea" di libertà, non della mia! E se le cose stanno così
allora voglio urlare più forte che io non ci sto; che la sicurezza
di tutto l'occidente non vale la vita dei piccoli afgani, che
la mia vita non vale l'infermità di una sola bambina, che la mia
stessa libertà, per quanto importante, non vale la mia dignità!
Mi rendo conto che tutto questo suppone un salto di qualità, quello
sviluppo di civiltà, insito nel Vangelo, che gli autoelettisi
paladini della civiltà cristiana sono lungi dall'immaginare. Non
solo gli riesce incomprensibile il sacrificio per l'altro, l'amore
per il nemico, ma nemmeno l'idea che la vita di uno possa valere
quanto quella del mondo intero… Ci obietterebbero certamente che
non sono martiri, né missionari: e allora perché non combattono
dichiaratamente in nome dei loro interessi, delle loro preistoriche
religioni, anziché profanare il nome di Cristo? Il sacrificio
dell'innocente per il bene della comunità appartiene infatti a
religioni antiche e pagane, non certo al cristianesimo, ed è peculiare
di un concetto della politica che speravamo definitivamente superato
dalle utopie del XIX secolo. Invece ci ritroviamo, ancora dopo
due secoli, a fare i conti, da un lato, con la Casa delle "Libertà"
che brama solo di partecipare al conflitto (offrendo mezzi e uomini
che finora gli alleati hanno gentilmente rifiutato): sogni di
gloria o paura di essere esclusi dalla ripartizione degli appalti
quando si tratterà di ricostruire l'Afghanistan? Non dimentichiamo
che ricostruire l'Afghanistan vorrà dire anche avere a che fare
col progetto dell'oleodotto che verrà "finalmente" costruito,
giacché tutta la regione, fino alla Cecenia, è ricchissima di
petrolio, in grado da sola di cancellare una volta per sempre
il monopolio arabo sul greggio. A tanto serve la guerra! Dall'altro
ci troviamo un Ulivo, sempre più sbattuto dai venti di guerra,
che, tra lo Scilla della Real Politik e il Cariddi della coscienza
popolare, un giorno appoggia senza riserve i bombardamenti a tappeto
ed il successivo chiede una tregua, per scopi umanitari. Mancano
solo di proporre bombardamenti a giorni alterni, come alterne
si stanno rivelando le fasi della loro coscienza! Perfino all'interno
della Chiesa le acque non sono tranquille. Ancora una volta, come
già ai tempi della Guerra del Golfo, dietro le sottili sfumature
di linguaggio, i distinguo, le "furbizie ecclesiali" è possibile
scorgere nello stesso magistero cattolico - anche ai livelli più
alti - posizioni e giudizi differenti. Esiste anzitutto la posizione
del Papa, luminosa nella sua perfetta coerenza: no alla guerra!
Inascoltata, ma ferma, la sua voce si era alzata forte, prima
e durante tutto il conflitto del Golfo, allorché aveva definito
la guerra "un avventura senza ritorno". La storia gli avrebbe
dato ragione: non solo la guerra non risolse i problemi presenti
nell'area - tranne la riconquista dei pozzi petroliferi del Kuwait
-, ma si è rivelata una vera carneficina di civili, nonostante
le rassicurazioni occidentali sulla precisione dei "bombardamenti
chirurgici". Inoltre le conseguenze dell'embargo e dei bombardamenti,
che dal 1991 si susseguono periodicamente fino ad oggi, hanno
fatto circa 1.500.000 di morti, di cui almeno 350.000 sono bambini
(Rapporto Unicef 1999). Il papa nel frattempo non ha mai cessato
di esprimere la propria condanna, non solo nei confronti della
guerra - sulla quale, del resto, sono tutti d'accordo, almeno
a parole… - ma sulla possibilità che essa possa servire nella
risoluzione dei conflitti. Particolarmente significativo è il
giudizio che ha formulato in una espressione ripresa poi dal Catechismo
degli Adulti: "È la guerra, 'il mezzo più barbaro e più inefficace
per risolvere i conflitti' (Giovanni Paolo II) (...). Si dovrebbe
togliere ai singoli Stati il diritto di farsi giustizia da soli
con la forza, come già è stato tolto ai privati cittadini e alle
comunità intermedie" (1037). I ventitré Messaggi pubblicati in
occasione della Giornata Mondiale della Pace che si celebra ogni
anno il 1° gennaio, costituiscono inoltre un sistematico insegnamento
pontificio sui temi della pace e della guerra, perché, elaborati
in occasioni non strettamente contingenti, possono diffondersi
più ampiamente ed entrare nei risvolti più profondi del tema.
Ma adesso il tempo stringe, anzi è scaduto… Nelle ultime settimane
più volte il papa ha rinnovato un accorato - e ancora una volta
inascoltato - appello a non cedere alla logica della violenza:
invocando Dio che "mantenesse il mondo nella pace", contro la
possibilità ormai concretizzatasi della guerra; delegittimando
ogni pretesa di rivestire di motivazioni religiose un conflitto
che affonda le radici nell'ingiustizia e nella mancanza di solidarietà;
chiedendo ai credenti di tutte le religioni di unirsi in "un'immensa
preghiera all'unico e onnipotente Dio"; smascherando la mistificazione
che vorrebbe camuffare la vendetta con i panni della giustizia,
quando invece di questa le mancano due requisiti fondamentali:
la clemenza e l'amore. "Da questa città, dal Kazakhstan, paese
che è un esempio di armonia tra uomini e donne di diverse origini
e confessioni religiose, desidero rivolgere un sincero appello
a tutti, cristiani e appartenenti ad altre religioni, a lavorare
insieme per costruire un mondo senza violenza, un mondo che ama
la vita e progredisce nella giustizia e nella solidarietà. Noi
non possiamo permettere che quanto è successo approfondisca le
divisioni. La religione non può essere mai fonte di conflitto.
Da questo luogo, invito sia cristiani che musulmani ad innalzare
un'immensa preghiera all'unico e onnipotente Dio, di cui tutti
noi siamo figli, affinché il grande dono della pace possa regnare
nel mondo. Possano tutti i popoli, sostenuti dalla divina saggezza,
lavorare dovunque per costruire una civiltà dell'amore, nella
quale non ci sia posto per l'odio, la discriminazione e la violenza.
Con tutto il mio cuore prego Dio di mantenere il mondo in pace.
Amen" (Astana 23 settembre 2001). E ancora "Certo la pace non
è disgiunta dalla giustizia, ma essa deve sempre essere alimentata
dalla clemenza e dall'amore. Non possiamo non ricordare che ebrei,
cristiani a musulmani adorano Dio come l'Unico. Le tre religioni
hanno, perciò, la vocazione all'unità e alla pace. Voglia Dio
concedere ai fedeli della Chiesa di essere in prima linea nella
ricerca della giustizia, nel bandire la violenza e nell'essere
operatori di pace. La Vergine Maria, Regina della Pace, interceda
per l'umanità intera, affinché l'odio e la morte non abbiano mai
l'ultima parola!" (Roma 30 settembre 2001). Di sapore un po' diverso
(concedetemi l'eufemismo) è la prolusione del Card. Ruini al Consiglio
Permanente della CEI, riunitosi a Pisa: "Ciò riguarda in termini
più immediati la risposta da dare all'attacco subito dagli Stati
Uniti: è fuori dubbio il diritto, anzi la necessità e il dovere
di combattere e neutralizzare, per quanto possibile, il terrorismo
internazionale e coloro che, a qualunque livello, se ne facciano
promotori o difensori. E' però altrettanto importante e indispensabile
che questo diritto-dovere sia esercitato non solo attraverso il
ricorso alla forza delle armi - da mantenersi sempre il più possibile
limitato, senza rappresaglie indiscriminate - ma anche adoperandosi
per rimuovere le motivazioni e i focolai che alimentano il terrorismo…".
A condizione dunque di non aver imparato nulla dalla storia recente
(Iraq e Kosovo) e di ostinarsi a credere alle fiabe (i bombardamenti
chirurgici…), ignorando anche le statistiche, per cui nelle guerre
contemporanee su cento vittime sette sono militari e novantatré
civili, si può dare per scontato il "ricorso alla forza delle
armi", che sta gettando il mondo precisamente in quella situazione
di violenza generalizzata e di scontro religioso e culturale,
per risparmiarci le quali il papa pregava Dio con tutto il cuore.
Già Giovanni XXIII, nella Pacem in Terris (§10) aveva dichiarato
ormai tramontata la possibilità della guerra come strumento di
giustizia nella nostra era: "per cui riesce alieno alla ragione
pensare che nell'era atomica la guerra possa essere utilizzata
come strumento di giustizia" Era l'11 aprile 1963. Ma la strada
indicata dagli ultimi pontefici (ricordiamo anche Paolo VI nella
Populorum Progressio) è stretta e faticosa, perché implica un'indagine
sincera e approfondita sulle cause della violenza, da qualsiasi
parte essa venga, e ciò non significa assolutamente "giustificare",
ma capire per risolvere. Questi papi hanno sempre puntato il dito
contro l'ingiustizia "strutturale" presente nel mondo, e se hanno
ragione loro, fino a quando ci saranno 815 milioni di persone
alla fame (Rapporto FAO, 15 ottobre 2001) potremo scordarci la
pace. E la guerra non sfama nessuno, anzi affama anche popoli
che sono lontani da dove viene combattuta. Negli Usa infatti 33
milioni di persone vivono sotto la soglia di povertà (un bambino
su otto), ma la superpotenza per restare tale investirà sempre
più in armamenti. E in America Latina il "plan Puebla-Panamá"
potrà volare indisturbato. Si tratta di un progetto industriale
su larga scala, che sfrutta la manodopera dei poveri nelle "maquillas"
(fabbriche in cui vengono negati i diritti sindacali, con l'appoggio
dei governi locali) per l'assemblaggio di pezzi "roboticamente"
costruiti nella parte meridionale degli USA. Il piano comporta
anche pesanti sacrifici culturali e urbanistici, ma in questo
momento nessuno può curarsene, perché l'attenzione e gli sforzi
delle associazioni solidali e umanitarie sono tutti concentrati
ad oriente. Inoltre la cosa sarebbe particolarmente difficile
in questo momento di mistica della guerra e di fine ricatto psicologico,
in cui ogni critica alla politica estera ed economica degli Usa
viene tacciata come generico anti-americanismo e filoterrorismo.
In un recital famoso qualche anno fa si cantava: "evviva la crociata
che fa santa la canaglia". Appunto! Per questo amo Giovanni Paolo
II e lo dico "spudoratamente". Perché anche in questo momento
ha il coraggio della Verità, per quanto la sua voce sia isolata
fuori e dentro la Chiesa. Perché non si preoccupa minimamente
di rischiare il consenso generalizzato, guadagnato in lunghi e
sofferti anni di pontificato. Perché preferisce piacere a Dio
piuttosto che agli uomini. Perché in un tempo come questo, di
sconfitta della politica, di debolezza dell'umanità e di incertezze
e titubanze nella Chiesa, sta confermando la mia fede… La sta
confermando nel Vangelo della Pace; in una fraternità universale
che ancora è possibile e verso cui ci sta indicando la strada,
chiedendo perdono per gli errori del passato e dimenticando i
torti subiti; in una Chiesa profetica che, anche solo attraverso
la sua voce, sa ancora formulare giudizi e parlare per conto di
Dio al cuore degli uomini: "Nel nome di Dio ripeto ancora una
volta: la violenza è per tutti solo un cammino di morte e di distruzione,
che disonora la santità di Dio e la dignità dell'uomo" (Roma,
21 ottobre 2001).
Alberto
Vitali
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