Se
l'11 ottobre 1962, giorno in cui papa Giovanni apriva il Concilio
Vaticano II, erano in molti a supporre che poche settimane, mesi
al massimo, sarebbero stati sufficienti per esaurirne il compito,
l'8 dicembre 1965, quando Paolo VI chiuse solennemente la grande
assise, erano molti di più a ritenere che diverse questioni restavano
ancora aperte.
Il
Concilio non aveva potuto o saputo affrontare adeguatamente tutte
le sfide che gli venivano dalla modernità oppure, in alcuni casi,
papa Paolo aveva preferito avocare a sé problemi particolarmente
delicati, ripromettendosi di affrontarli negli anni successivi.
Tra questi il grande tema della povertà della Chiesa, già indicato
da Giovanni XXIII, nel suo messaggio ad un mese dall'apertura
del Concilio, l'11 settembre 1962: "La Chiesa si presenta qual
è e vuol essere, come la Chiesa di tutti e particolarmente la
Chiesa dei poveri". Successivamente ripreso e approfondito da
un gruppo di vescovi, nel corso della prima sessione conciliare,
questo materiale, pur non entrando direttamente nel corpus dei
documenti ufficiali, venne però consegnato al papa e pubblicato
come lettera di intenti, da parte di molti vescovi.
Tra
loro l'arcivescovo di Bologna, Card. Giacomo Lercaro, il quale
- come riferisce Mons. Luigi Bettazzi nel volume "La Chiesa dei
poveri nel Concilio e oggi" - fu incaricato da Paolo VI di "raccogliere
materiale per una successiva enciclica… credo che di qui sia nata
l'enciclica Populorom progressio del 1967". Nel frattempo i vescovi
erano tornati a casa e già erano iniziati gli sforzi per incarnare
lo spirito di quell'evento e attuarne le direttive nelle singole
realtà ecclesiali: tanto più che il Vaticano II non si era concepito
come un Concilio puntualmente dottrinale, ma a carattere prevalentemente
pastorale.
In
questa prospettiva poteva essere ben interpretata anche la Populorom
progressio, da molti considerata, a ragione, lo sviluppo paolino
della Pacem in terris, l'enciclica che Giovanni XXIII aveva promulgato
alla vigilia del suo trapasso. Vero testamento spirituale, ma
anche "il pronunciamento più alto cui sia pervenuto su questo
tema il pontificato romano" (G. Alberigo, Papa Giovanni, EDB).
Così
la interpretarono anche i vescovi latinoamericani, quando nel
1968 si riunirono a Medellín, nella II Conferenza Generale dell'Episcopato
Latinoamericano, per incamminarsi con le loro Chiese lungo i sentieri
tracciati dal Concilio.
Nel
documento finale, infatti, il secondo capitolo - interamente dedicato
al tema della Pace nel contesto più generale della promozione
umana - così inizia: "Se "lo sviluppo è il nuovo nome della pace"
(PP 87), il sottosviluppo latinoamericano, con caratteristiche
proprie nei diversi paesi, è una situazione ingiusta promotrice
di tensioni che cospirano contro la pace" (Medellín, 2.1).
Sviluppando
successivamente questo assunto, i vescovi distinguono tre grandi
gruppi di tensioni, per ciascuno dei quali sottolineano alcune
cause particolari che costituiscono una situazione di ingiustizia
(cfr. il secondo pilastro della Pacem in terris) e perciò di grave
minaccia alla Pace. Anzitutto le "tensioni tra classi sociali"
(o colonialismo interno). Il documento indugia sulle diverse forme
di emarginazione, le eccessive disparità tra le classi, le frustrazioni
crescenti, le forme di oppressione e di potere esercitato ingiustamente
da parte dei gruppi dominanti e la presa di coscienza dei settori
oppressi. In secondo luogo analizza le "tensioni internazionali"
(o colonialismo esterno), sia di carattere economico che politico.
In particolare, la crescente distorsione del commercio internazionale,
la fuga di capitali economici e umani, l'evasione fiscale. A proposito
dei monopoli internazionali cita espressamente la condanna "dell'imperialismo
internazionale del denaro" contenuta nella Quadragesimo anno di
Pio XI e nella Populorom progressio di Paolo VI. Infine analizza
due aspetti particolari delle tensioni tra i popoli dell'America
Latina: l'esacerbato nazionalismo e la corsa agli armamenti, ricordando
uno dei passi più noti della Populorom Progressio, che "risulta
particolarmente appropriata al riguardo: "quando tanti popoli
hanno fame, quando tante famiglie soffrono la miseria, quando
tanti uomini vivono immersi nell'ignoranza…ogni estenuante corsa
agli armamenti diviene uno scandalo intollerabile"" (Medellín,
2.13).
Segue
quindi una parte dottrinale, nella quale i vescovi spiegano la
pace secondo la visione cristiana. Negando che possa essere identificata
nella semplice assenza di violenza o nella pura passività del
conformismo, viene definita anzitutto come opera della giustizia,
che suppone l'instaurazione di un ordine giusto, in cui gli uomini
possano realizzarsi come tali. Viene poi presentata come lavoro
permanente, che implica la necessità di cambiare costantemente
le strutture storiche e gli atteggiamenti personali, vale a dire:
una conversione continua, tanto personale che sociale. Infine
viene descritta come "frutto dell'amore", riferendosi direttamente
al n° 78 di Gaudium et Spes.
Molto
più complesso è il tentativo di conciliare la comprensibile reazione
delle popolazioni oppresse, che - guarda caso! - ben si sposa
con la dottrina tradizionale della Chiesa, e la possibilità concreta
di instaurare una pace autentica e duratura. Così "se è ben vero
che l'insurrezione rivoluzionaria può essere legittima nel caso
"di tirannia evidente e prolungata che attenta gravemente ai diritti
fondamentali della persona e danneggia pericolosamente il bene
comune del paese" (PP 31)… è anche certo che la violenza… genera
nuove ingiustizie, introduce nuovi squilibri e provoca nuove rovine…"
(Medellín, 2,19). Qui Paolo VI sembra superare persino Medellín!
Il
documento termina con una serie di indicazioni e impegni pastorali,
anche di carattere sociale e politico, che passeranno alla storia
come "l'opzione per i poveri". Undici anni dopo, a Puebla, nel
corso della III Conferenza dell'Episcopato Latinoamericano, verrà
introdotto un "preferenziale" per tentare di attenuarne l'espressione,
ritenuta eccessivamente forte: ma ormai da oltre atlantico spireranno
venti nuovi!
Come
già era successo al tempo del Concilio, anche in occasione della
Conferenza di Medellín, il "resto" della Chiesa non restò inerme,
ad aspettare, come le ossa il vento, nella visione di Ezechiele…
Anche perché lo Spirito è un dono collettivo, soffiato dal Risorto
su ogni carne. Anzi, se è vero che quegli stessi vescovi che furono
protagonisti prima del Concilio e poi di Medellín non erano caduti
direttamente dal cielo, ma nominati da Pio XII - se non addirittura
dal suo predecessore - allora erano anch'essi figli di quella
cultura religiosa ed ecclesiale che aveva caratterizzato la fine
de XIX e l'inizio del XX secolo. Se arrivarono a intuire certi
percorsi e a far compiere alla Chiesa, in pochi anni, un cammino
più lungo di quanto non ne avesse fatto negli ultimi secoli, fu
certamente per opera dello Spirito, ma anche perché seppero lasciarsi
pro-vocare e accompagnare dai rispettivi popoli. Il popolo di
Dio appunto, secondo la felice definizione di Lumen Gentium.
Quelle
Chiese, dicevamo, erano già in fermento e nel decennio successivo
si sarebbero rese protagoniste di profondi mutamenti, ecclesiali,
sociali e persino politici.
Pensiamo, ad esempio, al ruolo delle Comunità Ecclesiali di Base;
all'impegno dei cristiani nelle organizzazioni sindacali o contadine
di tutto il continente; al servizio - anche in termini di promozione
umana - di migliaia di catechisti e agenti di pastorale.
Al ministero di alcuni vescovi, che assunse - loro malgrado -
una valenza internazionale: a nomi noti, come Helder Camara; o
meno conosciuti, almeno in Europa, come Sergio Mendez Arceo.
Pensiamo addirittura a vicende di "conversione" radicale come
quella di Oscar Romero. E ancora - da allora fino ai nostri giorni
- a Samuel Ruiz e Pedro Casaldáliga, senza dimenticare Juan Gerardi…
Alcuni coronarono col martirio il loro ministero; e in questo
il numero dei laici fu di gran lunga superiore a quello dei religiosi:
sintomo di una Chiesa che anche grazie al Concilio si andava laicizzando...
Queste
realtà ecclesiali - com'è naturale - iniziarono a riflettere sulle
proprie esperienze e nacquero la Spiritualità e la Teologia della
Liberazione. Meglio sarebbe dire "le" teologie, perché se uno
solo è lo spirito, molti sono invece i modi di incarnarlo. Da
quando nel 1971 Gustavo Gutierrez pubblicò la sua prima opera
dal titolo "Hacia una teología de la liberación" furono molti
quelli che lo imitarono, esplorando nuove vie. Anche per questa
particolare forma di servizio, culturale, alcuni pagarono con
la vita (come non ricordare il p. Ellacuría e i suoi cinque confratelli
gesuiti, dell'UCA di San Salvador?); molti di più però furono
quelli che soffrirono l'incomprensione e l'abbandono da parte
della stessa Chiesa.
Dopo
molte tumultuose vicende, dopo due Istruzioni della Congregazione
per la Dottrina della Fede, dopo alcune pretese "normalizzazioni",
in un contesto sociale ed ecclesiale certamente mutato, anche
a livello internazionale, cosa resta dunque in America Latina
- e più in generale nel mondo -di quel tentativo di incarnare
il Concilio che fu proprio di Medellín?
Credo
esattamente quello che indicò Pedro Casaldáliga a chi gli chiedeva
cosa restasse dell'opzione per i poveri: "restano i poveri e Dio.
Il Dio liberatore dei poveri!"..
Alberto
Vitali
(articolo
su Mosaico di Pace - gennaio 2006)
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