La nonviolenza come forma di
azione politica e sociale



Mi è stato chiesto di parlare sul tema della non violenza come azione politica e sociale, dal punto di vista di un cattolico impegnato per la pace.
Direi anzitutto che oggi la nonviolenza non va di moda, non soltanto dal punto di vista drammaticamente evidente - considerate le guerre che abbiamo sotto gli occhi! - ma nemmeno a livello di coscienza condivisa. Recentemente, per esempio, mi ha colpito il fatto di non aver trovato nemmeno presso le librerie Feltrinelli - che non sono proprio le ultime librerie di Milano e certamente tra i gruppi più sensibili a certe tematiche - non soltanto i testi classici di Sharp (uno dei grandi maestri delle tecniche nonviolente) ma neanche alcun altro libro su questo argomento, che non fosse un'autobiografia di Martin Luther King e "Antiche come le montagne" di Ghandi. Questo dà il polso della situazione, perché, nella logica del mercato, ciò che si vende è direttamente proporzionale a cosa interessa alla gente. La nonviolenza continua evidentemente a non essere un valore recepito dalla maggior parte delle persone, per quanto appaia sempre più percepibile un forte anelito alla pace. Oserei dire che quanto alla nonviolenza siamo ancora alla preistoria. Perlomeno non fa presa quanto alla credibilità della sua efficacia, perché su di esso non si è mai investito, né da un punto di vista strettamente intellettuale, né da quello delle risorse.
Ma - e sta qui la nota dolente - siamo arrivati ad un punto critico, direi drammatico, quello per cui i due aspetti estremi ormai coincidono: preistoria e ultima possibilità. Proprio a tale proposito, l'altra sera, in televisione, Gino Strada riportava le preoccupazioni di Noam Chomski sull'attuale livello di pericolo internazionale, che ritiene superiore a quello vissuto ai tempi della guerra fredda, quando, i blocchi contrapposti, non avendo in realtà alcuna intenzione di combattersi, e tenevano le armi di distruzione di massa sotto un ferreo controllo Del resto, non è necessario essere grandi intellettuali o analisti per rendersi conto che - soprattutto dopo la dissoluzione dell'Unione Sovietica - non si sa più che fine abbiano fatto queste armi e chi ora le possiede. Tant'è che in occasione del sequestro, in Afghanistan, della cooperatrice milanese Clementina Cantoni, un po' tutti si sono resi conto di quanto la situazione di quel paese non sia affatto sotto controllo, come i media occidentali avevano invece sostenuto negli ultimi anni… Non per niente, poche settimane or sono, nel corso di un'altra trasmissione televisiva, nientemeno che il direttore dell'Istituto italiano di Politiche Internazionali parlava di Karzai come del "sindaco" di Kabul anzichè del "presidente" dell'Afghanistan, perché - sosteneva - "riesce a malapena a controllare la capitale". Evidentemente settemila morti di guerra non sono stati sufficienti a far sì che l'asse occidentale riuscisse a risolvere i problemi del paese. Ma quella afgana, per quanto critica e pubblicizzata, non è certamente una situazione eccezionale, né la peggiore, né la più esplosiva. Per questo, Chomski avverte che "se va male anche questa volta, il rischio che l'esperimento umano sulla terra possa davvero concludersi, va' preso in seria considerazione. E per questo - poiché politici e maggioranze non sembrano capaci di ipotizzare altro che scongiuri ed eserciti - io concludo che rispetto alla nonviolenza ci troviamo davvero in una fase paradossale in cui preistoria e ultima possibilità coincidono inesorabilmente. Bisogna pertanto - e con urgenza! - fare di necessità virtù. Se fino a qualche anno fa la nonviolenza era ancora considerata una virtù (o una "fisima", a secondo della prospettiva da cui la si guardava) di pochi eletti, oggi dobbiamo urgentemente renderci conto che è diventata necessità, senza alternative né proroghe, se vogliamo garantirci non soltanto rispetto alla qualità, ma alla possibilità stessa del futuro. Ogni ritardo sarebbe fatale.

La Nonviolenza è un cammino

Una pratica (e attitudine) nonviolenta, d'altra parte, non può essere improvvisata nel momento del bisogno, ma necessita di una lunga maturazione delle coscienze e di un cammino, anche pratico, di elaborazione che, realisticamente, la rendono oggi quasi impossibile: non basta infatti arrivare ad intuirla come necessaria per esserne capaci in modo efficace.
Inoltre, anche la migliore delle esperienze non può essere concepita come universalmente valida, perché ogni situazione necessita di mezzi che per essere efficaci devono essere specifici per quella contingenza.
Così un grande testimone della nonviolenza, Nanni Salio, ammonì che: ""Persuasi della nonviolenza" e capaci di "vivere la nonviolenza" si diventa giorno dopo giorno, lentamente e faticosamente, con alti e bassi, in un processo che dura tutta la vita, come ci hanno insegnato i grandi maestri della nonviolenza, da Gandhi a Capitini, a tanti altri".
Certo viene da chiederci se siamo ancora in tempo. Personalmente direi di sì… In ogni caso vale pur sempre il proverbio africano del leone e della gazzella: "al mattino il leone sa che deve correre più forte della gazzella se vuol mangiare e la gazzella sa che deve correre più forte del leone se vuol salvarsi. Non perdere tempo a chiederti se sei più leone o gazzella: inizia a correre!". Anche noi faremmo bene a non perdere troppo tempo nel discutere con tanti lacchè del potere e intellettuali da palazzo, che si lanciano in improbabili sofismi per sminuire, sbeffeggiandola, questa unica possibile e reale alternativa, che certo infastidisce e và contro gli interessi, poco lungimiranti, dei loro padroni: faremmo meglio ad iniziare a correre!
Ma qualcuno, certo anche in buona fede, obietterà che si inizia a correre, e soprattutto si trovano le forze per continuare a farlo quando il gioco si fa duro, solo se si è convinti che la strada sia davvero praticabile.
Lo è? Da cristiano, condividendo la stessa fede di Martin Luther King, rispondo certamente di sì, pur senza sottovalutare l'osservazione di Ghandi per cui un non-credente incontra maggiori difficoltà nel vivere la nonviolenza, proprio perché gli manca l'appoggio in una fede superiore.
A differenza di Gandhi però, ritengo che questa "fede superiore" non debba necessariamente essere riposta in una verità rivelata da una divinità personale, come è per noi cristiani, ma che sia venuto il momento, per ciascuno, di tornare a pescare quello che di più genuino c'è nel pozzo delle proprie convinzioni, della propria esperienza umana. Quel pozzo che - controcorrente - non temo di chiamare "ideologia". E mi riferisco in particolare all'idea dell'uomo nuovo che per decenni è stata coltivata, soprattutto in America Latina, sulla scorta del pensiero di Camillo Torres e Ernesto Che Guevara.
Resta pur sempre il fatto che, non avendo alternative, vale comunque la pena di provare.
E quando la nonviolenza non fosse davvero praticabile - lo abbiamo già detto, perché non si è pronti a praticarla o quando in qualche modo i conflitti sono già esplosi e degenerati (non dimentichiamo che nemmeno Gandhi ne faceva un dogma assoluto) - allora il ricorso a qualche uso della forza, deve essere mirato esclusivamente a quelle che, in tutta verità, possano essere definite operazioni di polizia, mai militari.
Nessun vero pacifista, infatti, contesta agli Stati il diritto di salvaguardare la propria sicurezza sociale mediante l'opera della polizia; analogamente, nella misura in cui la Comunità delle Nazioni và organizzandosi, nessuno arriverà a contestarle il diritto di difendere la sicurezza internazionale. Si tratta però di non prendersi in giro, giocando con le parole. La mistificazione attuale consiste infatti nel confondere sempre più l'ambito delle polizie e quello degli eserciti, con i rispettivi metodi di intervento.
Ricordo un'obiezione conosciuta: al tempo in cui ci si preparava a bombardare l'Afghanistan una delle osservazioni contrarie, subito stigmatizzata, sottolineava come per combattere la mafia, nessuno avrebbe mai accettato l'idea di andare a bombardare Palermo.
Molti - anche a sinistra! - avevano rabbiosamente e tempestivamente ribattuto che questo modo di argomentare era una sciocchezza, senza però spiegarne il perché: evidentemente anche per loro la pelle dei palermitani vale di più di quella degli abitanti di Kabul o di Baghdad!...
Il "caso estremo" pone certamente anche il nonviolento di fronte al dilemma. Anche il Mahatma, come accennavamo prima, diceva che nel caso in cui un inerme stesse soccombendo all'aggressore, il vero nonviolento avrebbe dovuto difenderlo, anche con l'uso della forza, se non avesse avuto altre possibilità. Diversamente non avrebbe potuto ritenersi un vero nonviolento.
L'accettazione passiva della violenza, soprattutto a danno degli altri, è sintomo di ignavia e viltà, non già una virtù. Ciò vale evidentemente anche quando ad essere minacciate siano delle comunità intere o delle minoranze indifese… Resta comunque il fatto che l'uso della forza non rappresenta, mai, una soluzione permanente dei conflitti. Inoltre, lo ripeto, è necessario non barare sulla reale situazione e le possibili strategie, come è vergognosamente successo nel caso della guerra "contro" il Kosovo. E' bene ricordarlo, perché in questo nostra Italia in cui destra e sinistra si scannano su tutto, sembra che vadano fin troppo d'accordo proprio quando e su cosa non dovrebbero!

La nonviolenza come azione politica e sociale

Ma se questa è la situazione a proposito dei conflitti in atto, nella politica, così come nella società e anche in economia, mi sembra invece che il tempo ancora non manchi. E il tema di oggi è proprio quello della nonviolenza come azione politica e sociale, pertanto cercherò di spiegare cosa intendiamo per nonviolenza.
Anzitutto già il termine negativo, NONVIOLENZA, presuppone un deficit culturale di cui siamo portatori. Bobbio sosteneva che "quando i due termini di un opposizione non vengono definiti entrambi positivamente, cioè l'uno in dipendenza dell'altro, ossia quando dei due termini uno è sempre il termine forte e il secondo è sempre il termine debole, il termine forte è quello che indica lo stato di fatto esistenzialmente più rilevante".
Quando allora noi diciamo non-violenza, significa che sappiamo bene che cosa sia la violenza, ma che facciamo fatica a definire il suo contrario e ci limitiamo a definirlo semplicemente come contrapposizione. Questo significa che, dei due termini, quello forte è quello su cui l'umanità ha investito a tutti i livelli.
Ora è evidente che, nella storia dell'umanità, sulla violenza si è investito da sempre, sia dal punto di vista delle risorse economiche che umane e si è investito specialmente in ambito scientifico. Non a caso le grandi scoperte avvengono quasi sempre per interessi militari e solo eventualmente applicate in campo civile.
Lorenzetti aggiungeva che "la pace è termine debole anche nel cristianesimo storico", così mentre abbiamo alle spalle secoli di riflessione filosofica e teologica per definire la guerra giusta, per quanto riguarda la Pace, anche dal punto di vista teologico, siamo ancora all'a b c, nonostante grandi implicazioni presenti nel Nuovo Testamento.
Se provate a cercare trattati o corsi accademici sulla pace, è come cercare un ago in un pagliaio.
Dal canto suo, Ghandi aveva invece definito la nonviolenza con due termini positivi. Il primo è Satyagraha, ovvero attaccamento alla verità e l'altro è Ahimsa, pratica dell'amore. Per Ghandi quindi la nonviolenza non è resistenza passiva ma qualcosa di positivo, attivo, è attaccamento alla verità e pratica dell'amore.
Ho poi scoperto un parallelo interessante tra questa concezione di Ghandi e quella di Giovanni XXIII nella Pacem in terris, laddove anche papa Giovanni definisce la pace non come assenza di guerra, ma come la propria Dignità, garantita in pienezza a tutti gli esseri viventi.

I sei punti della nonviolenza, di Martin Luther King

A questo punto vorrei esporre le osservazioni sulla nonviolenza di Martin Luther King, articolate in sei punti:

1) la resistenza non violenta è autentica resistenza. Credo che nell'immaginario collettivo la nonviolenza sia sempre associata alla passività, quasi che il nonviolento sia "uno che se ne sta lì con le mani conserte a lasciarsi bastonare". Per Martin Luther King, al contrario, uno che usa il metodo della non violenza soltanto perché ha paura o perché è privo degli strumenti della violenza, non può dirsi un vero non violento e cita Ghandi per sostenere che "se l'unica alternativa alla violenza fosse la viltà, meglio sarebbe usare la violenza".
In definitiva, per Martin Luther King, la resistenza non violenta è la via dell'uomo forte, non un metodo di stagnante passività, una sorta di "metodo del non far niente", di accettazione del male quietamente e passivamente. Questo metodo è passivo solo dal punto di vista fisico, nel senso che non ti scagli contro l'avversario per fargli del male, ma è fortemente attivo dal punto di vista spirituale.
E se nella nostra cultura, fortemente platonica, lo spirituale si contrappone al materiale, nel linguaggio di un pastore amante della Bibbia - come era Luther King - spirituale non è il mondo dei pensieri avulso dalla pratica, ma è tutto quello che nasce dalle proprie convinzioni e genera azione; che, prescindendo da ogni forma di violenza, utilizza ogni mezzo possibile di pressione per trasformarla la società. In definitiva la non violenza, non è una non resistenza passiva al male, ma un'attiva resistenza nonviolenta allo stesso male.

2) la non violenza non cerca di sconfiggere o umiliare l'avversario, ma piuttosto di conquistare la sua amicizia e comprensione. Non si tratta di cambiare una bandiera con l'altra, ma di arrivare ad una medesima logica: questo il non violento lo ottiene attraverso azioni di non cooperazione o di boicottaggio.
Per ricorrere all'esperienza di Ghandi, la resistenza contro l'imperialismo inglese è stata realizzata proprio con azioni, prima di non cooperazione e poi di boicottaggio.
La teoria di fondo è infatti quella per cui i grandi imperi, o i grandi dittatori, riescono a mantenere il potere contando proprio sulla cooperazione più o meno convinta, più o meno cosciente, di larghi strati delle rispettive popolazioni. E in questa prospettiva è interessante la lettera di Ghandi contro il razzismo, nella quale - correva l'anno 1938 - sosteneva che Hitler potesse continuare a tiranneggiare la Germania e parte dell'Europa, soltanto perché la stragrande maggioranza del suo popolo "o lo appoggia direttamente o non fa niente per boicottarlo".
I mezzi della nonviolenza hanno perciò come obiettivo quello di risvegliare un senso di vergogna morale nell'avversario.
Capite allora come la nonviolenza sia pensabile, concepibile, praticabile solo da chi ha un'idea positiva dell'uomo, da chi è convinto che l'uomo abbia una capacità morale, che a volte viene sì deviata da tutta una serie di condizionamenti storici, ma che a questi condizionamenti sia possibile opporne degli altri, grazie ai quali riportarlo alle esperienze ultime della propria umanità e quindi fargli sperimentare un senso di vergogna morale nei confronti di tutta una serie di scelte indignitose. Il fine della non violenza è la redenzione e la riconciliazione, non la contrapposizione all'interno del genere umano. La conseguenza ultima della nonviolenza è dunque quella della creazione della Comunità nell'amore; mentre la conseguenza della violenza è la tragica amarezza della divisione.

3) nella resistenza non violenta l'attacco è diretto contro il male piuttosto che contro le persone, alle quali succede invece di essere ingannate dal male.

4) la non violenza è disponibilità ad accettare la sofferenza senza vendetta, ad accettare le percosse dell'avversario, senza restituirle.
Nel caso di Luther King è evidente il riferimento a quel passo del Vangelo in cui Gesù comanda ai suoi discepoli: se qualcuno ti percuote una guancia tu offrigli anche l'altra (Mt 5,39). Questa frase è stata spesso ridicolizzata e banalizzata - e probabilmente ha dato origine all'erronea concezione della non violenza - come se volesse dire: "vai avanti a prendere sberle all'infinito". A chi legge con intelligenza il testo mattano, appare invece chiaro che Cristo non intendesse chiedere ai suoi discepoli di subire all'infinito, quanto piuttosto di non reagire in modo altrettanto violento. Se al male ci si contrappone con il male, si entra in una spirale che in definitiva si rivela distruttiva per tutti.
Mi ha recentemente incuriosito un documentario televisivo sul modo con cui alcuni animali, in particolare le iene, si riconciliano con gli avversari al termine dei combattimenti, anche dopo quelli più cruenti: i vincitori leccano le ferite ai vinti! E ciò per quella legge di sopravvivenza, insita nella natura e che non si limita all'istinto di conservazione del singolo: gli animali, anche quelli più feroci, sanno benissimo che non possono massacrarsi tra di loro, se non vogliono rischiare l'estinzione della specie… E sembra - incredibile? - che a questa legge, molto spesso faccia eccezione proprio l'uomo!
La sofferenza secondo Martin Luther King - e lo capisce bene il resistente - ha enormi possibilità di educare e di trasformare... In un certo senso, questo, come altri passi della sua riflessione, mi sembra vadano presi per fede: nel senso che non siano tanto dimostrabili con un ragionamento logico e consequenziale, quanto piuttosto sperimentati nella pratica. E' chiaro che quando Luther King parlava di "una sofferenza che ha grosse possibilità di educare e di trasformare la società" lo faceva non da intellettuale, seduto dietro una scrivania, ma da resistente, sulla scorta dell'esperienza del movimento antisegregazione che aveva guidato negli Stati Uniti

5) la resistenza non violenta evita, non solo la violenza fisica esterna, ma anche la violenza interiore dello spirito. Il resistente non violento, non solo si rifiuta di sparare sull'avversario, ma rifiuta anche di odiarlo, perché al centro della concezione della non violenza sta il principio dell'amore.
Qui credo vada aperta un'altra parentesi per specificare in che senso si può parlare di amore verso i nemici. Non certo nel senso di qualche emozione sentimentale o affettiva. Neanche Cristo è arrivato al punto di pretendere questo, che credo andrebbe oltre le possibilità umane. Amore invece nel senso dell'agape greca, cioè nel senso di una volontà redentrice nei confronti di tutti, di una disposizione al sacrificio nell'interesse del bene comune, un amore che, avendo un progetto di riconciliazione a livello sociale, è incapace di una valutazione discriminante fra persone degne e persone indegne, un amore che, a livello della vita quotidiana, crede che anche i peggiori criminali di questo mondo abbiano diritto alla vita.
Agape non è un amore debole e passivo, è invece un amore in azione che cerca di preservare e di creare comunità anche quando qualcuno cerca di romperle. In conclusione agape - cioè l'amore che sta alla base della non violenza - significa riconoscere che tutta l'umanità è coinvolta in un unico medesimo processo. Martin Luther King sosteneva: "il male che faccio a mio fratello lo faccio a me stesso, il male che lui vorrebbe fare a me lo fa a sé" e, a proposito del razzismo, affermava che "i bianchi, rinunciando a mandare i figli alle scuole pubbliche per non incontrare i neri, privano i loro figli di un'esperienza universale".
Quando mi si comanda di amare, mi si comanda di restaurare la comunità, di resistere all'ingiustizia e di andare incontro ai bisogni degli altri, anche quando gli altri non se lo meritano, spezzando una spirale distruttiva per tutti. Sempre Luther King affermava: "lungo il corso della vita qualcuno deve avere giudizio e moralità sufficiente per troncare la catena dell'odio. Questo può essere fatto soltanto proiettando l'etica dell'amore al centro delle nostre vite".
Una drammatica dimostrazione del contrario è lo scenario che abbiamo sotto gli occhi: l'odio che sta progressivamente montando nel mondo, scavando fossati, o erigendo mura invalicabili; è questa spirale di violenza che non fa altro che girare su se stessa, rischiando di strozzare tutti.

6) la resistenza non violenta si basa sulla convinzione che l'universo è dalla parte della giustizia, che esiste una finalità nell'universo, che chi decide di mettersi dalla parte della non violenza e quindi di assumere una logica antidistruttiva, trova dalla sua parte un alleato cosmico.
Detto in parole più semplici: la logica che presiede alla natura è una logica positiva; andare in questa direzione significa preservarsi, significa andare nella direzione della crescita della specie; ostinarsi ad andare in una direzione uguale e contraria vuol dire condannarsi alla propria distruzione.

Si fa in fretta a dire Pace

Per meglio concretizzare il concetto di nonviolenza possiamo considerare come nella storia dell'umanità si siano sviluppate diverse idee di pace che si possono raggruppare in tre filoni - o scuole di pensiero - principali: pace negativa, pace positiva, nonviolenza.

Anzitutto un'idea negativa della pace

Per pace negativa si intende la semplice mancanza di guerra, ossia la pace che si realizza come pace armata, come tregua tra una guerra e l'altra. In questo senso si potrebbe chiamare periodo di pace il cinquantennio seguito alla seconda guerra mondiale. Era pace nel senso di situazione di stallo, di non-conflitto diretto tra due grossi blocchi, sebbene questi si facessero la guerra nel resto del mondo, in una infinità di situazioni locali, e nonostante stessero spendendo un'enormità di soldi per la corsa agli armamenti (soldi che potevano essere impiegati per scopi più nobili).
L'idea di pace negativa condanna la violenza diretta, ma giustifica pur sempre la guerra come strumento di "difesa" dalle aggressioni e pone quindi quale valore irrinunciabile quello della libertà. Al tempo stesso tace sulla violazione - all'interno del sistema - della giustizia sociale, che evidentemente è meno palese, ma non per questo meno grave.
Se improvvisamente si risolvessero tutti i conflitti in atto - in questo momento sono 70 quelli ufficialmente riconosciuti: tra questi non compare la guerra in Iraq, mai "dichiarata" e perciò non riconosciuta e non vincolata al trattato di Ginevra - (e a parte il fatto che esploderebbe una crisi economica che non riusciremo più a controllare), in questa logica, potremmo affermare che finalmente nel mondo ci sarebbe la pace… !!!
Peccato che siano nientemeno di 845 milioni le persone affamate nel mondo, necessarie per garantire all'Europa e agli Stati Uniti l'attuale standard di vita… e che siano 24 mila le persone che muoiono ogni giorno di fame: un numero di vittime che nemmeno tutte le suddette 70 guerre, messe assieme, riescono a fare.
Questo per denunciare quell'ingiustizia strutturale che soggiace oggi al sistema-mondo, ma che viene contemplata come "situazione di pace".
Ragionando in questa logica, oltre che con la diplomazia, la pace si può difendere anche con gli eserciti: di conseguenza qualcuno oggi definisce gli eserciti come "i soli veri grandi movimenti per la Pace".
E, guarda caso, nello stesso stemma della NATO sono scritte queste parole: alleanza per la pace. Si tratta quindi di una pace imperiale: la vecchia pace romana riveduta e corretta, ma neanche troppo! Oggi potremmo chiamarla: Pax Americana.
Una Pax Americana che ho sentito amaramente criticare, non solo da molti rivoluzionari comunisti, ma anche da uno dei vescovi più moderati dell'America Latina. Penso a monsignor Arizmendi, attuale vescovo del Chiapas, che il 12 settembre del 2001 in un'intervista comparsa su un quotidiano messicano ha affermato: "non c'è da stupirsi se succedono cose come quelle dell'11 settembre e se ci sono delle persone che odiano gli USA, visto come si comportano gli Stati Uniti nei nostri paesi".
Questa concezione negativa della pace va' in definitiva nella logica dell'antico moto latino: "se vuoi la pace prepara la guerra!".
In sintesi, dal punto di vista dei valori, possiamo dire che questa idea di pace mette in primo piano il valore della libertà e del benessere materiale - chiamati anche diritti umani di prima generazione - ma sottovaluta completamente tutta un'altra serie di diritti legati alla giustizia sociale

Una secondo idea di pace è positiva

che invece valorizza proprio i diritti legati alla giustizia sociale, denunciando ogni forma di violenza insita nel sistema, dove - tra l'altro - esistono molti serial killer con colletto bianco e penna in mano, i quali si ostinano a firmare innumerevoli trattati di libero commercio, accordi economici e politici, nella piena consapevolezza che questo significa morte certa per milioni di persone.
Ma la violenza di questo sistema mette in moto un circolo vizioso perché, prima o poi, qualcuno di coloro che subiscono l'ingiustizia del sistema deciderà di reagire. Credo che a nessuno si possa chiedere di morire di fame, insieme ai propri figli, senza reagire, anche mediante l'uso della violenza: E questo - sarò eretico - ma lo dico da nonviolento.
E' interessante notare come la violenza strutturale del sistema sia stata denunciata tanto nel documento della II Conferenza dell'Episcopato Latinoamericano di Medelin, nel 1968, (in quel documento da cui poi è nato il filone della teologia della liberazione), quanto da un altro personaggio che pure dal punto di vista del comunismo era al di sopra da ogni sospetto, e cioè da Giovanni Paolo II nell'enciclica Centesimus annus.
Anche la pace positiva pertanto giustifica, in alcuni casi, il ricorso alla violenza e questo può accadere appunto quando diventa intollerabile il livello di violenza strutturale del sistema.
A propugnare questa "idea positiva della Pace" sono il più delle volte i "movimenti per la pace", che al loro interno sono composti da diverse anime; questo è anche il motivo per cui tali movimenti prendano posizione per opporsi solo a determinate, specifiche, guerre o minacce di guerre. Non di rado, vengono perciò accusati di scendere in piazza a protestare soltanto quando a fare la guerra sono gli Stati Uniti. Credo che una ragionevole spiegazione stia nel fatto che ci si sente ovviamente più coinvolti contro una guerra intrapresa o sostenuta dal proprio governo, o da un governo alleato, piuttosto che da altri belligeranti, molto lontani sia nello spazio, che nel livello democratico o nell'attuazione dei diritti civili.
Esiste però anche una diversa chiave di lettura.:Nnon tutte le guerre hanno le stesse motivazioni: alcune più di altre calpestano la giustizia sociale e sono quelle che riescono a provocare maggiormente la sensibilità di tali movimenti.

Esiste infine la pace secondo la Nonviolenza

che è evidentemente quella più radicale e profonda. La non violenza si oppone ad ogni forma di violenza, sia diretta che strutturale e non giustifica (mai o quasi mai, a seconda delle diverse impostazioni) il ricorso ad una per eliminare l'altra: in questo modo spezza il circolo vizioso della violenza rifiutando, per principio, l'idea di poterla utilizzare.
Per fare questo la nonviolenza va ancora più nel profondo, nel senso che rifiuta la violenza a livello culturale, quella violenza nascosta nelle pieghe delle nostre convinzioni religiose, morali e sociali. Questa violenza va' smascherata e rimossa; e a questo proposito tutti dobbiamo fare un grosso esercizio.
La religione è forse un'alcova dove più frequentemente si annidano questi convincimenti, ma la cosa, paradossalmente, non mi preoccupa più di tanto perché sono convinto che ci stiano senza diritto di cittadinanza, e rimuovere certe convinzioni, non può creare pericoli: al contrario può aiutare le religioni stesse a purificarsi da una serie di elementi spuri, ricevuti dalla cultura laica e diventati così intrinseci al modo di vivere delle stesse religioni, da non riuscire più a distinguerle.
In questo senso una seria riflessione su cosa significhi laicità dello Stato credo che sia non soltanto utile, ma necessaria, anche per risolvere una buona volta il problema della nonviolenza.
Inoltre mi sembra quanto meno attuale, visto il referendum che ci è stato recentemente proposto: a me piacerebbe riuscire a vivere in uno Stato dove ci si sappia confrontare, anche in maniera passionale, accalorata, ma senza il bisogno di ricorrere per forza alle crociate!
Contrariamente alle altre due concezioni della pace, quella negativa e quella positiva, che sono centrate prevalentemente su un solo valore: rispettivamente la libertà e la giustizia, la pace auspicata dalla nonviolenza comporta l'interdipendenza di una serie di valori che tra loro non possono essere conflittuali: il diritto alla vita, il diritto alla libertà, alla giustizia, all'equilibrio ecologico, al benessere - che come ci ha insegnato Fromm - è cosa diversa dall'avere.
Anche a questo proposito è interessante notare un parallelismo con la Pacem in terris. Papa Giovanni in quell'Enciclica non mette in concorrenza la Pace con altri valori… Una delle obiezioni che ci siamo sentiti rivolgere più frequentemente negli ultimi anni, almeno dalla guerra dell'Afghanistan in poi, è questa: "non si può rinunciare alla libertà per salvaguardare la Pace." La libertà quindi come valore che, per essere salvaguardato, giustifica anche una guerra, con tutto quello che essa comporta.
Nella struttura della Pacem in terris, al contrario, si coglie facilmente come papa Giovanni rifiuta a priori questo tipo di impostazione: per lui quando si perde la Pace, la libertà è già persa… La Pace che si costruisce con la guerra è una Pace da cimiteri.
Così la nonviolenza mette in evidenza come una società che sia costruita su un solo valore è poco desiderabile, perché prima o poi quello stesso valore sarà calpestato.
Credo che l'esperienza del secolo scorso ci abbia insegnato come proprio questo sia stato il limite dei due grandi blocchi: da una parte il blocco del mondo cosiddetto "libero", dall'altra il blocco del cosiddetto "socialismo reale", fondati, da una parte e dall'altra, su un'unica idea, entrambi incapaci di mettere in relazione tutta una serie di valori che invece risultano necessari all'interno di ogni società.

La Nonviolenza: una via possibile

Dalla seconda guerra mondiale, sono diversi gli esempi in cui è stata messa in pratica la nonviolenza; ne ricordo solo alcuni.
La madre di tutte le resistenze nonviolente, anche nell'immaginario di tutti, credo rimanga la liberazione non violenta dell'India operata da Ghandi, ma anche la lotta contro la segregazione razziale di Martin Luther King.
Altri esempi, forse meno noti, sono: le lotte non violente guidate da Perez Esquivel e dal Serpaj in diversi paesi dell'America latina; le lotte stesse di liberazione dei popoli dell'Europa orientale, culminate nella caduta del mondo socialista sovietico e avvenute sostanzialmente senza spargimento di sangue; la lotta di Chico Mendes contro i grandi possidenti terrieri, ripresa e portata avanti dai senza terra del Brasile; infine la grande lotta contro l'aparteid del Sudafrica, capeggiata da Nelson Mandela.

Tre aspetti concreti della non violenza

Termino indicando tre aspetti concreti della nonviolenza.

Il primo è quello della resistenza nonviolenta come stile di vita personale

Per riuscire a procedere lungo i sentieri della nonviolenza occorre esercitarsi ad un tipo di virtù personale, che non è tanto una preparazione all'eroismo del gesto estremo, ma piuttosto l'attuazione di una nonviolenza quotidiana, fatta di piccoli sacrifici, che sono a volte poco appariscenti, ma che sono fondamentalmente impostati all'onestà e alla disciplina interiore. Questo ci permette di resistere alle seduzioni di una cultura che, con una serie di pubblicità subliminali, di spot e di messaggi, ci induce a dei comportamenti sempre meno consapevoli, sempre più massificanti, eppure al tempo stesso individualistici ed egoistici. Occorre resistere a "processi di giustificazione", che mirano a convincerci che non ci sono alternative all'attuale modello di sviluppo ed ai suoi consumi. Una scelta di semplicità volontaria, non significa diventare poveri perché ci siano beni sufficienti per tutti, ma imparare a vivere una sobrietà che permetta a tutti di vivere, in maniera dignitosa, e a non essere schiavi delle cose.

Il secondo è la resistenza nonviolenta come attaccamento alla Verità

Intendendo la verità con la V maiuscola, che è costituita dalla Dignità degli altri, contro ogni discriminazione. Viviamo in una società che, senza che ce ne rendiamo conto, sta cambiando l'abc stesso delle nostre convinzioni più profonde. Quando sento che persino i bambini parlano dicendo "gli extracomunitari", mi viene una grande tristezza, perché mi rendo conto che abbiamo già minato la possibilità di un futuro di Pace per la nostra società. Quando insegniamo che gli altri non sono più fratelli e sorelle, ma sono "stranieri", "extracomunitari", termine che ha un'assonanza particolare con extraterrestri… credo che ci siamo già tirati la zappa sui piedi.
In questo senso bisogna avere il coraggio di mettere in discussione una presunta legalità, che è tanto comunemente accettata, quanto profondamente illegale. Non so dove andrà parare il magistero, appena iniziato, di Benedetto XVI, ma mi auguro che porti a compimento quanto va ripetendo in queste prime settimane e cioè che la Chiesa deve avere il coraggio di abbattere le frontiere; e che (come già aveva solennemente dichiarato, nella Pacem in terris, Giovanni XXIIII) per il fatto stesso di appartenere tutti alla stessa umanità, non esistono strutture - come le frontiere - in virtù delle quali si possa impedire alle persone di spostarsi sulla terra, per andare a cercare le condizioni necessarie per vivere una vita più dignitosa.
Da parte nostra, riconoscere questa verità con la V maiuscola significa avere il coraggio di porre gesti di non-cooperazione, di resistenza, di disobbedienza civile, di boicottaggio, anche nei confronti di quelli leggi che, per quanto ovviamente "legali", risultano profondamente immorali alla nostra coscienza.
Da questo punto di vista, permettetemi una battuta: rabbrividisco sempre più quando sento che alcuni si arrogano il diritto di parlare in nome dei "nostri valori e della nostra cultura".
È vero che ciascuno deve rifarsi alle proprie radici: ma se risalgo alle mie radici, vale a dire alla storia concreta di persone che sono vissute prima di me, amando e lottando sulle sponde del lago di Como (io sono di Bellano) o comunque in Lombardia, nella stessa Milano (dal cor in man) allora incontro… incontriamo esempi di solidarietà creativa, che sono qualcosa di cui non possiamo che andare fieri… di conseguenza, proprio per difendere le nostre radici, dobbiamo avere il coraggio di attuare, in maniera nonviolenta, anche gesti non sempre legali, nei confronti di certe leggi che lo sono solo formalmente!
In questo campo abbiamo molte strade già aperte; penso anche al commercio equo e solidale, quale forma di resistenza nonviolenta al sistema liberista e che ormai è entrato nella coscienza di molte persone, se però lo porteremo avanti non come una sorta di banchetto benefico, ma con quella carica ideale da cui è nato.
Penso alla Campagna contro le Banche Armate, facilmente reperibile su internet. Per spiegare in che cosa consiste questa campagna premetto che la guerra oggigiorno non è più un incidente di percorso, ma è diventata una necessità strutturale nel nostro sistema economico. Siamo ormai giunti al punto in cui ogni 10 anni è necessario fare una guerra. Basta pensare che il 30% del commercio mondiale gira intorno al commercio di tutto ciò che è bellico (non intendo solo le armi). Prendiamo la Valsella, che sino a qualche anno fa produceva mine antipersona: se la Valsella, che fa parte del gruppo Fiat, fosse andata in crisi avrebbe coinvolto, nel disastro, tutto il settore dell'automobile italiano. Adesso ci sarebbe da studiare per benino la questione delle cluster bomb e quali relazioni abbiano con le industrie italiane. E' solo un esempio, per spiegare come oggi l'economia di pace è necessariamente anche economia di guerra. Le banche sono il perno della faccenda, finanziando tutta questa compravendita, grazie ai fondi che noi vi investiamo. È partita così una Campagna contro le cosiddette Banche Armate. L'iniziativa studia annualmente il budget delle banche e, denunciando quelle che finanziano questo commercio internazionale di armi, offre la possibilità ai singoli clienti di valutare il rapporto con la propria banca e decidere di conseguenza.
Penso al Consumo Critico e quindi alle varie forme di boicottaggio che conoscete; ma penso anche a tante altre campagne, forse meno note… penso alla campagna Sbilanciamoci, che studia ogni anno la legge Finanziaria dello Stato e propone una Controfinanziaria. A mo' di informazione: la finanziaria per quest'anno (2005) si aggira sui 24 miliardi di euro, di cui 1 miliardo e 200 vanno a finanziare le missioni all'estero, e altri 300 milioni di euro servono per finanziare l'esercito in patria.

Il terzo aspetto è quello di una resistenza nonviolenta intesa come giustizia riparativa

Qui davvero non posso inoltrarmi, come meriterebbe, in tutta la questione, ma c'è un ufficio a Milano, ora credo privato, ma nato come emanazione di una ASL, che lavora sul concetto di giustizia riparativa. Vale a dire, mentre l'idea di giustizia che abbiamo in mente tutti è fondamentalmente quella retributiva - "se fai del male devi pagare" - la giustizia riparativa (che non si contrappone, né sostituisce la legge) parte dal concetto, che chi fa un male l'ha fatto non soltanto agli altri, ma anche a se stesso e ha leso il patto di convivenza sociale; si pone pertanto l'obiettivo di far incontrare vittime e aggressori, per ragionare insieme sul perché è successa quella determinata cosa e su come sia possibile riparare insieme. Sembra fantascienza… ma è realtà, a poche centinaia di metri da casa mia!
Una delle promotrici di questo ufficio mi raccontava degli esempi concreti del proprio lavoro: dalle cose più comuni, come le liti tra coinquilini, a cose molto più gravi, come episodi di molestie tra ragazzi a scuola e violenze sessuali in famiglia. Gli stessi operatori hanno prestato il loro servizio anche nei Balcani, per un lavoro di riconciliazione tra adolescenti di diverse fazioni, che si erano sparati addosso…
Credo che - più di ogni teoria - ascoltare simili esperienze possa aiutare a rimuovere tanti dubbi e pregiudizi che ancora potrebbero restare circa l'efficacia dei metodi nonviolenti.
Così finisco da dove sono partito: dalla constatazione che dal punto di vista della nonviolenza siamo davvero alla preistoria, ma dobbiamo toglierci dalla testa che sia un sogno di pochi utopisti, i quali non si renderebbero conto di come è fatta la realtà, perché a confutare simili pregiudizi ci sono già molti esempi concreti, in diversi campi. Se questi esempi non sono ancora conosciuti o non sono ancora pienamente convincenti, è semplicemente perché non sono ancora stati adeguatamente sviluppati e forse c'è qualcuno che ha tutto l'interesse a tenerli nascosti.

Alberto Vitali

(Testo trascritto dell'intervento tenuto nell'ambito di un seminario organizzato dall'Associazione Culturale Punto Rosso e promosso dalla provincia di Milano, il 17 maggio 2005)



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