Mi
è stato chiesto di parlare sul tema della non violenza come azione
politica e sociale, dal punto di vista di un cattolico impegnato
per la pace.
Direi anzitutto che oggi la nonviolenza non va di moda, non soltanto
dal punto di vista drammaticamente evidente - considerate le guerre
che abbiamo sotto gli occhi! - ma nemmeno a livello di coscienza
condivisa. Recentemente, per esempio, mi ha colpito il fatto di
non aver trovato nemmeno presso le librerie Feltrinelli - che
non sono proprio le ultime librerie di Milano e certamente tra
i gruppi più sensibili a certe tematiche - non soltanto i testi
classici di Sharp (uno dei grandi maestri delle tecniche nonviolente)
ma neanche alcun altro libro su questo argomento, che non fosse
un'autobiografia di Martin Luther King e "Antiche come le montagne"
di Ghandi. Questo dà il polso della situazione, perché, nella
logica del mercato, ciò che si vende è direttamente proporzionale
a cosa interessa alla gente. La nonviolenza continua evidentemente
a non essere un valore recepito dalla maggior parte delle persone,
per quanto appaia sempre più percepibile un forte anelito alla
pace. Oserei dire che quanto alla nonviolenza siamo ancora alla
preistoria. Perlomeno non fa presa quanto alla credibilità della
sua efficacia, perché su di esso non si è mai investito, né da
un punto di vista strettamente intellettuale, né da quello delle
risorse.
Ma - e sta qui la nota dolente - siamo arrivati ad un punto critico,
direi drammatico, quello per cui i due aspetti estremi ormai coincidono:
preistoria e ultima possibilità. Proprio a tale proposito, l'altra
sera, in televisione, Gino Strada riportava le preoccupazioni
di Noam Chomski sull'attuale livello di pericolo internazionale,
che ritiene superiore a quello vissuto ai tempi della guerra fredda,
quando, i blocchi contrapposti, non avendo in realtà alcuna intenzione
di combattersi, e tenevano le armi di distruzione di massa sotto
un ferreo controllo Del resto, non è necessario essere grandi
intellettuali o analisti per rendersi conto che - soprattutto
dopo la dissoluzione dell'Unione Sovietica - non si sa più che
fine abbiano fatto queste armi e chi ora le possiede. Tant'è che
in occasione del sequestro, in Afghanistan, della cooperatrice
milanese Clementina Cantoni, un po' tutti si sono resi conto di
quanto la situazione di quel paese non sia affatto sotto controllo,
come i media occidentali avevano invece sostenuto negli ultimi
anni… Non per niente, poche settimane or sono, nel corso di un'altra
trasmissione televisiva, nientemeno che il direttore dell'Istituto
italiano di Politiche Internazionali parlava di Karzai come del
"sindaco" di Kabul anzichè del "presidente" dell'Afghanistan,
perché - sosteneva - "riesce a malapena a controllare la capitale".
Evidentemente settemila morti di guerra non sono stati sufficienti
a far sì che l'asse occidentale riuscisse a risolvere i problemi
del paese. Ma quella afgana, per quanto critica e pubblicizzata,
non è certamente una situazione eccezionale, né la peggiore, né
la più esplosiva. Per questo, Chomski avverte che "se va male
anche questa volta, il rischio che l'esperimento umano sulla terra
possa davvero concludersi, va' preso in seria considerazione.
E per questo - poiché politici e maggioranze non sembrano capaci
di ipotizzare altro che scongiuri ed eserciti - io concludo che
rispetto alla nonviolenza ci troviamo davvero in una fase paradossale
in cui preistoria e ultima possibilità coincidono inesorabilmente.
Bisogna pertanto - e con urgenza! - fare di necessità virtù. Se
fino a qualche anno fa la nonviolenza era ancora considerata una
virtù (o una "fisima", a secondo della prospettiva da cui la si
guardava) di pochi eletti, oggi dobbiamo urgentemente renderci
conto che è diventata necessità, senza alternative né proroghe,
se vogliamo garantirci non soltanto rispetto alla qualità, ma
alla possibilità stessa del futuro. Ogni ritardo sarebbe fatale.
La
Nonviolenza è un cammino
Una
pratica (e attitudine) nonviolenta, d'altra parte, non può essere
improvvisata nel momento del bisogno, ma necessita di una lunga
maturazione delle coscienze e di un cammino, anche pratico, di
elaborazione che, realisticamente, la rendono oggi quasi impossibile:
non basta infatti arrivare ad intuirla come necessaria per esserne
capaci in modo efficace.
Inoltre, anche la migliore delle esperienze non può essere concepita
come universalmente valida, perché ogni situazione necessita di
mezzi che per essere efficaci devono essere specifici per quella
contingenza.
Così un grande testimone della nonviolenza, Nanni Salio, ammonì
che: ""Persuasi della nonviolenza" e capaci di "vivere la nonviolenza"
si diventa giorno dopo giorno, lentamente e faticosamente, con
alti e bassi, in un processo che dura tutta la vita, come ci hanno
insegnato i grandi maestri della nonviolenza, da Gandhi a Capitini,
a tanti altri".
Certo viene da chiederci se siamo ancora in tempo. Personalmente
direi di sì… In ogni caso vale pur sempre il proverbio africano
del leone e della gazzella: "al mattino il leone sa che deve correre
più forte della gazzella se vuol mangiare e la gazzella sa che
deve correre più forte del leone se vuol salvarsi. Non perdere
tempo a chiederti se sei più leone o gazzella: inizia a correre!".
Anche noi faremmo bene a non perdere troppo tempo nel discutere
con tanti lacchè del potere e intellettuali da palazzo, che si
lanciano in improbabili sofismi per sminuire, sbeffeggiandola,
questa unica possibile e reale alternativa, che certo infastidisce
e và contro gli interessi, poco lungimiranti, dei loro padroni:
faremmo meglio ad iniziare a correre!
Ma qualcuno, certo anche in buona fede, obietterà che si inizia
a correre, e soprattutto si trovano le forze per continuare a
farlo quando il gioco si fa duro, solo se si è convinti che la
strada sia davvero praticabile.
Lo è? Da cristiano, condividendo la stessa fede di Martin Luther
King, rispondo certamente di sì, pur senza sottovalutare l'osservazione
di Ghandi per cui un non-credente incontra maggiori difficoltà
nel vivere la nonviolenza, proprio perché gli manca l'appoggio
in una fede superiore.
A differenza di Gandhi però, ritengo che questa "fede superiore"
non debba necessariamente essere riposta in una verità rivelata
da una divinità personale, come è per noi cristiani, ma che sia
venuto il momento, per ciascuno, di tornare a pescare quello che
di più genuino c'è nel pozzo delle proprie convinzioni, della
propria esperienza umana. Quel pozzo che - controcorrente - non
temo di chiamare "ideologia". E mi riferisco in particolare all'idea
dell'uomo nuovo che per decenni è stata coltivata, soprattutto
in America Latina, sulla scorta del pensiero di Camillo Torres
e Ernesto Che Guevara.
Resta pur sempre il fatto che, non avendo alternative, vale comunque
la pena di provare.
E quando la nonviolenza non fosse davvero praticabile - lo abbiamo
già detto, perché non si è pronti a praticarla o quando in qualche
modo i conflitti sono già esplosi e degenerati (non dimentichiamo
che nemmeno Gandhi ne faceva un dogma assoluto) - allora il ricorso
a qualche uso della forza, deve essere mirato esclusivamente a
quelle che, in tutta verità, possano essere definite operazioni
di polizia, mai militari.
Nessun vero pacifista, infatti, contesta agli Stati il diritto
di salvaguardare la propria sicurezza sociale mediante l'opera
della polizia; analogamente, nella misura in cui la Comunità delle
Nazioni và organizzandosi, nessuno arriverà a contestarle il diritto
di difendere la sicurezza internazionale. Si tratta però di non
prendersi in giro, giocando con le parole. La mistificazione attuale
consiste infatti nel confondere sempre più l'ambito delle polizie
e quello degli eserciti, con i rispettivi metodi di intervento.
Ricordo un'obiezione conosciuta: al tempo in cui ci si preparava
a bombardare l'Afghanistan una delle osservazioni contrarie, subito
stigmatizzata, sottolineava come per combattere la mafia, nessuno
avrebbe mai accettato l'idea di andare a bombardare Palermo.
Molti - anche a sinistra! - avevano rabbiosamente e tempestivamente
ribattuto che questo modo di argomentare era una sciocchezza,
senza però spiegarne il perché: evidentemente anche per loro la
pelle dei palermitani vale di più di quella degli abitanti di
Kabul o di Baghdad!...
Il "caso estremo" pone certamente anche il nonviolento di fronte
al dilemma. Anche il Mahatma, come accennavamo prima, diceva che
nel caso in cui un inerme stesse soccombendo all'aggressore, il
vero nonviolento avrebbe dovuto difenderlo, anche con l'uso della
forza, se non avesse avuto altre possibilità. Diversamente non
avrebbe potuto ritenersi un vero nonviolento.
L'accettazione passiva della violenza, soprattutto a danno degli
altri, è sintomo di ignavia e viltà, non già una virtù. Ciò vale
evidentemente anche quando ad essere minacciate siano delle comunità
intere o delle minoranze indifese… Resta comunque il fatto che
l'uso della forza non rappresenta, mai, una soluzione permanente
dei conflitti. Inoltre, lo ripeto, è necessario non barare sulla
reale situazione e le possibili strategie, come è vergognosamente
successo nel caso della guerra "contro" il Kosovo. E' bene ricordarlo,
perché in questo nostra Italia in cui destra e sinistra si scannano
su tutto, sembra che vadano fin troppo d'accordo proprio quando
e su cosa non dovrebbero!
La
nonviolenza come azione politica e sociale
Ma
se questa è la situazione a proposito dei conflitti in atto, nella
politica, così come nella società e anche in economia, mi sembra
invece che il tempo ancora non manchi. E il tema di oggi è proprio
quello della nonviolenza come azione politica e sociale, pertanto
cercherò di spiegare cosa intendiamo per nonviolenza.
Anzitutto già il termine negativo, NONVIOLENZA, presuppone un
deficit culturale di cui siamo portatori. Bobbio sosteneva che
"quando i due termini di un opposizione non vengono definiti entrambi
positivamente, cioè l'uno in dipendenza dell'altro, ossia quando
dei due termini uno è sempre il termine forte e il secondo è sempre
il termine debole, il termine forte è quello che indica lo stato
di fatto esistenzialmente più rilevante".
Quando allora noi diciamo non-violenza, significa che sappiamo
bene che cosa sia la violenza, ma che facciamo fatica a definire
il suo contrario e ci limitiamo a definirlo semplicemente come
contrapposizione. Questo significa che, dei due termini, quello
forte è quello su cui l'umanità ha investito a tutti i livelli.
Ora è evidente che, nella storia dell'umanità, sulla violenza
si è investito da sempre, sia dal punto di vista delle risorse
economiche che umane e si è investito specialmente in ambito scientifico.
Non a caso le grandi scoperte avvengono quasi sempre per interessi
militari e solo eventualmente applicate in campo civile.
Lorenzetti aggiungeva che "la pace è termine debole anche nel
cristianesimo storico", così mentre abbiamo alle spalle secoli
di riflessione filosofica e teologica per definire la guerra giusta,
per quanto riguarda la Pace, anche dal punto di vista teologico,
siamo ancora all'a b c, nonostante grandi implicazioni presenti
nel Nuovo Testamento.
Se provate a cercare trattati o corsi accademici sulla pace, è
come cercare un ago in un pagliaio.
Dal canto suo, Ghandi aveva invece definito la nonviolenza con
due termini positivi. Il primo è Satyagraha, ovvero attaccamento
alla verità e l'altro è Ahimsa, pratica dell'amore. Per Ghandi
quindi la nonviolenza non è resistenza passiva ma qualcosa di
positivo, attivo, è attaccamento alla verità e pratica dell'amore.
Ho poi scoperto un parallelo interessante tra questa concezione
di Ghandi e quella di Giovanni XXIII nella Pacem in terris, laddove
anche papa Giovanni definisce la pace non come assenza di guerra,
ma come la propria Dignità, garantita in pienezza a tutti gli
esseri viventi.
I
sei punti della nonviolenza, di Martin Luther King
A
questo punto vorrei esporre le osservazioni sulla nonviolenza
di Martin Luther King, articolate in sei punti:
1)
la resistenza non violenta è autentica resistenza. Credo che nell'immaginario
collettivo la nonviolenza sia sempre associata alla passività,
quasi che il nonviolento sia "uno che se ne sta lì con le mani
conserte a lasciarsi bastonare". Per Martin Luther King, al contrario,
uno che usa il metodo della non violenza soltanto perché ha paura
o perché è privo degli strumenti della violenza, non può dirsi
un vero non violento e cita Ghandi per sostenere che "se l'unica
alternativa alla violenza fosse la viltà, meglio sarebbe usare
la violenza".
In definitiva, per Martin Luther King, la resistenza non violenta
è la via dell'uomo forte, non un metodo di stagnante passività,
una sorta di "metodo del non far niente", di accettazione del
male quietamente e passivamente. Questo metodo è passivo solo
dal punto di vista fisico, nel senso che non ti scagli contro
l'avversario per fargli del male, ma è fortemente attivo dal punto
di vista spirituale.
E se nella nostra cultura, fortemente platonica, lo spirituale
si contrappone al materiale, nel linguaggio di un pastore amante
della Bibbia - come era Luther King - spirituale non è il mondo
dei pensieri avulso dalla pratica, ma è tutto quello che nasce
dalle proprie convinzioni e genera azione; che, prescindendo da
ogni forma di violenza, utilizza ogni mezzo possibile di pressione
per trasformarla la società. In definitiva la non violenza, non
è una non resistenza passiva al male, ma un'attiva resistenza
nonviolenta allo stesso male.
2)
la non violenza non cerca di sconfiggere o umiliare l'avversario,
ma piuttosto di conquistare la sua amicizia e comprensione. Non
si tratta di cambiare una bandiera con l'altra, ma di arrivare
ad una medesima logica: questo il non violento lo ottiene attraverso
azioni di non cooperazione o di boicottaggio.
Per ricorrere all'esperienza di Ghandi, la resistenza contro l'imperialismo
inglese è stata realizzata proprio con azioni, prima di non cooperazione
e poi di boicottaggio.
La teoria di fondo è infatti quella per cui i grandi imperi, o
i grandi dittatori, riescono a mantenere il potere contando proprio
sulla cooperazione più o meno convinta, più o meno cosciente,
di larghi strati delle rispettive popolazioni. E in questa prospettiva
è interessante la lettera di Ghandi contro il razzismo, nella
quale - correva l'anno 1938 - sosteneva che Hitler potesse continuare
a tiranneggiare la Germania e parte dell'Europa, soltanto perché
la stragrande maggioranza del suo popolo "o lo appoggia direttamente
o non fa niente per boicottarlo".
I mezzi della nonviolenza hanno perciò come obiettivo quello di
risvegliare un senso di vergogna morale nell'avversario.
Capite allora come la nonviolenza sia pensabile, concepibile,
praticabile solo da chi ha un'idea positiva dell'uomo, da chi
è convinto che l'uomo abbia una capacità morale, che a volte viene
sì deviata da tutta una serie di condizionamenti storici, ma che
a questi condizionamenti sia possibile opporne degli altri, grazie
ai quali riportarlo alle esperienze ultime della propria umanità
e quindi fargli sperimentare un senso di vergogna morale nei confronti
di tutta una serie di scelte indignitose. Il fine della non violenza
è la redenzione e la riconciliazione, non la contrapposizione
all'interno del genere umano. La conseguenza ultima della nonviolenza
è dunque quella della creazione della Comunità nell'amore; mentre
la conseguenza della violenza è la tragica amarezza della divisione.
3)
nella resistenza non violenta l'attacco è diretto contro il male
piuttosto che contro le persone, alle quali succede invece di
essere ingannate dal male.
4)
la non violenza è disponibilità ad accettare la sofferenza senza
vendetta, ad accettare le percosse dell'avversario, senza restituirle.
Nel caso di Luther King è evidente il riferimento a quel passo
del Vangelo in cui Gesù comanda ai suoi discepoli: se qualcuno
ti percuote una guancia tu offrigli anche l'altra (Mt 5,39). Questa
frase è stata spesso ridicolizzata e banalizzata - e probabilmente
ha dato origine all'erronea concezione della non violenza - come
se volesse dire: "vai avanti a prendere sberle all'infinito".
A chi legge con intelligenza il testo mattano, appare invece chiaro
che Cristo non intendesse chiedere ai suoi discepoli di subire
all'infinito, quanto piuttosto di non reagire in modo altrettanto
violento. Se al male ci si contrappone con il male, si entra in
una spirale che in definitiva si rivela distruttiva per tutti.
Mi ha recentemente incuriosito un documentario televisivo sul
modo con cui alcuni animali, in particolare le iene, si riconciliano
con gli avversari al termine dei combattimenti, anche dopo quelli
più cruenti: i vincitori leccano le ferite ai vinti! E ciò per
quella legge di sopravvivenza, insita nella natura e che non si
limita all'istinto di conservazione del singolo: gli animali,
anche quelli più feroci, sanno benissimo che non possono massacrarsi
tra di loro, se non vogliono rischiare l'estinzione della specie…
E sembra - incredibile? - che a questa legge, molto spesso faccia
eccezione proprio l'uomo!
La sofferenza secondo Martin Luther King - e lo capisce bene il
resistente - ha enormi possibilità di educare e di trasformare...
In un certo senso, questo, come altri passi della sua riflessione,
mi sembra vadano presi per fede: nel senso che non siano tanto
dimostrabili con un ragionamento logico e consequenziale, quanto
piuttosto sperimentati nella pratica. E' chiaro che quando Luther
King parlava di "una sofferenza che ha grosse possibilità di educare
e di trasformare la società" lo faceva non da intellettuale, seduto
dietro una scrivania, ma da resistente, sulla scorta dell'esperienza
del movimento antisegregazione che aveva guidato negli Stati Uniti
5)
la resistenza non violenta evita, non solo la violenza fisica
esterna, ma anche la violenza interiore dello spirito. Il resistente
non violento, non solo si rifiuta di sparare sull'avversario,
ma rifiuta anche di odiarlo, perché al centro della concezione
della non violenza sta il principio dell'amore.
Qui credo vada aperta un'altra parentesi per specificare in che
senso si può parlare di amore verso i nemici. Non certo nel senso
di qualche emozione sentimentale o affettiva. Neanche Cristo è
arrivato al punto di pretendere questo, che credo andrebbe oltre
le possibilità umane. Amore invece nel senso dell'agape greca,
cioè nel senso di una volontà redentrice nei confronti di tutti,
di una disposizione al sacrificio nell'interesse del bene comune,
un amore che, avendo un progetto di riconciliazione a livello
sociale, è incapace di una valutazione discriminante fra persone
degne e persone indegne, un amore che, a livello della vita quotidiana,
crede che anche i peggiori criminali di questo mondo abbiano diritto
alla vita.
Agape non è un amore debole e passivo, è invece un amore in azione
che cerca di preservare e di creare comunità anche quando qualcuno
cerca di romperle. In conclusione agape - cioè l'amore che sta
alla base della non violenza - significa riconoscere che tutta
l'umanità è coinvolta in un unico medesimo processo. Martin Luther
King sosteneva: "il male che faccio a mio fratello lo faccio a
me stesso, il male che lui vorrebbe fare a me lo fa a sé" e, a
proposito del razzismo, affermava che "i bianchi, rinunciando
a mandare i figli alle scuole pubbliche per non incontrare i neri,
privano i loro figli di un'esperienza universale".
Quando mi si comanda di amare, mi si comanda di restaurare la
comunità, di resistere all'ingiustizia e di andare incontro ai
bisogni degli altri, anche quando gli altri non se lo meritano,
spezzando una spirale distruttiva per tutti. Sempre Luther King
affermava: "lungo il corso della vita qualcuno deve avere giudizio
e moralità sufficiente per troncare la catena dell'odio. Questo
può essere fatto soltanto proiettando l'etica dell'amore al centro
delle nostre vite".
Una drammatica dimostrazione del contrario è lo scenario che abbiamo
sotto gli occhi: l'odio che sta progressivamente montando nel
mondo, scavando fossati, o erigendo mura invalicabili; è questa
spirale di violenza che non fa altro che girare su se stessa,
rischiando di strozzare tutti.
6)
la resistenza non violenta si basa sulla convinzione che l'universo
è dalla parte della giustizia, che esiste una finalità nell'universo,
che chi decide di mettersi dalla parte della non violenza e quindi
di assumere una logica antidistruttiva, trova dalla sua parte
un alleato cosmico.
Detto in parole più semplici: la logica che presiede alla natura
è una logica positiva; andare in questa direzione significa preservarsi,
significa andare nella direzione della crescita della specie;
ostinarsi ad andare in una direzione uguale e contraria vuol dire
condannarsi alla propria distruzione.
Si
fa in fretta a dire Pace
Per
meglio concretizzare il concetto di nonviolenza possiamo considerare
come nella storia dell'umanità si siano sviluppate diverse idee
di pace che si possono raggruppare in tre filoni - o scuole di
pensiero - principali: pace negativa, pace positiva, nonviolenza.
Anzitutto
un'idea negativa della pace
Per
pace negativa si intende la semplice mancanza di guerra, ossia
la pace che si realizza come pace armata, come tregua tra una
guerra e l'altra. In questo senso si potrebbe chiamare periodo
di pace il cinquantennio seguito alla seconda guerra mondiale.
Era pace nel senso di situazione di stallo, di non-conflitto diretto
tra due grossi blocchi, sebbene questi si facessero la guerra
nel resto del mondo, in una infinità di situazioni locali, e nonostante
stessero spendendo un'enormità di soldi per la corsa agli armamenti
(soldi che potevano essere impiegati per scopi più nobili).
L'idea di pace negativa condanna la violenza diretta, ma giustifica
pur sempre la guerra come strumento di "difesa" dalle aggressioni
e pone quindi quale valore irrinunciabile quello della libertà.
Al tempo stesso tace sulla violazione - all'interno del sistema
- della giustizia sociale, che evidentemente è meno palese, ma
non per questo meno grave.
Se improvvisamente si risolvessero tutti i conflitti in atto -
in questo momento sono 70 quelli ufficialmente riconosciuti: tra
questi non compare la guerra in Iraq, mai "dichiarata" e perciò
non riconosciuta e non vincolata al trattato di Ginevra - (e a
parte il fatto che esploderebbe una crisi economica che non riusciremo
più a controllare), in questa logica, potremmo affermare che finalmente
nel mondo ci sarebbe la pace… !!!
Peccato che siano nientemeno di 845 milioni le persone affamate
nel mondo, necessarie per garantire all'Europa e agli Stati Uniti
l'attuale standard di vita… e che siano 24 mila le persone che
muoiono ogni giorno di fame: un numero di vittime che nemmeno
tutte le suddette 70 guerre, messe assieme, riescono a fare.
Questo per denunciare quell'ingiustizia strutturale che soggiace
oggi al sistema-mondo, ma che viene contemplata come "situazione
di pace".
Ragionando in questa logica, oltre che con la diplomazia, la pace
si può difendere anche con gli eserciti: di conseguenza qualcuno
oggi definisce gli eserciti come "i soli veri grandi movimenti
per la Pace".
E, guarda caso, nello stesso stemma della NATO sono scritte queste
parole: alleanza per la pace. Si tratta quindi di una pace imperiale:
la vecchia pace romana riveduta e corretta, ma neanche troppo!
Oggi potremmo chiamarla: Pax Americana.
Una Pax Americana che ho sentito amaramente criticare, non solo
da molti rivoluzionari comunisti, ma anche da uno dei vescovi
più moderati dell'America Latina. Penso a monsignor Arizmendi,
attuale vescovo del Chiapas, che il 12 settembre del 2001 in un'intervista
comparsa su un quotidiano messicano ha affermato: "non c'è da
stupirsi se succedono cose come quelle dell'11 settembre e se
ci sono delle persone che odiano gli USA, visto come si comportano
gli Stati Uniti nei nostri paesi".
Questa concezione negativa della pace va' in definitiva nella
logica dell'antico moto latino: "se vuoi la pace prepara la guerra!".
In sintesi, dal punto di vista dei valori, possiamo dire che questa
idea di pace mette in primo piano il valore della libertà e del
benessere materiale - chiamati anche diritti umani di prima generazione
- ma sottovaluta completamente tutta un'altra serie di diritti
legati alla giustizia sociale
Una
secondo idea di pace è positiva
che
invece valorizza proprio i diritti legati alla giustizia sociale,
denunciando ogni forma di violenza insita nel sistema, dove -
tra l'altro - esistono molti serial killer con colletto bianco
e penna in mano, i quali si ostinano a firmare innumerevoli trattati
di libero commercio, accordi economici e politici, nella piena
consapevolezza che questo significa morte certa per milioni di
persone.
Ma la violenza di questo sistema mette in moto un circolo vizioso
perché, prima o poi, qualcuno di coloro che subiscono l'ingiustizia
del sistema deciderà di reagire. Credo che a nessuno si possa
chiedere di morire di fame, insieme ai propri figli, senza reagire,
anche mediante l'uso della violenza: E questo - sarò eretico -
ma lo dico da nonviolento.
E' interessante notare come la violenza strutturale del sistema
sia stata denunciata tanto nel documento della II Conferenza dell'Episcopato
Latinoamericano di Medelin, nel 1968, (in quel documento da cui
poi è nato il filone della teologia della liberazione), quanto
da un altro personaggio che pure dal punto di vista del comunismo
era al di sopra da ogni sospetto, e cioè da Giovanni Paolo II
nell'enciclica Centesimus annus.
Anche la pace positiva pertanto giustifica, in alcuni casi, il
ricorso alla violenza e questo può accadere appunto quando diventa
intollerabile il livello di violenza strutturale del sistema.
A propugnare questa "idea positiva della Pace" sono il più delle
volte i "movimenti per la pace", che al loro interno sono composti
da diverse anime; questo è anche il motivo per cui tali movimenti
prendano posizione per opporsi solo a determinate, specifiche,
guerre o minacce di guerre. Non di rado, vengono perciò accusati
di scendere in piazza a protestare soltanto quando a fare la guerra
sono gli Stati Uniti. Credo che una ragionevole spiegazione stia
nel fatto che ci si sente ovviamente più coinvolti contro una
guerra intrapresa o sostenuta dal proprio governo, o da un governo
alleato, piuttosto che da altri belligeranti, molto lontani sia
nello spazio, che nel livello democratico o nell'attuazione dei
diritti civili.
Esiste però anche una diversa chiave di lettura.:Nnon tutte le
guerre hanno le stesse motivazioni: alcune più di altre calpestano
la giustizia sociale e sono quelle che riescono a provocare maggiormente
la sensibilità di tali movimenti.
Esiste
infine la pace secondo la Nonviolenza
che
è evidentemente quella più radicale e profonda. La non violenza
si oppone ad ogni forma di violenza, sia diretta che strutturale
e non giustifica (mai o quasi mai, a seconda delle diverse impostazioni)
il ricorso ad una per eliminare l'altra: in questo modo spezza
il circolo vizioso della violenza rifiutando, per principio, l'idea
di poterla utilizzare.
Per fare questo la nonviolenza va ancora più nel profondo, nel
senso che rifiuta la violenza a livello culturale, quella violenza
nascosta nelle pieghe delle nostre convinzioni religiose, morali
e sociali. Questa violenza va' smascherata e rimossa; e a questo
proposito tutti dobbiamo fare un grosso esercizio.
La religione è forse un'alcova dove più frequentemente si annidano
questi convincimenti, ma la cosa, paradossalmente, non mi preoccupa
più di tanto perché sono convinto che ci stiano senza diritto
di cittadinanza, e rimuovere certe convinzioni, non può creare
pericoli: al contrario può aiutare le religioni stesse a purificarsi
da una serie di elementi spuri, ricevuti dalla cultura laica e
diventati così intrinseci al modo di vivere delle stesse religioni,
da non riuscire più a distinguerle.
In questo senso una seria riflessione su cosa significhi laicità
dello Stato credo che sia non soltanto utile, ma necessaria, anche
per risolvere una buona volta il problema della nonviolenza.
Inoltre mi sembra quanto meno attuale, visto il referendum che
ci è stato recentemente proposto: a me piacerebbe riuscire a vivere
in uno Stato dove ci si sappia confrontare, anche in maniera passionale,
accalorata, ma senza il bisogno di ricorrere per forza alle crociate!
Contrariamente alle altre due concezioni della pace, quella negativa
e quella positiva, che sono centrate prevalentemente su un solo
valore: rispettivamente la libertà e la giustizia, la pace auspicata
dalla nonviolenza comporta l'interdipendenza di una serie di valori
che tra loro non possono essere conflittuali: il diritto alla
vita, il diritto alla libertà, alla giustizia, all'equilibrio
ecologico, al benessere - che come ci ha insegnato Fromm - è cosa
diversa dall'avere.
Anche a questo proposito è interessante notare un parallelismo
con la Pacem in terris. Papa Giovanni in quell'Enciclica non mette
in concorrenza la Pace con altri valori… Una delle obiezioni che
ci siamo sentiti rivolgere più frequentemente negli ultimi anni,
almeno dalla guerra dell'Afghanistan in poi, è questa: "non si
può rinunciare alla libertà per salvaguardare la Pace." La libertà
quindi come valore che, per essere salvaguardato, giustifica anche
una guerra, con tutto quello che essa comporta.
Nella struttura della Pacem in terris, al contrario, si coglie
facilmente come papa Giovanni rifiuta a priori questo tipo di
impostazione: per lui quando si perde la Pace, la libertà è già
persa… La Pace che si costruisce con la guerra è una Pace da cimiteri.
Così la nonviolenza mette in evidenza come una società che sia
costruita su un solo valore è poco desiderabile, perché prima
o poi quello stesso valore sarà calpestato.
Credo che l'esperienza del secolo scorso ci abbia insegnato come
proprio questo sia stato il limite dei due grandi blocchi: da
una parte il blocco del mondo cosiddetto "libero", dall'altra
il blocco del cosiddetto "socialismo reale", fondati, da una parte
e dall'altra, su un'unica idea, entrambi incapaci di mettere in
relazione tutta una serie di valori che invece risultano necessari
all'interno di ogni società.
La
Nonviolenza: una via possibile
Dalla
seconda guerra mondiale, sono diversi gli esempi in cui è stata
messa in pratica la nonviolenza; ne ricordo solo alcuni.
La madre di tutte le resistenze nonviolente, anche nell'immaginario
di tutti, credo rimanga la liberazione non violenta dell'India
operata da Ghandi, ma anche la lotta contro la segregazione razziale
di Martin Luther King.
Altri esempi, forse meno noti, sono: le lotte non violente guidate
da Perez Esquivel e dal Serpaj in diversi paesi dell'America latina;
le lotte stesse di liberazione dei popoli dell'Europa orientale,
culminate nella caduta del mondo socialista sovietico e avvenute
sostanzialmente senza spargimento di sangue; la lotta di Chico
Mendes contro i grandi possidenti terrieri, ripresa e portata
avanti dai senza terra del Brasile; infine la grande lotta contro
l'aparteid del Sudafrica, capeggiata da Nelson Mandela.
Tre
aspetti concreti della non violenza
Termino
indicando tre aspetti concreti della nonviolenza.
Il
primo è quello della resistenza nonviolenta come stile di vita
personale
Per
riuscire a procedere lungo i sentieri della nonviolenza occorre
esercitarsi ad un tipo di virtù personale, che non è tanto una
preparazione all'eroismo del gesto estremo, ma piuttosto l'attuazione
di una nonviolenza quotidiana, fatta di piccoli sacrifici, che
sono a volte poco appariscenti, ma che sono fondamentalmente impostati
all'onestà e alla disciplina interiore. Questo ci permette di
resistere alle seduzioni di una cultura che, con una serie di
pubblicità subliminali, di spot e di messaggi, ci induce a dei
comportamenti sempre meno consapevoli, sempre più massificanti,
eppure al tempo stesso individualistici ed egoistici. Occorre
resistere a "processi di giustificazione", che mirano a convincerci
che non ci sono alternative all'attuale modello di sviluppo ed
ai suoi consumi. Una scelta di semplicità volontaria, non significa
diventare poveri perché ci siano beni sufficienti per tutti, ma
imparare a vivere una sobrietà che permetta a tutti di vivere,
in maniera dignitosa, e a non essere schiavi delle cose.
Il
secondo è la resistenza nonviolenta come attaccamento alla Verità
Intendendo
la verità con la V maiuscola, che è costituita dalla Dignità degli
altri, contro ogni discriminazione. Viviamo in una società che,
senza che ce ne rendiamo conto, sta cambiando l'abc stesso delle
nostre convinzioni più profonde. Quando sento che persino i bambini
parlano dicendo "gli extracomunitari", mi viene una grande tristezza,
perché mi rendo conto che abbiamo già minato la possibilità di
un futuro di Pace per la nostra società. Quando insegniamo che
gli altri non sono più fratelli e sorelle, ma sono "stranieri",
"extracomunitari", termine che ha un'assonanza particolare con
extraterrestri… credo che ci siamo già tirati la zappa sui piedi.
In questo senso bisogna avere il coraggio di mettere in discussione
una presunta legalità, che è tanto comunemente accettata, quanto
profondamente illegale. Non so dove andrà parare il magistero,
appena iniziato, di Benedetto XVI, ma mi auguro che porti a compimento
quanto va ripetendo in queste prime settimane e cioè che la Chiesa
deve avere il coraggio di abbattere le frontiere; e che (come
già aveva solennemente dichiarato, nella Pacem in terris, Giovanni
XXIIII) per il fatto stesso di appartenere tutti alla stessa umanità,
non esistono strutture - come le frontiere - in virtù delle quali
si possa impedire alle persone di spostarsi sulla terra, per andare
a cercare le condizioni necessarie per vivere una vita più dignitosa.
Da parte nostra, riconoscere questa verità con la V maiuscola
significa avere il coraggio di porre gesti di non-cooperazione,
di resistenza, di disobbedienza civile, di boicottaggio, anche
nei confronti di quelli leggi che, per quanto ovviamente "legali",
risultano profondamente immorali alla nostra coscienza.
Da questo punto di vista, permettetemi una battuta: rabbrividisco
sempre più quando sento che alcuni si arrogano il diritto di parlare
in nome dei "nostri valori e della nostra cultura".
È vero che ciascuno deve rifarsi alle proprie radici: ma se risalgo
alle mie radici, vale a dire alla storia concreta di persone che
sono vissute prima di me, amando e lottando sulle sponde del lago
di Como (io sono di Bellano) o comunque in Lombardia, nella stessa
Milano (dal cor in man) allora incontro… incontriamo esempi di
solidarietà creativa, che sono qualcosa di cui non possiamo che
andare fieri… di conseguenza, proprio per difendere le nostre
radici, dobbiamo avere il coraggio di attuare, in maniera nonviolenta,
anche gesti non sempre legali, nei confronti di certe leggi che
lo sono solo formalmente!
In questo campo abbiamo molte strade già aperte; penso anche al
commercio equo e solidale, quale forma di resistenza nonviolenta
al sistema liberista e che ormai è entrato nella coscienza di
molte persone, se però lo porteremo avanti non come una sorta
di banchetto benefico, ma con quella carica ideale da cui è nato.
Penso alla Campagna contro le Banche Armate, facilmente reperibile
su internet. Per spiegare in che cosa consiste questa campagna
premetto che la guerra oggigiorno non è più un incidente di percorso,
ma è diventata una necessità strutturale nel nostro sistema economico.
Siamo ormai giunti al punto in cui ogni 10 anni è necessario fare
una guerra. Basta pensare che il 30% del commercio mondiale gira
intorno al commercio di tutto ciò che è bellico (non intendo solo
le armi). Prendiamo la Valsella, che sino a qualche anno fa produceva
mine antipersona: se la Valsella, che fa parte del gruppo Fiat,
fosse andata in crisi avrebbe coinvolto, nel disastro, tutto il
settore dell'automobile italiano. Adesso ci sarebbe da studiare
per benino la questione delle cluster bomb e quali relazioni abbiano
con le industrie italiane. E' solo un esempio, per spiegare come
oggi l'economia di pace è necessariamente anche economia di guerra.
Le banche sono il perno della faccenda, finanziando tutta questa
compravendita, grazie ai fondi che noi vi investiamo. È partita
così una Campagna contro le cosiddette Banche Armate. L'iniziativa
studia annualmente il budget delle banche e, denunciando quelle
che finanziano questo commercio internazionale di armi, offre
la possibilità ai singoli clienti di valutare il rapporto con
la propria banca e decidere di conseguenza.
Penso al Consumo Critico e quindi alle varie forme di boicottaggio
che conoscete; ma penso anche a tante altre campagne, forse meno
note… penso alla campagna Sbilanciamoci, che studia ogni anno
la legge Finanziaria dello Stato e propone una Controfinanziaria.
A mo' di informazione: la finanziaria per quest'anno (2005) si
aggira sui 24 miliardi di euro, di cui 1 miliardo e 200 vanno
a finanziare le missioni all'estero, e altri 300 milioni di euro
servono per finanziare l'esercito in patria.
Il
terzo aspetto è quello di una resistenza nonviolenta intesa come
giustizia riparativa
Qui
davvero non posso inoltrarmi, come meriterebbe, in tutta la questione,
ma c'è un ufficio a Milano, ora credo privato, ma nato come emanazione
di una ASL, che lavora sul concetto di giustizia riparativa. Vale
a dire, mentre l'idea di giustizia che abbiamo in mente tutti
è fondamentalmente quella retributiva - "se fai del male devi
pagare" - la giustizia riparativa (che non si contrappone, né
sostituisce la legge) parte dal concetto, che chi fa un male l'ha
fatto non soltanto agli altri, ma anche a se stesso e ha leso
il patto di convivenza sociale; si pone pertanto l'obiettivo di
far incontrare vittime e aggressori, per ragionare insieme sul
perché è successa quella determinata cosa e su come sia possibile
riparare insieme. Sembra fantascienza… ma è realtà, a poche centinaia
di metri da casa mia!
Una delle promotrici di questo ufficio mi raccontava degli esempi
concreti del proprio lavoro: dalle cose più comuni, come le liti
tra coinquilini, a cose molto più gravi, come episodi di molestie
tra ragazzi a scuola e violenze sessuali in famiglia. Gli stessi
operatori hanno prestato il loro servizio anche nei Balcani, per
un lavoro di riconciliazione tra adolescenti di diverse fazioni,
che si erano sparati addosso…
Credo che - più di ogni teoria - ascoltare simili esperienze possa
aiutare a rimuovere tanti dubbi e pregiudizi che ancora potrebbero
restare circa l'efficacia dei metodi nonviolenti.
Così finisco da dove sono partito: dalla constatazione che dal
punto di vista della nonviolenza siamo davvero alla preistoria,
ma dobbiamo toglierci dalla testa che sia un sogno di pochi utopisti,
i quali non si renderebbero conto di come è fatta la realtà, perché
a confutare simili pregiudizi ci sono già molti esempi concreti,
in diversi campi. Se questi esempi non sono ancora conosciuti
o non sono ancora pienamente convincenti, è semplicemente perché
non sono ancora stati adeguatamente sviluppati e forse c'è qualcuno
che ha tutto l'interesse a tenerli nascosti.
Alberto
Vitali
(Testo
trascritto dell'intervento tenuto nell'ambito di un seminario
organizzato dall'Associazione Culturale Punto Rosso e promosso
dalla provincia di Milano, il 17 maggio 2005)
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