Piangere ad occhi aperti



Come milioni di italiani, anch’io ho scandito le ore di mercoledì 12 novembre, contandole sui grani di quel doloroso rosario che fu il susseguirsi delle notizie da Nassiriya: prima nella speranza di un ridimensionamento dello scarno, quanto allarmante, comunicato dell’Ansa; poi nello sconcerto delle immagini che iniziavano ad arrivare via satellite; infine nella sofferenza di vedere i numeri trasformarsi in volti e sul teleschermo, dietro le divise e le bandiere, apparire le storie di persone concrete e quelle delle loro famiglie. Un dolore sincero, come sincero fu il disappunto nel rendermi immediatamente conto che, ben lungi dall’insegnare qualcosa, questa nuova tragedia della ferocia umana, veniva già strumentalizzata a fini politici. Così dal piccolo schermo, fiumi di parole si riversarono nelle case degli italiani: parole cariche di retorica patriottica, di retorica militare, di convincimenti già espressi migliaia di volte – al di là e al di qua dell’oceano – a partire dall’11 settembre 2001. Parole tanto cariche di sentimentalismo quanto prive di rispetto nei confronti dei veri sentimenti, che avrebbero piuttosto esigito grande discrezione, riflessione e un po’ di silenzio. La discrezione, però, è di fatto impossibile quando, per giorni, tutte le trasmissioni, di qualsiasi genere, dai telegiornali ai varietà, parlano incessantemente della stessa cosa, senza smettere di gareggiare sul ring dell’audience. Così nemmeno gli aspetti più intimi della sfera privata vengono salvaguardati: tutto quanto si riesce a scovare diventa di dominio pubblico. La tentazione di spegnere era forte e nei giorni successivi avrebbe prevalso in me. Ma in quelle prime, drammatiche, ore era comunque difficile staccarsi dal piccolo schermo. Forse perché la situazione era ancora in evoluzione; forse perché – inconsciamente – era un modo di sentirsi vicini a quelle famiglie gettate di colpo nel lutto; forse anche per il desiderio di capire se un tale tragico evento avrebbe finalmente imposto una svolta alla politica estera del nostro paese… Fu così che a tarda sera ascoltai finalmente un’osservazione intelligente, e degna di alta considerazione, da parte di un bravo giornalista, Vittorio Zucconi, corrispondente de La Repubblica dagli Stati Uniti: "dobbiamo saper piangere con gli occhi aperti". Questo, a mio avviso, è il vero punto focale di tutta la questione: saper vivere il dolore, non in modo irrazionale, tale da scatenare in noi istinti primordiali e selvaggi, ma ricavando da questa, e da ogni altra tragedia, delle lezioni di vita, disposti a metterci in discussione, per assumerci le nostre responsabilità e agire di conseguenza. Vale a dire: la disponibilità ad ammettere gli errori e a cambiare rotta di fronte all’evidente inefficacia dei mezzi fin qui utilizzati. Ma… niente. Anzi, la reazione è stata giocata pigiando – pressantemente - sul tasto dell’emotività, grazie ad una capacità altamente professionale di martellare l’opinione pubblica con una sequenza ininterrotta di scene, che andavano dalle vittime alle loro famiglie, dai commilitoni feriti, che ripetevano "vogliamo tornare in Iraq", alla spiegazione che "il nostro esercito è là solo per fare del bene"… tanto da suscitare, infine, la netta sensazione che il vero obiettivo, inconfessato, fosse quello di non lasciare il tempo necessario per pensare. Pensare, si sa, in certe situazioni può risultare alquanto pericoloso, perché fa riesumare certi ricordi, esprimere dei giudizi e chiedere conto di determinate responsabilità. In questa occasione, ad esempio, avrebbe certamente ricordato agli italiani che non solo la stragrande maggioranza di essi era contraria ad un nuovo, quanto illegittimo, intervento armato "contro" l’Iraq (e i segni erano evidenti nei primi mesi dell’anno); ma che, secondo un sondaggio del Corriere della Sera, il 60% dei nostri connazionali disapprova anche l’invio di militari per l’attuale "missione". Ciò avrebbe obbligato quanti si erano assunti la grave responsabilità di questa decisione (non solo il governo, ma anche alcuni partiti d’opposizione) ad assumersi – quale stretta conseguenza - anche la responsabilità di queste morti. Invece… niente. Giocando d’anticipo, e d’attacco, hanno eluso abilmente il problema, mirando piuttosto a colpevolizzare quanti avrebbero dissentito dal "pensiero ufficiale", ostinandosi a ribadire - come il Card. Martino, presidente del Pontificio Consiglio "Giustizia e la Pace" - che "se avessero ascoltato le parole del Papa…" (anziché spellarsi le mani ad ogni suo discorso, per fare poi, puntualmente, l’esatto contrario: amnistia, immigrati e guerra) "…ora non saremmo a piangere questi morti". Dirlo, anche in maniera forte – è bene precisarlo - non significa mancare di rispetto alle vittime, come qualcuno vorrebbe invece insinuare, per tacitare ogni legittima accusa. Così pure non reca offesa alle vittime il ribadire che la guerra ed ogni altra forma di violenza per quanto "legittimata" o "istituzionalizzata" non è e non sarà mai una buona soluzione a nessun problema, neanche al terrorismo, e la triste realtà che abbiamo ancora di fronte, in Afghanistan come in Iraq, ce lo sta a dimostrare. E a nulla servirà l’ostinazione a dipingere i terroristi come mostri, illudendo noi stessi che non siano in qualche modo un frutto - degenere, ma pur sempre conseguente – di una complessa e altrettanto perversa maniera di concepire e praticare la politica internazionale: meglio sarebbe tentare di capire cosa li spinge ad agire in questo modo, altrimenti non saremmo più saggi di quelle autorità, di manzoniana memoria, che pretendevano di sconfiggere la peste a Milano, praticando la caccia agli untori. Così dicendo però, e me ne rendo conto, sto postulando un passaggio non da poco: quello dall’istinto alla razionalità. Chiedo troppo? Può darsi; ma, con buona pace di chi si ostina a descrivere i vari Bin Laden come gli orchi delle fiabe, vorrei vederci chiaro (è un nostro fondamentale e inalienabile diritto, da cittadini liberi e sovrani: non dimentichiamolo) e non mi accontento di certe spiegazioni mitologiche. Chi sono e cosa vogliono in realtà i "terroristi"? Per credere alla tesi di Bush, per cui "agiscono così perché sono gelosi della nostra libertà e democrazia", si dovrebbe abdicare totalmente ad ogni facoltà intellettiva. E’ certamente una buona soluzione per chiunque abbia bisogno di risposte semplici e immediate, ma non risolve assolutamente niente, lasciando aperti tutti gli interrogativi. Anzi, aggiungendone uno... Personalmente sono piuttosto sconcertato dal grande numero di persone, su cui possono contare le diverse organizzazioni terroristiche, disposte a sacrificarsi come kamikaze... Possiamo pure chiamarli criminali perché lo sono, ma definirli vigliacchi mi risulta alquanto azzardato (sebbene molti lo facciano), perché non è la stessa cosa mettere una bomba e poi scappare (come a volte è successo in Italia: ricorre in questi giorni l’anniversario della strage di Piazza Fontana a Milano) o farsi invece saltare, certi soltanto della propria morte, senza avere nemmeno il tempo per rendersi conto se un tale sacrificio abbia raggiunto l’obiettivo sperato. Mi risulta altrettanto difficile pensare al fanatismo religioso quale unico possibile detonatore: non tutte queste persone, infatti, hanno frequentato scuole di indottrinamento teologico; in particolare ricordo una ragazza palestinese, ventenne e infermiera… Ritengo peraltro che nessuna religione, da sola, sia sufficiente a generare e a spiegare un così largo fenomeno di distruzione e auto-distruzione. Per alcuni la cosa si spiegherebbe benissimo col fatto che siamo in presenza di una cultura molto diversa dalla nostra, capace di un diverso rapporto con la morte stessa: "non ritengono la morte un problema insormontabile, perché credono nella resurrezione dei giusti". Già, e noi?… Non ho spiegazioni, ma questo non significa che sia disposto ad accontentarmi delle favole, così come non sono disposto ad accettare i loro metodi criminali o a liquidare come "pazza" (paroletta che evochiamo volentieri ogni qualvolta non sappiamo spiegarci qualcosa che turba la nostra serenità: dall’omicidio della porta accanto alle imprese di Al Qaida…) ogni persona che, per la causa in cui crede, sia disposta anche al sacrificio supremo. Non sono perciò disposto ad accondiscendere a questa fretta, tutta "occidentale", di eludere la questione; anche perché non vorrei che nascondesse l’intuizione scomoda che, al di là dei loro metodi assolutamente condannabili, quello a cui ambiscono sia in realtà qualcosa di assolutamente lecito: essere padroni in casa propria. Vale a dire un medio oriente libero da ogni forma di dominazione straniera, in cui vivere, non già secondo un concetto di "democrazia" importato con le bombe dall’occidente, ma secondo il più sacro e internazionalmente sancito "principio all’autodeterminazione dei popoli", di cui però più nessuno parla e le nostre "democrazie" sembrano aver dimenticato. O censurato? Un medio oriente libero da spietate dinastie monarchiche e da dittatori, prima sostenuti e poi bombardati (insieme ai rispettivi popoli) dai nostri paesi, a seconda degli interessi del momento. Un medio oriente, le cui popolazioni possano finalmente godere delle ricchezze giacenti nel loro sottosuolo, oggi appannaggio delle mafie locali e delle compagnie petrolifere multinazionali. Bin Laden e Saddam Hussein… sappiamo chi sono, ma se scoprissimo (e non è certo un’ipotesi remota) che le persone su cui possono contare non stiano, in realtà, combattendo per loro, ma per un proprio sogno di libertà; per offrire alle masse più povere dei rispettivi paesi la possibilità di usufruire dei beni di cui sono legittime proprietarie; per il desiderio di vivere secondo i dettami della propria cultura e religione e non secondo gli usi ed i costumi occidentali… cose tutte che noi chiamiamo semplicemente e solennemente "diritti": allora come la metteremmo? Certo "il fine non giustifica i mezzi" (almeno per noi, meno per chi oggi è a capo della politica internazionale), ma nemmeno l’iniquità dei mezzi può essere un alibi per negare la legittimità dei fini; soprattutto quando questa negazione va nella linea dei nostri interessi… Per questo ritengo che indagare, riflettere, discutere su queste cose non significhi mancare di rispetto alle nostre vittime. Dire che questa guerra – iniziata e mai finita: altro che 1° maggio! – fu motivata da una menzogna (le armi di distruzione di massa); dire che fu un errore perché non ha risolto niente, ma, al contrario, ha precipitato il medio oriente ed il mondo in una spirale di violenza di cui non vediamo immediate vie d’uscita; dire che per quanto si voglia fare del bene, non si può andare a farlo al seguito di un esercito occupante e sotto il comando di una nazione belligerante, con le armi in pugno, perché così non si può essere capiti e quindi non ha senso; ritenere che per fare le "crocerossine" del mondo abbiamo altri strumenti più qualificati dell’esercito… non è una mancanza di rispetto nei confronti delle nostre vittime. Lo è piuttosto la strumentalizzazione della loro morte per coprire con un velo di emotività scelte sbagliate, gravi, di cui non si vuol rendere conto al "popolo sovrano" e in cui, anzi, si intende perseverare. Lo è l’utilizzo della loro tragedia per riesumare una certa retorica patriottica, che vorrebbe la nazione fondata più sull’esercito che sul lavoro. Non prendiamoci in giro: da che mondo è mondo, esercito significa guerra e lavoro Pace, quotidianità, benessere. Se oggi non deve più essere così (e me ne rallegrerei), allora riformiamo l’esercito: addestriamoli ad essere corpi di intermediazione pacifica, a costruire ponti, ospedali e quant’altro senza bisogno del fucile. Ma soprattutto ripensiamo l’assetto internazionale di una politica e di una giustizia planetaria che non abbiano più bisogno di eserciti. Non si tratta di sogni strampalati di poveri illusi o pii imbecilli: la nonviolenza è ormai una scienza studiata e non bisogna nemmeno essere troppo intelligenti per capire che "chi sta bene a casa propria" non sente alcun bisogno di andare a "farsi saltare in casa degli altri". La nonviolenza è in cammino: il nostro modo concreto di celebrare le vittime di Nassiriya sarà quello di sforzarci perché essa diventi sempre più cultura, pratica, esigenza della gente, perché attraverso la gente sfondi finalmente la sfera ottusa della politica e diventi pratica internazionale. Per questo ci inventeremo ogni occasione "opportuna e non opportuna per annunziarla, ammonendo, rimproverando, esortando, con ogni magnanimità e dottrina" (cfr. 2 Tm 4,2) con la nostra flebile voce… Confesso che ero arrivato a questo punto dell’articolo - poi una breve pausa per partecipare al Consiglio Nazionale di Pax Christi Italia - quando, potente nella sua debolezza, autorevole e sorprendete al tempo stesso, sebbene più volte ci avesse già fatto trasalire e sognare, superandoci nella profezia, la voce del Papa si è alzata in termini sempre più concreti ed espliciti, per dichiarare in faccia ai potenti del mondo, esortare i responsabili delle grandi religioni, e richiamare specialmente noi cattolici alle loro responsabilità di cristiani: "Viene Cristo, il Principe della pace! Prepararci al suo Natale significa risvegliare in noi e nel mondo intero la speranza della pace. La pace anzitutto nei cuori, che si costruisce deponendo le armi del rancore, della vendetta e di ogni forma di egoismo. Ha grande bisogno di questa pace il mondo! Penso in modo speciale con profondo dolore agli ultimi episodi di violenza in Medio Oriente e nel Continente africano, come pure a quelli che la cronaca quotidiana registra in tante altre parti della Terra. Rinnovo il mio appello ai responsabili delle grandi religioni: uniamo le forze nel predicare la non-violenza, il perdono e la riconciliazione! "Beati i miti, perché erediteranno la terra" (Angelus di domenica 30 novembre 2003).

Alberto Vitali



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