Per
chi - come noi - guarda alla situazione latinoamericana da lontano,
è facile cadere in ingenui entusiasmi, suscitati dai cambiamenti
pur oggettivi che si sono dati, nell'arco d'un ventennio, un po'
ovunque nel subcontinente. Tentazione particolarmente forte per
coloro che da più anni accompagnano con interesse e passione
le dolorose ed eroiche vicende degli amici e compagni di là.
Proprio la passione, però, può rivelarsi una cattiva
consigliera; soprattutto quando ha magnificamente resistito ai
tempi e all'età e viene il momento, nella vita di ciascuno,
di fare bilanci, che - per ragioni squisitamente umane - abbiamo
bisogno siano positivi... e cioè, per poterci dire che
tante fatiche e lotte non sono state inutili. Almeno là.
Al
contrario, chi guarda la situazione dal di dentro - un "di
dentro" geografico e sociale, ma anche storico e politico
- rischia, altrettanto facilmente, di cadere nella delusione e
nello sconforto, con conseguente risentimento, perché il
pur percettibile miglioramento della condizioni sociali e politiche
non corrisponde appieno all'ideale agognato. Il "sol dell'avvenire"
rimane quindi nell'avvenire, mentre i vecchi rivoluzionari percepiscono
sempre più inesorabilmente che, anche a loro, il tempo
sfugge come sabbia tra le dite.
E' questo il dilemma che, per la prima volta, mi pone in un sofferto
disaccordo con carissimi amici salvadoregni, coi quali ho condiviso
pienamente e per anni, non solo l'analisi e i sogni, ma anche
diverse iniziative volte a incidere concretamente nella quotidianità
di quel paese.
Da
quasi due anni, infatti, in El Salvador la situazione politica
è cambiata e il piccolo paese centroamericano si trova
nuovamente a vestire il ruolo di osservatorio interessante e privilegiato
della più ampia realtà che lo circonda.
Appoggiato
da una coalizione formata dall'antico frente guerrilliero, l'FMLN
(Fronte Farabundo Martí per la Liberazione Nazionale),
da una formazione della società civile, Amigos de Mauricio
e persino da alcuni industriali illuminati, che avevano perfettamente
capito come ARENA (Alleanza Repubblicana Nazionalista, partito
fondato dal maggiore D'Aubuisson, mandante riconosciuto dell'assassinio
di Mons. Oscar Romero), al governo ininterrottamente da 20 anni,
li stesse portando al disastro... e soprattutto da una determinazione
popolare senza precedenti, il 1 giugno 2009, Mauricio Funes ha
finalmente dato vita al primo governo democratico nella storia
recente di El Salvador. Il giorno successivo però si è
svegliato presidente di uno dei paesi più indebitati e
legati da scellerati accordi commerciali con l'estero, di tutta
l'America Latina.
Ed
è precisamente qui che affonda le radici il dilemma. Che
fare? Quali misure economiche si possono realisticamente prendere,
per dar respiro a un popolo tanto allo stremo che su una popolazione
di appena 5,8 milioni di abitanti, almeno settemila tentano di
migrare ogni giorno? Quale esempio seguire? Quello del venezuelano
Chávez o quello del brasiliano Lula? Ebbene, Funes ha pragmaticamente
optato per questa seconda possibilità, rinunciando ad entrare
nell'ALBA (Alleanza Bolivariana per i Popoli della nostra America),
a fianco dello stesso Chávez e del boliviano Morales e
alleandosi direttamente con Lula e Obama; perdendo, in questo
modo, il consenso di una parte significativa dell'avanguardia
militante, che ha immediatamente urlato al tradimento.
Che dire? Ai posteri l'ardua sentenza. Sta di fatto che in questi
due anni le condizioni di vita dei salvadoregni sono effettivamente
- seppur lentamente - migliorate, a partire dai settori su cui
hanno tradizionalmente puntato tutte le rivoluzioni del continente,
a cominciare da quella castrista: salute e educazione. Molto,
troppo resta ancora da fare, ma a questo proposito alcune considerazioni
s'impongono.
La prima è di ordine strettamente politico. Con buona pace
dei compagni del Frente, che sostengono d'essere stati gli artefici
della vittoria di Funes, questo non è completamente vero,
perché come ricordato si trattò di una coalizione
abbastanza eterogenea. E quando si fanno accordi in vista delle
elezioni, vanno poi rispettati. Non va inoltre dimenticato che
appena cinque anni prima, un candidato di prima grandezza - non
solo politica, ma anche morale - dello stesso partito, l'ormai
compianto Schafik Hándal, fu battuto da un giornalista
sportivo qualsiasi. E' vero che in quell'occasione non mancarono
i soliti brogli, ma essendo stati presenti ad entrambe le consultazioni,
in veste di osservatori elettorali, possiamo attestare che la
determinazione del popolo nel sostenere la candidatura di Funes
non ha precedenti.
La
seconda è invece di ordine pratico. El Salvador - come
altri paesi centro o latinoamericani - non è la Bolivia,
né tanto meno il Venezuela. Essere presidente della Bolivia,
infatti, significa stare seduto sul gas, come esserlo del Venezuela
sul petrolio, da cui in gran parte dipendono gli USA. Essere presidente
di El Salvador significa essere invece seduto su una montagna
di debiti, in un paese che non dispone di molte risorse naturali
e quelle poche (miniere e acqua) sono già appaltate a ditte
straniere con contratti assolutamente vincolanti, la cui rescissione
costerebbe cifre impossibili. Neanche a parlarne poi di atti di
forza, quali nazionalizzazioni o il rifiuto di onorare i debiti
internazionali... per il semplice motivo che mancano tanto i mezzi
quanto la forza. Per non dire che il caso del vicino Honduras,
con il golpe di Micheletti ai danni di Zelaya (un liberale illuminato,
ma non certo comunista) ha fatto scuola.
Ciò che però mi colpisce maggiormente e ritengo
debba far riflettere seriamente i settori politici della sinistra
(non solo salvadoregna) è che ad urlare al tradimento siano
soltanto le avanguardie, mentre il popolo non demorde dall'appoggiare
il "suo" presidente. In El Salvador quindi rischia di
ripetersi il copione già visto in Brasile, dove al termine
del primo mandato di Lula, le avanguardie lo davano per finito,
mentre il popolo non soltanto lo ha rieletto una seconda volta,
ma non potendolo fare per la terza volta ha comunque seguito le
sue indicazioni di voto.
E allora - siamo onesti - avanguardie di che? Il rischio, pesante
e inaccettabile, è quello di suonarsela e cantarsela, mentre
la gente - con maggior senso pratico, ma non per questo meno idealista
- sta già battendo altre strade, nell'indomita ricerca
di un modello di stato socialista possibile.
Non posso dimenticare, a questo proposito, il realismo con cui
le donne di una comunità contadina montanara di repoblados
(profughi, andati a occupare villaggi i cui precedenti abitatori
furono sterminati), il giorno seguente all'elezione di Funes,
ci dissero: "ahora se dará la vuelta a la tortilla".
"Adesso si ribalterà la situazione. Perché
molti di quelli che lo hanno sostenuto, pretenderanno tutto e
subito, senza capire che ci vuole tempo e fatica per cambiare
le cose. Noi lo sappiamo per esperienza e resteremo al suo fianco".
Discorsi
del genere, peraltro, li abbiamo sentiti anche tra i banchi del
mercato centrale di San Salvador e nelle baracche della zona marginale;
per non dire che chi lavora nelle carceri ci ha raccontato come
le cosiddette maras (bande giovanili di strada, accusate a ragione
e a torto della violenza che infesta il paese) ammettano di trovarsi
in difficoltà, perché parte delle rivendicazioni
utilizzate in passato per giustificare le proprie azioni sono
ora effettivamente prese in considerazione dal governo.
Al
contrario, non si può nemmeno negare che persino una rivoluzione
gloriosa come quella cubana, mostra ormai chiari i segni di alcune
lacune strutturali.
Quando, infatti, il comandante en jefe, dovendo cedere il comando
per ragioni di salute, non trova di meglio che affidarlo al fratello
"più giovane", di 75 anni... non solo è
cosa degna delle migliori tradizioni familiari dittatoriali, ma
suona a monito evidente che, in 50 anni di rivoluzione, il potere
è stato talmente oligarchico da non essere stati capaci
di formare le nuove generazioni. Questo non è socialismo.
Così come non è da militanti di sinistra cedere
al fascino retorico dell'"uomo della provvidenza", perché
un conto è il bisogno di leader - culturalmente e professionalmente
ben preparati e moralmente integerrimi - altro sono i vari "culti
della personalità".
Sono questi - per dirla parafrasando Galeano - gli attuali "nervi
scoperti dell'America Latina". E a nulla serve ripetere,
come slogan consunti, ragioni che sono senz'altro vere in certe
situazioni e determinati momenti, ma finiscono fatalmente per
trasformarsi in alibi quando si vorrebbe accamparle sempre e comunque.
Vale a dire: l'imperialismo, gli embarghi, i complotti nazionali
e internazionali...
Allora che fare? Coerentemente a quanto detto finora, non credo
che alcuno possa pretendere di avere soluzioni definitive e universalmente
valide; tanto meno io. Alcune osservazioni però mi sembrano
possibili.
Anzitutto, mettersi in ascolto dei popoli. A partire da quelli
indigeni, che da quasi vent'anni stanno cercando di spiegarci
che è possibile vivere in maniera diversa e conservano
un fiuto della vita e della storia, spesso compromesso per i nostri
nasi assuefatti alla polvere dei libri. Anche di quelli migliori.
Per questo però è necessario non impedire il libero
confronto e la libertà di stampa. Tutto quello che abbiamo
detto per Anna Politkovskaja nella Russia dell'ex-compagno Putin,
deve valere anche in America Latina. All'imperialismo della comunicazione
si reagisce con una maggiore circolazione delle idee, mentre i
monopoli mediatici (anche quelli suppostamente rivoluzionari)
sono forme di dominio a qualsiasi latitudine.
Così come non bisogna pretendere di forzare quelle scelte,
anche economiche, che in determinate situazioni appaiono realisticamente
premature.
A
ciò si aggiunga: un'analisi lucida e critica di 50 anni
di rivoluzioni fallite e del deterioramento di quelle vinte (URSS...
Cuba, Nicaragua). Non già per il gusto sterile e sospetto
di tanti attuali "mea culpa", ma perché il socialismo
avrà un futuro soltanto se avremo la capacità di
discernere gli errori del passato.
Non potrà inoltre mancare una seria autocritica per il
mancato appoggio a certe forme di resistenza: la "Campagna
500 anni di resistenza indigena, negra e popolare"; il Movimento
Macroecumenico e persino lo Zapatismo, che se in realtà
fu molto appoggiato all'inizio, ora invece è piuttosto
dimenticato.
Ancora: una convergenza - finalmente libera da vecchi pregiudizi
- fra tutte le diverse ideologie e/o "mistiche" alternative
al capitalismo/neoliberismo. E quindi l'elaborazione di una nuova
concezione antropologica, che non potrà prescindere da
una rinnovata comprensione ambientale e da quella spiritualità
così "naturale" e congenita dei popoli latinoamericani.
Infine,
la lungimiranza d'intraprendere processi economici che siano davvero
sostenibili, perché radicati nell'esperienza dei popoli
e non fondati semplicemente su teorie macroeconomiche, di qualsiasi
genere. Ragion per cui dovremo mettere in conto la pazienza necessaria
verso i tempi richiesti da determinati processi storici.
Allo sguardo d'insieme, mi sembra quindi che il panorama centroamericano
presenti oggi situazioni e possibilità assai diverse da
paese a paese. Forse non sarà possibile elaborare una formula
univoca, senza che ciò mini la realizzazione di un processo
comune. Sorprendentemente e - concediamocelo! - con un po' di
emozione, si rivela tutt'ora valida, ad anni e centinaia di migliaia
di chilometri di distanza, l'intuizione di Enrico Berlinguer del
"socialismo nella libertà e nella molteplicità".
Alberto
Vitali
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