Come
ormai da tradizione, anche quest'anno il 24 marzo molte diocesi
e istituti religiosi celebreranno una "Giornata di preghiera e
digiuno" per ricordare i missionari martiri e tutti coloro che
hanno dato la vita per annunciare il vangelo. La data ovviamente
non è casuale: quando, infatti, venne ideata, nel 1993, dal Movimento
Giovanile Missionario delle Pontificie Opere Missionarie italiane
(POM), la scelta cadde sull'anniversario dell'assassinio dell'arcivescovo
salvadoregno, Mons. Oscar Arnulfo Romero, che nel 1980 fu ucciso
mentre stava celebrando la messa. Quando poi il 7 maggio 2000,
nell'ambito delle celebrazioni dell'anno giubilare, Giovanni Paolo
II presiedette una "Commemorazione ecumenica dei testimoni della
fede del secolo XX", l'iniziativa ricevette la sua consacrazione
definitiva e si diffuse velocemente in tutto il mondo.
La
figura di Romero, del resto, già da tempo si era trasformata in
icona simbolo dei martiri moderni, a partire da quelli della sua
stessa Chiesa. Nei soli tre anni in cui fu alla guida dell'arcidiocesi
salvadoregna, infatti, erano stati ben cinque i sacerdoti uccisi,
per non parlare delle decine e poi centinaia di catechisti laici;
delle quattro missionarie statunitensi barbaramente massacrate
nel dicembre di quello stesso anno; di Marianella García Villa,
fondatrice della Commissione per la difesa dei Diritti Umani e
sua stretta collaboratrice, torturata e assassinata tre anni dopo,
fino a Ignacio Ellacuria e ai suoi cinque compagni gesuiti dell'Università
Centroamericana (UCA), assassinati insieme a due donne la notte
del 16 novembre 1989. Se poi allarghiamo lo sguardo oltre i confini
del piccolo stato centroamericano, i martiri degli ultimi decenni
diventano una vera folla.
Come
non pensare, ad esempio, a Mons. Juan Gerardi, ucciso in Guatemala
nel 1998, per aver coordinato un progetto di Recupero della Memoria
Storica (REMHI), nell'estremo tentativo di dare nome e una degna
sepoltura alle centinaia di migliaia di vittime della guerra civile
e permettere un processo di riconciliazione nazionale, nonché
di assistenza psicologica ai sopravvissuti. O a Mons. Angelelli,
che all'altro estremo del continente, in Argentina, si era opposto
fin dal principio alla pratica delle "scomparse" (desaparecidos)
e per questo fu eliminate in uno "strano incidente" di auto, come
lo definì l'Osservatore Romano. E l'elenco potrebbe continuare...
L'aspetto più curioso (o inquietante?) è che, sebbene il popolo
cristiano già li celebri - non solo nell'intimo delle coscienze,
ma anche nelle chiese e nelle piazze - nessuno di essi sia stato
ancora proclamato ufficialmente martire.
A
tutt'oggi, infatti, il "processo canonico", è in corso soltanto
per Mons. Romero e per quanto siano passati ben 32 anni non si
sa quando e come si concluderà... con buona pace delle centinaia
di migliaia di appelli che continuano ad arrivare a Roma da tutto
il mondo. Come sono lontani i tempi in cui i papi proclamavano
la santità di un testimone della fede limitandosi a "ratificare"
il riconoscimento già attribuitogli dal popolo cristiano! Ora
però sembrerebbe che gli stessi vescovi facciano fatica a farsi
ascoltare: due anni fa, infatti, in occasione del 30° anniversario
di quel martirio, fu la stessa Conferenza episcopale salvadoregna,
appoggiata dai vescovi degli Stati Uniti a sollecitare una "veloce
conclusione" del processo. Ancora una volta però la risposta fu
il silenzio, sebbene i soliti ben informati (e tra loro qualche
vescovo) assicurino che lavori dovrebbero essersi già conclusi
positivamente, fin dai tempi in cui era Prefetto della Sacra Congregazione
per la Dottrina della Fede l'allora Card. Ratzinger.
La
cosa non può non colpire se si pensa che nei suoi 27 anni di pontificato
Giovanni Paolo II ha proclamato ben 1.338 beati e 482 santi. Senza
cedere a banali quanto tendenziose dietrologie, è però chiaro
che giunti a questo punto qualche riflessione s'impone, se non
altro perché la tradizionale prudenza della Chiesa, non è sufficiente
da sola a spiegare certi ritardi, soprattutto se pensiamo ad alcune
beatificazioni di "massa", come quella che nell'ottobre 2007 ha
portato sugli altari 498 spagnoli uccisi dagli oppositori del
franchismo, per cui riesce francamente difficile pensare che si
sia potuto procedere con altrettanta meticolosità nell'indagare
la vicenda personale di ciascuno. Certo il "martirio latinoamericano"
ha una peculiarità che sembra mettere in crisi tanto il diritto
canonico quanto - e non a caso - l'agire stesso della Chiesa.
Il diritto canonico, perché la sola motivazione che a tutt'oggi
riconosce per attestare il martirio è l'"odium fidei" e cioè che
si venga uccisi per il fatto stesso di essere cristiani. Condizione
lapalissiana quando si cade sotto i colpi di regimi dichiaratamente
atei, come potevano essere quelli dell'est europeo del secolo
XX o di gruppi estremisti dei nostri giorni; molto meno quando
gli aguzzini si professano anch'essi cristiani, appartengono a
certe dinastie che per tradizione hanno persino il cappellano
familiare (l'oligarchia salvadoregna) o giungono al cinismo di
garantire assistenza spirituale alle proprie vittime (la dittatura
brasiliana).
In
altre parole: come si potrebbe proclamare "martire per la fede"
chi venisse ucciso dai propri correligionari? Obiezione apparentemente
inoppugnabile, se non fosse per quanto sostenuto dal teologo gesuita
Jon Sobrino - superstite alla UCA, perché assente la notte del
massacro - che prima ha argomentato: "secondo tale logica nemmeno
Gesù potrebbe essere proclamato martire, perché la sua morte è
stata voluta nientemeno che dai rappresentanti ufficiali della
sua religione; quei sommi sacerdoti la cui legittimità né lui
né i vangeli hanno mai negato.
E
in realtà, Gesù non fu condannato perché credeva in Dio, ma per
"come" ci credeva"; poi ha coniato il termine "martiri gesuani",
per definire coloro che non potrebbero essere definiti tali in
forza della norma canonica, ma "soltanto" alla maniera di Gesù.
Così però, diventa fin troppo evidente come il concetto di fede
- o quindi di martire (testimone) della fede - vada oggi ricompreso
nella sua complessità. Avere fede, infatti, non può significare
semplicemente "credere che Dio esista" (come già ammoniva l'apostolo
Giacomo: "anche il diavolo ci crede e trema!" Gc 2,19), quanto
piuttosto cercare concretamente, storicamente, il Regno di Dio
e la sua giustizia (Cfr. Mt 6,33). Allora, sì, la persecuzione
è assicurata e magari anche il martirio! Per questo, sono stati
uccisi la maggior parte dei martiri latinoamericani: non perché
credevano nello stesso Dio dei loro aguzzini, ma per aver cercato
la giustizia del "suo" Regno.
Certo
questo non crea problemi soltanto ai potenti, ma anche a una Chiesa
che forse, in nome di una mal compresa virtù della prudenza ha
spesso perso di vista il dovere della profezia, chiudendo gli
occhi persino quando venivano colpiti i più eminenti tra i suoi
figli. Meglio allora allungare il martirologio con martiri meno
scomodi: quelli uccisi in epoche storiche ormai definitivamente
concluse o in situazioni che, per quanto attuali, non chiamano
direttamente in causa la nostra responsabilità. Gli altri possono
aspettare: verrà anche il loro turno, magari. In tutti i casi
ci penserà il buon Dio a ricompensarli della loro fedeltà. Noi
almeno per ora no, perché - si sa - i martiri non basta proclamarli,
bisogna imitarli.
Alberto
Vitali
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