di
Emma Nuri Pavoni
Dai
grandi convegni ai più piccoli dibattiti che negli ultimi
anni si vanno moltiplicando intorno ai temi della globalizzazione
e del neoliberismo, emergono importanti stimoli di discussione
e infinite domande che spaziano dal libero mercato ai diritti
umani. Un argomento di grande importanza è "il lavoro
minorile" e le domande sono "che sostegno da all'economia?
Quanto ne siamo consapevoli?". Nell'era della globalizzazione
non ci si può dimenticare che nel mondo esistono moltissimi
bambini ai quali viene negato il diritto all'infanzia, che vedono
compromessa la loro salute, la loro sicurezza e moralità
perché utilizzati come manodopera a costo zero da persone
senza scrupoli che, per ottenere il massimo profitto, calpestano
impunemente la Convenzione Internazionale sui Diritti dell'Infanzia.
Quanti sono questi bambini? Una domanda a cui è molto difficile
rispondere, dato che il lavoro minorile tende a rimanere nascosto.
Chi utilizza manodopera infantile non lo dichiara, consapevole
di violare molte leggi, assumendo piccoli lavoratori in nero abbatte
i costi di produzione, aumenta i profitti ed evade il fisco, questo
è un ulteriore motivo per non uscire dall'ombra. Inoltre
molti governi non ammettono l'esistenza di questo fenomeno nei
loro paesi, per ragioni di prestigio o perché non hanno
strumenti per quantificarlo. In mancanza di dati precisi ci si
può basare sulle stime fatte dall'Organizzazione Internazionale
del Lavoro. L'OIL dichiara che nei paesi in via di sviluppo ci
sarebbero 250 milioni di bambini lavoratori tra i 5 ed i 14 anni
(120 milioni lavorano a tempo pieno, 130 milioni solo una parte
della giornata). Vanno aggiunti a questi i bambini lavoratori
del mondo industrializzato: Europa (maggiormente nei paesi exsocialisti),
Nord America e Oceania. La causa principale del lavoro minorile
è certamente la povertà: i piccoli lavoratori e
lavoratrici appartengono sempre a famiglie con gravi problemi
di sopravvivenza, causati a volte dalla morte di un genitore,
da un grosso debito o semplicemente dal numero di bocche da sfamare.
Per questi motivi spesso il contributo portato dal lavoro di un
bambino fa la differenza fra il poco e il nulla. Negli ultimi
decenni molti Paesi in via di Sviluppo hanno contratto debiti
con governi del Nord, istituzioni finanziarie internazionali e
banche straniere private. Nei primi anni ottanta l'aumento degli
interessi e la rivalutazione del dollaro hanno portato questi
Paesi alla bancarotta per l'impossibilità di sostenere
il peso del debito. Nel tentativo di rilanciarne l'economia, il
Fondo Monetario Internazionale ha imposto "piani di aggiustamento
strutturale" come condizione per ottenere altri finanziamenti,
ma questo non ha portato altro che il peggioramento delle condizioni
di vita dei popoli. In Africa e in America Latina le famiglie
hanno visto diminuire in maniera drastica il loro potere d'acquisto.
Inoltre il cambio politico avvenuto in Europa Orientale dopo la
caduta del muro di Berlino e il conseguente cambiamento da un'economia
socialista al libero mercato, cogliendo impreparati gli Stati,
ha portato alla polverizzazione, in pochissimo tempo, del reddito
medio pro capite. Infatti oggi il potere d'acquisto di una famiglia
dei paesi ex-socialisti è pari a quello del Medio Oriente
e del Nord Africa. Questa situazione mondiale ha offerto un terreno
fertile per lo sfruttamento del lavoro minorile. I datori di lavoro
preferiscono assumere bambini e adolescenti perché, dato
la loro vulnerabilità, questi non reclamano diritti, hanno
paghe più basse, nessuna copertura contributiva, subiscono
angherie e ricatti che un adulto difficilmente accetterebbe. Un
fattore importante che genera il lavoro minorile è il livello
troppo basso dei salari che percepiscono gli adulti in molti paesi,
in Pakistan ad esempio, per guadagnare a sufficienza per il sostentamento
di una famiglia (mediamente composta da sette persone) deve entrare
il reddito di almeno tre persone e di queste in genere due sono
minori. Inoltre esistono aggravanti di origine culturale che sovrappongono
problemi economici a disparità sociali. In India, un paese
nel quale la legge proibisce il lavoro per i minori di 14 anni,
10 milioni di bambini-schiavi sono impiegati come domestici, e
la maggior parte di questi appartiene alla casta degli "intoccabili".
(La cifra è stata denunciata dalla Coalizione Asiatica
contro la Schiavitù Infantile, un ONG attiva sul fronte
del lavoro minorile)
In alcune zone dell'Africa certe tradizioni hanno perduto il loro
significato culturale originario a causa della mercificazione
dei rapporti umani e questo ha contribuito alla diffusione della
piaga del lavoro minorile. L'UNICEF denuncia la degenerazione
del tradizionale istituto del placement (affidamento) dei figli
presso parenti benestanti in città, operato dai contadini
poveri in Benin, Nigeria ed altri paesi, che oggi alimenta il
traffico redditizio di piccoli schiavi domestici. I contadini
poveri continuano ad affidare i propri figli ai mediatori con
la speranza di un futuro migliore, senza sapere nulla del loro
destino. Un altro fattore importante è quello di "genere",
infatti ovunque nel mondo, a parità di età e di
provenienza sociale, le bambine sono più discriminate dei
maschi. Queste sono le prime ad essere allontanate dalla scuola
e mandate a guadagnare, da qui l'alto tasso di analfabetismo femminile
nei paesi in via di sviluppo.
La diffusione nel mondo del lavoro minorile è capillare
e può assumere molte forme. L'UNICEF in un suo rapporto
ne ha specificato alcune categorie:
Lavoro domestico. S'intende quello svolto da bambini e bambine
a casa altrui, spesso in forma di vera e propria schiavitù
come nel caso delle piccole restavek di Haiti o degli "incatenati"
del Bangladesh. In molti paesi anche famiglie relativamente povere
possono permettersi uno o due domestici minorenni. In Sri Lanka
una famiglia su tre ha in casa un servo - bambino di età
inferiore ai 14 anni, in Kenya una su cinque. Questi bambini sono
spesso malnutriti, sottoposti a orari massacranti. L'abuso sessuale
è quasi regolarmente considerato dai loro padroni come
complemento del loro impiego. Data la natura di questa forma di
sfruttamento, esso sfugge ad ogni valutazione statistica precisa.
Lavoro forzato. Caratteristica "trasversale" di molte
attività lavorative svolte da minori nel mondo è
la forma schiavistica. Dai telai del Nepal alle piantagioni di
canna da zucchero del Brasile, dai cantieri edili in Myanmar/Birmania
alle tende nel deserto della Mauritania, centinai di migliaia
di bambini e adolescenti pagano con il sudore i debiti contratti
dai loro genitori. Naturalmente, il lavoro non basta mai a ripagare
il debito, e il bambino-schiavo rimane tale per un tempo indefinito.
Sfruttamento sessuale a fini commerciali. Il business del turismo
sessuale e della prostituzione minorile coinvolge, secondo stime
approssimative, circa un milione di minori all'anno nel mondo,
in gran parte bambine e ragazzine. Alcuni paesi, tra cui Thailandia,
Repubblica Domenicana e Brasile, tollerano questa vergogna in
virtù degli enormi introiti in valuta straniera che fa
circolare nel paese. Lo sfruttamento sessuale è il modo
più abietto di tutti per affermare l'assoluta prepotenza
di adulti senza scrupoli su persone non in grado di difendersi
o di far valere i propri diritti più elementari.
Lavoro nelle industrie e nelle piantagioni. Si tratta di attività
pesanti e pericolose, che sottopongono il fisico dei minori a
gravi rischi (dal contatto con sostanze tossiche all'uso di arnesi
pericolosi, dal morso di insetti e serpenti alle malattie respiratorie).
Ci sono bambini che scavano carbone nelle miniere della Colombia,
che raccolgono tè in piantagioni irrorate di pesticidi
nello Zimbawe, che tagliano la canna da zucchero in Brasile, che
fabbricano bracciali di vetro o confezionano sigarette in condizioni
disumane nelle fabbriche dell'India. E' opinione diffusa in Occidente
che i maggiori responsabili di questo tipo di sfruttamento siano
le grandi multinazionali, ma in realtà la maggior parte
di questi lavori vengono svolti presso subalppaltatori nazionali.
Secondo l'OIL, soltanto il 5% del lavoro minorile è concentrato
nel settore delle produzioni industriali per l'esportazione. E'
bene tuttavia continuare a mantenere una certa pressione sulle
grandi imprese affinché si dotino di codici di condotta
interni e li rispettino, e accettino dei controlli indipendenti
sul loro operato e su quello delle imprese a cui appaltano fasi
del processo produttivo.
Lavoro di strada. Un bambino che vende bevande nella stazione
ferroviaria, che lucida le scarpe di fronte a un albergo, o che
raccoglie in una discarica rifiuti da riciclare, è innanzitutto
un bambino che lavora. Invariabilmente egli ha alle spalle una
famiglia bisognosa, spesso i genitori assenti o violenti, e con
molta possibilità contribuisce a mantenerla con i mille
lavori precari della strada, oppure con l'accattonaggio o con
piccoli furti. I bambini di strada, visibili in tutte le metropoli
latinoamericane, africane e ormai anche in Europa orientale, sono
il facile bersaglio di azioni repressive a volte spietate condotte
in nome dell'ordine pubblico e della difesa della proprietà.
Ai problemi quotidiani di una difficile sopravvivenza, alle malattie
infettive e al continuo pericolo di essere incarcerati o assassinati,
si aggiunge per questi bambini il senso del disprezzo da parte
della società circostante e la perdita dell'autostima.
Accade spesso che essi trovino un effimero rifugio nelle droghe
sintetiche, estremamente dannose per l'organismo.
Lavoro in famiglia. A differenza del lavoro domestico, quello
che definiamo "familiare" si svolge nella casa o nel
campo dei propri genitori. Se è normale e anche formativo
che il bambino e l'adolescente aiuti nelle faccende domestiche,
diventa intollerabile un carico di lavoro tale da impedire la
frequenza della scuola o da pregiudicare un sano sviluppo del
corpo nelle fasi più delicate della crescita. A volte il
lavoro in famiglia, soprattutto nelle zone rurali, può
essere così duro e oppressivo da spingere i ragazzi a fuggire
in cerca di un lavoro remunerato in città, come è
accaduto a molti dei mini lavoratori impiegati nelle fabbriche
di tappeti a Katmandu, in Nepal. Bisogna specificare poi che le
bambine svolgono in casa una quota di attività mediamente
superiore rispetto ai coetanei maschi.
Lavoro delle bambine. Quando si fanno stime sul lavoro minorile,
ci si riferisce ad attività che possono in qualche misura
essere osservate statisticamente: si arriva così a dire
che il 56% dei bambini lavoratori nei paesi in via di sviluppo
sono maschi (stima OIL 1994). Ma se potessimo analizzare i luoghi
informali del lavoro minorile, soprattutto le abitazioni private,
vedremmo che sono molto più numerose, di fatto, le bambine
che lavorano. L'UNICEF sottolinea regolarmente che i pregiudizi
di carattere sessuale aggravano considerevolmente il problema
dello sfruttamento dei minori, e ricorda che alle bambine si nega
più ancora che ai bambini il diritto all'educazione di
base, con l'effetto di mantenerle ai livelli più infimi
della scala sociale e di assoggettarle, una volte cresciute, al
controllo e allo sfruttamento da parte del marito. Sappiamo ormai
per certo che donne poco o affatto istruite generano più
figli: l'ignoranza riproduce se stessa e crea nuova povertà,
di generazione in generazione. Soltanto affrontando con attenzione
specifica il problema delle bambine si può scardinare il
meccanismo del sottosviluppo economico e sociale del Terzo Mondo.
Oggi l'opinione pubblica internazionale, i media, i governi, le
imprese e i sindacati sono più attenti al fenomeno del
lavoro minorile di quanto non lo fossero in passato. Le campagne
promosse dall'UNICEF e da numerose ONG hanno aiutato questa sensibilizzazione.
Per questo possiamo sperare che il nuovo secolo bandisca dalla
storia il lavoro minorile forzato, al pari di quanto già
accaduto con la schiavitù e con l'apartheid. Non sarà
certamente un percorso facile o breve, poiché gravi motivi
strutturali sono alla base del lavoro dei piccoli, ma non esiste
ostacolo che possa giustificare l'indifferenza di fronte a un'ingiustizia
così grande, che colpisce i soggetti più deboli
per il profitto di pochi. Non si può inoltre ignorare che
la mancanza di educazione toglie a questi bambini e bambine la
possibilità di dare un aiuto concreto allo sviluppo economico
e sociale del proprio paese.
Iqbal, un bambino coraggioso
Iqbal
Masih nasce a Muridke (Pakistan) nel 1983 ed ha appena quattro
anni quando il padre lo vende come lavoratore ad un fabbricante
di tappeti, per 12 dollari. Una cifra che in Pakistan basta a
costituire un debito difficilmente solvibile, anche a causa degli
interessi usurari. Ormai ostaggio del suo padrone, Iqbal lavora
inginocchiato al telaio (e spesso incatenato ad esso per il suo
carattere ribelle) dodici o più ore al giorno. A 9 anni
Iqbal riesce ad uscire dalla fabbrica prigione con altri bambini
per assistere ad una manifestazione del Fronte di Liberazione
del Lavoro Schiavizzato (BLLF). E per la prima volta viene a sapere
di avere dei diritti. Conosce alla manifestazione l'avvocato Eshan
Ullah Khan, che da quel momento lo prende sotto la protezione
del BLLF e lo accompagna ovunque per denunciare al mondo la vergogna
del lavoro minorile coatto. Iqbal inizia a studiare. Vorrebbe
diventare avvocato per difendere i bambini, i cui unici strumenti
di lavoro, come ripete anche in una storica conferenza al Palazzo
di Vetro dell'ONU a New York, dovrebbero essere penne e matite.
Con i 5mila dollari di un premio ricevuto per la sua attività
progetta di costruire una scuola per gli ex-bambini schiavi. Domenica
16 aprile 1995, in una delle prime, vere giornate di svago della
sua vita, mentre corre in bicicletta con due cuginetti, il dodicenne
Iqbal è colpito a morte dagli spari si sicari della "mafia
dei tappeti". I suoi assassini non sono mai stati individuati.
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