Fuori l'Italia dalla guerra



"Fuori l'Italia dalla guerra!". E' chiaro che avremmo voluto gridare: "Fuori il mondo dalla guerra!" o meglio "Fuori la guerra dalla storia!", ma una campagna mondiale, per ora, va al di là delle nostre possibilità. Iniziamo dunque da casa nostra, ma in modo chiaro, definitivo e senza ambiguità. Ci siamo incontrati, rappresentando le nostre diverse associazioni e reti di associazioni, movimenti e gruppi: Pax Christi, Tavola della Pace, Emergency, Rete di Lilliput, Libera, CGIL… per interpretare il sentimento comune di moltissimi nostri connazionali e offrire loro uno strumento semplice, ma reale, con cui esprimere la propria avversione ad ogni conflitto armato, soprattutto a quello che sembra ormai prossimo in Iraq. La gente non ama la guerra… già lo diceva Giovanni XXIII: "Le madri e i padri di famiglia detestano la guerra: la Chie-sa, madre di tutti indistintamente, solleverà una volta ancora la conclamazione… per effondersi in supplichevole precetto di pace che previene i conflitti delle armi" (radiomessaggio 11.9.62). Oggi soprattutto, dopo un decennio di menzogne a partire dalla prima guerra del Golfo nel 1991 e i disastrosi quanto inefficaci risultati dell'intervento armato in Afghanistan, i più iniziano a rendersi conto di quali siano i veri interessi che si celano dietro quegli interventi. Dov'è Bin Laden? Dov'è il Mullah Omar? Nessuno li ha visti: in compenso abbiamo saputo - soltanto "saputo" perché non ce li faranno mai vedere - di migliaia di vittime civili, tra cui centinaia di bambini smembrati… che tragicamente confermano quella definizione della guerra data da Giovanni Paolo II alla vigilia del primo bombardamento sull'Iraq: "un'avventura senza ritorno"! La gente lo sa, lo percepisce quasi istintivamente, ma spesso si sente impotente di fronte alle grandi questioni internazionali e sfiduciata nella possibilità di prendere posizione - esercitando indirettamente la propria sovranità - perché male rappresentata da quegli stessi politici a cui affida il compito di rappresentarla. Così lo scorso anno il 90% dei nostri parlamentari si espresse a favore dell'intervento armato in Afghanistan: non bisognava essere l'ISTAT per rendersi conto che tale percentuale di "interventismo" non rispecchiava il paese reale. Molti si sentirono traditi ed il successo senza precedenti della Marcia "Perugia-Assisi" per la Pace ne fu una "parziale" conferma. Soltanto parziale perché ai trecentomila che parteciparono andrebbero aggiunti tutti quelli (soprattutto vecchi, che bene sanno cosa sia la guerra) che mancarono solo perché non avrebbero potuto percorrere 25 chilometri a piedi, oltre a quanti impediti per i più diversi motivi hanno comunque inviato la loro adesione. Va' dunque crescendo il grado di coscientizzazione nel nostro paese; non altrettanto le possibilità di espressione e di partecipazione alle decisioni cruciali che riguardano la collettività: triste contraddizione dei tempi presenti e della concentrazione del potere economico - prima ancora di quello politico - in poche mani. Abbiamo perciò voluto organizzare una campagna "al minimo comun denominatore", cioè con obiettivi minimi e comuni, non targata politicamente, ma diretta ed efficace, in cui possa riconoscersi chiunque voglia semplicemente dire "no alla guerra!". Una campagna accessibile a tutti: alle famiglie con bambini e agli anziani, alle associazioni civili e alle chiese… a disposizione di quanti non disponendo di mezzi politici e mediatici - e magari nemmeno di forze fisiche - godono però ancora del bene supremo di una coscienza. La Campagna chiede essenzialmente due cose: la firma di un appello (già pubblicato da Viator lo scorso mese in seconda pagina) e l'esposizione dal proprio balcone della bandiera della pace o di uno straccio bianco con scritto "No alla guerra" (tanto per distinguerlo dalla normale biancheria!). Così potremo contarci e rendere pubblico il nostro comune disaccordo, ben sapendo che ai potenti di turno non preoccupano quei pochi imbecilli che rompono le vetrine - che anzi gli servono (e si è visto!) per screditare indiscriminatamente ogni forma di dissenso, anche le più civili - ma l'opinione della gente comune che coltiva la propria coscienza ogni giorno, nel lavoro, in famiglia e nella vita associativa, maturando valori autenticamente umani e perciò resistenti agli attacchi della propaganda dominante. Un paese che dissente e lo dice, che si arrabbia e si unisce per difendere i propri e gli altrui diritti nessuno può pensare di governarlo a lungo… questo lo sanno, e non possono non tenerlo in considerazione, al di qua e al di là dell'Atlantico. Inoltre, invitiamo tutti a parlare, ad esprimere senza timore la propria opinione, i propri dubbi e desideri. Se la regia dell'opinione pubblica sta "dietro" le telecamere, le rotative… si forma però nel quotidiano "chiacchericcio" dei colleghi di lavoro, delle massaie al mercato, degli sportivi negli spogliatoi dei più comuni campi di periferia… è allora importante imparare a non ripetere banali luoghi comuni o gli slogan studiati a tavolino dai soliti "maghi della comunicazione", anche sotto il profilo mnemonico per essere facilmente replicati, ma, con parole che ci appartengono, costringere ciascuno ad interrogarsi, a mettere in dubbio le verità ufficiali, ad ammettere che oggi, nell'era della telematica, nessuno può più giustificarsi, e declinare la propria parte di responsabilità collettiva, nascondendosi dietro un banale "non lo sapevo". Don Milani diede come motto ai suoi ragazzi "I Care", mi interessa; ebbene non può non interessarci, anzi abbiamo il dovere di farlo, se altri continuano a perpetrare crimini a nome nostro: per il bene delle vittime e delle nostre stesse nazioni. La ricerca della verità, è chiaro, spesso fa soffrire, ma solo il coraggio di affrontarla e di proclamarla alla fine ripaga coloro che l'hanno perseguita. Se le riflessioni scritte nel 1998 all'allora presidente Clinton (vedi il Box) da Robert Bowman, vescovo protestante della Florida, per quanto odiose alle orecchie di un certo nazionalismo statunitense e più genericamente occidentale, fossero state prese in seria considerazione, molto probabilmente quella nazione avrebbe evitato le tragedie che ben conosciamo. In questo consiste il vero amore per il proprio paese, non nella giustificazione ad oltranza di una miope - perché egoistica - politica estera che, assassina all'esterno, finisce inevitabilmente per essere suicida all'interno. Naturalmente ciò vale per tutti: basta considerare, da quest'altra parte dello scenario internazionale, la tragica vicenda del teatro di Mosca, consumatasi sulla scia di una decennale occupazione in Cecenia, contro la quale mai furono espressi pronunciamenti o realizzati interventi da parte della comunità internazionale come invece avvenne per l'invasione del Kuwait. E ancora si potrebbe pensare a quale "insicurezza interna" ha prodotto in Israele la sanguinaria politica del governo Sharon nei confronti dei territori palestinesi e una pluridecennale inosservanza delle risoluzioni delle Nazioni Unite. In altre parole, se passa la logica del più forte, a prescindere dal diritto internazionale e dalle risoluzioni dell'ONU: si salvi chi può, torniamo al Far West! Al diritto della forza anziché alla forza del diritto! Giustamente alcuni vescovi africani facevano osservare che: "non solo a Saddam, ma a nessuno riconosciamo il diritto di avere armi di distruzione di massa". Perché se ammettiamo che qualcuno abbia il diritto di possederle, magari con l'alibi/pretesa di essere il custode dell'ordine mondiale, inevitabilmente il mondo cadrà sotto il suo controllo/dominio economico e politico e le disparità, già esistenti e consacrate da questo stato di cose, finiranno per provocare nuove e infinite violenze. Se poi a tutto questo si applicasse il valore aggiunto della religione la misura sarebbe veramente colma. Ancora una volta torneremmo alla già citata logica del Far West, quando i pionieri, e gli eserciti che li scortavano, si ritenevano in diritto di sterminare gli indigeni perché "quella terra era loro assegnata da Dio (nuovo popolo eletto), con tutti i beni che lì si trovavano". Se non altro i re di Spagna si fecero qualche scrupolo nel conquistare la parte meridionale del nuovo continente: lunghe e feroci discussioni contrapposero i più illustri teologi dell'epoca, nelle "indie" come nelle facoltà iberiche, soprattutto a Salamanca; ma nel "mitico" West tutto era considerato "naturalmente funzionale" al tenore di vita che sognavano i nuovi arrivati. Coerente con tale logica è quindi l'affermazione di Bush "padre" che - di fronte all'evidenza che i consumi di USA ed Europa sono a danno del resto dell'umanità - aveva dichiarato: "il tenore di vita degli americani non è negoziabile". Forse è per questo che molti, anche a casa nostra, ben sapendo quali violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale si celino dietro certi interventi, fingono di non sapere e professano una fede incrollabile nella "superiorità del modello sociale statunitense" e nella sublimità dei suoi valori. In realtà tutti ci rendiamo conto di quanto il nostro "tenore di vita" sia al di sopra delle possibilità del pianeta e di come sia salvaguardabile solo a prezzo di sopraffazioni e guerre: per questo molti preferiscono non vedere, mentre i più cinici si industriano a giocare con le parole per giustificare ciò che è palesemente ingiusto. Ma proprio per questo mi sembra evidente che ormai le esigenze della coscienza finalmente coincidano - quasi per caso - con un certo "interesse", vero e lungimirante: per amore di tutti i popoli, per rispetto dei nostri valori o semplicemente perché è ormai chiaro che gli oppressi "non ci lasceranno più stare tranquilli" - nemmeno a casa nostra - è venuto il tempo di riappropriarci della nostra quota di sovranità. Il tempo di ritirare le deleghe in bianco, di costringere i nostri politici e attraverso loro l'Unione Europea, quindi le Nazioni Unite, a ripensare completamente le logiche della politica internazionale. Di riscoprire i valori sanciti nella Costituzione e nella Carta dei Diritti dell'Uomo, rileggendoli nell'attuale contesto geopolitico e alla luce delle nuove conquiste tecnologiche e militari… Quando giorni fa un esponente di primo piano della politica nazionale, uno di quelli il cui partito aveva lottato per liberare l'Italia, si dichiarava pronto a rivedere l'articolo 18 della nostra Costituzione (che recita "l'Italia ripudia la guerra…") in virtù delle mutate situazioni storiche, mi fece anzitutto pensare a come quell'articolo non lo avessero scritto "esagitati pacifisti", ma gente (in buona parte partigiani) che non ne poteva più della guerra perché, avendola fatta, la conoscevano bene; ma soprattutto mi rammentò una convinzione di Giovanni XXIII, dedotta a partire dalla medesima considerazione sui tempi ormai profondamente cambiati: "E' alieno alla ragione pensare che nell'era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia" (PT, 67): due begli esempi, contrapposti, di incapacità e capacità di leggere la storia… Ma ormai i "segni dei tempi" parlano chiaro e poiché non è uno spettacolo di morte quello che vogliamo vedere quando ci affacciamo sul mondo, dalla mia finestra sventola una sola bandiera: quella della pace.

Alberto Vitali



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