La croce è sempre un paradosso?
Gli indios: un popolo sofferente.
Dalla consapevolezza dell'esistenza
alla lotta per la giustizia.
Cristiani che camminano nella fede rischiando il martirio ogni giorno



Intervento presso la parrocchia di S. Maria Bianca in Casoretto a Milano
sul tema proposto dal gruppo missionario parrocchiale

Il tema che mi avete proposto è al tempo stesso affascinante e difficile. Difficile, perché ponendo in relazione le sofferenze dei popoli indigeni con la croce di Cristo, non possiamo prescindere dall'ammonimento di don Giovanni Moioli :"Dire "croce" al dolore dell'uomo vuol dire interpretarlo da cristiani, metterlo in rapporto con la croce di Gesù" . Ora, per interpretare una realtà non basta raccontarla, ma occorre analizzarla attentamente, per coglierne le cause profonde e le ripercussioni sulla vita e la dignità delle persone; e questo ci obbligherà a prendere posizione di fronte a tutti gli agenti - materiali e personali - dell'oppressione, per comprometterci finalmente con le nostre sorelle e i nostri fratelli indigeni. Avete inoltre sottolineato, a ragione, il carattere paradossale della croce, che la fa essere al medesimo tempo la più ignominiosa delle morti (causata dal delirio d'egoismo dei capi religiosi giudaici e dei funzionari dell'impero romano, che hanno anteposto i loro interessi alla vita del profeta di Nazareth e spinto il popolo dell'Alleanza a rifiutare l'estrema offerta di Dio) ed il gesto supremo d'amore, che restando tale nonostante tutto, acquisisce un valore salvifico universale, in grado di vincere le radici del peccato che l'avevano provocata. Dobbiamo così distinguere tra le cause teologiche e quelle storiche della condanna di Gesù e considerare come le seconde precedano e seguano le prime. Gesù infatti fu crocifisso per essersi identificato fino in fondo con la Causa del Regno di Dio, quel Regno in cui gli ultimi, gli oppressi, le vittime del sistema sono i primi, e perché in nome di questo Dio aveva sfidato la religiosità ufficiale. Meditando la sorte dei profeti che l'avevano preceduto, Gesù ha potuto prevedere la sua morte e, pur senza attribuirgli esplicitamente quel valore salvifico che gli riconosceranno i testi del Nuovo Testamento, spiegarla ai suoi discepoli come fedeltà incondizionata al progetto di Dio. Incredibilmente, questa morte aveva per i suoi nemici il medesimo significato: uccidere Gesù significava farla finita con la sua Causa che a ragione ritenevano alquanto pericolosa. Per questo furono ferocemente ostili all'annuncio della Resurrezione da parte degli Apostoli: ciò avrebbe costituito agli occhi del popolo la più alta conferma della Parola di Gesù, il riconoscimento solenne da parte di Dio della veridicità del Nazareno e della sua Causa, che in quanto Causa di Dio avrebbe ormai dovuto riguardare e mettere in discussione tutti. Per quanto ci riguarda, dobbiamo ora comprendere come la sofferenza dei popoli indigeni, illuminata da questo che è il mistero centrale della nostra fede, possa "paradossalmente" avere valore salvifico, non solo in senso escatologico - per la vita eterna - ma anche per l'oggi della storia.

500 anni di Passione

La passione dei popoli che originariamente abitavano le terre dell'"America Latina" ebbe inizio il 12 ottobre 1492, allorché Cristoforo Colombo giunse là col suo seguito di predoni. Già i nomi la dicono lunga su questo avvenimento! E' risaputo che il "nuovo mondo" fu denominato "America" in onore di Amerigo Vespucci, altro celebre navigatore italiano, mentre l'aggettivo "Latina" fu posto a fugare ogni dubbio sull'identità dei nuovi padroni, ma pochi sanno che fino ad allora quelle terre si erano chiamate Abya Yala, ed i legittimi proprietari continuano a chiamarle così. Questa sostituzione illumina non poco il progetto che si intendeva perseguire: un annullamento totale non solo dell'identità dei singoli, ma di quella di interi popoli e del continente stesso. Così la versione spagnola del nome di Colombo, Cristobal Colon, dando origine al termine "colonialismo" dice bene con quale senso di oppressione quelle popolazioni vissero l'incontro con gli invasori europei. Essi rifiutano sempre più il termine "Scoperta" (che comporterebbe la capacità di stupirsi, di aprirsi al mutuo scambio e arricchimento… come avviene tra innamorati che si scoprono giorno per giorno), preferendogli quello di "Conquista", che esprime con più forza la brutale distruzione delle culture, delle religioni, delle civiltà e soprattutto di vite umane che essa ha comportato. Sarebbe interessante poterci soffermare sulle voci del dissenso che si levarono allora anche tra gli europei: Bartolomé De Las Casas, ad esempio, il primo vescovo del Chiapas, ma anche i domenicani di La Española, con Pedro da Cordoba e Antonio de Montesinos, che posero sul piano teologico la questione della violazione dei diritti umani delle popolazioni indigene, con tale forza da mandare in crisi l'imperatore Carlo V. Peccato che ci pensarono l'Università teologica di Salamanca e soprattutto papa Alessandro VI con la Bolla "Inter coetera" a levargli ogni scrupolo! Seguirono così cinquecento anni di dominazione, durante i quali gran parte di quelle popolazioni perirono, e in molte zone del continente si estinsero del tutto.

Dal Cinquecentesimo anniversario

Il 1992 segnò una tappa fondamentale e di non ritorno in questa storia martoriata. Mentre il mondo occidentale si preparava a celebrare il cinquecentesimo anniversario della Conquista, inaspettatamente, ma in modo non meno determinato, le popolazioni indigene risollevarono il capo e fecero udire la loro voce. Dissero: "Noi non possiamo festeggiare. Sarebbe come chiedere a voi di festeggiare l'anniversario di Auschwitz o di Hiroshima… Non possiamo festeggiare l'inizio del nostro genocidio!". Organizzarono così una serie di manifestazioni culturali alternative, a cui si associarono dapprima i settori negri afrolatinoamericani, poi quelli popolari: la "Campagna 500 anni di resistenza indigena, negra e popolare". Da quest'esperienza prese avvio il "Movimento indigeno, negro e popolare" con l'obiettivo di continuare, oltre quella data, un'autentica liberazione delle diverse radici e identità culturali e religiose al fine di poter risorgere come soggetti storici, veri protagonisti del loro destino. Se da un lato le celebrazioni ufficiali miravano a celebrare, esaltare, giustificare la Conquista, ponendosi in continuità col passato per perpetuarne il dominio, dall'altro l'obiettivo della Campagna fu quello di smascherare e denunciare questo progetto, assumendo il punto di vista delle vittime: divenne un vero e proprio processo all'occidente cristiano. Nemmeno la Chiesa fu risparmiata, perché non ebbe il coraggio di prendere le distanze, in modo critico, da quel modello di evangelizzazione che per secoli si era accompagnato - e a volte appoggiato alla spada - così come ora alle più moderne e "raffinate" forme di oppressione. Parlarono allora di "de-evangelizzazione", ma non intesero certo rifiutare il Cristo, quanto piuttosto giudicare noi nel suo nome! Sempre da quell'esperienza nacque l'"Assemblea del Popolo di Dio" o Movimento Macroecumenico; non una forma di sincretismo religioso, come i più rigidi ortodossi subito paventarono, ma una spiritualità trasversale alle differenti religioni, che professando l'unicità della divinità - al di là dei diversi nomi, dei riti e delle tradizioni di ciascuna religione - riconosce alcune caratteristiche comuni di Dio, Padre-Madre della vita, Creatore della natura, Difensore della Vita e perciò dei poveri… e si impegna a viverli nel perseguimento di obiettivi storici comuni. Nello specifico dell'America Latina, questo avvenne tra fedeli delle chiese cattoliche (Dom Pedro Casaldáliga, vescovo di Sao Felix do Araguaia in Brasile, ne fu uno dei più convinti sostenitori) e protestanti, delle religioni afrolatinoamericane e indigene precolombiane. Un'esperienza che, in un mondo dilaniato da nuovi conflitti a cui spesso si vorrebbe ancora attribuire motivi religiosi come pretesto, ha certamente molto da offrire, ed è un chiaro presagio di Resurrezione offerto a tutti, soprattutto ai popoli europei, che per la prima volta si trovano ad affrontare sfide di carattere culturale e religioso in una società che non vogliamo degeneri nello scontro, ma sappia ricomporsi nella fraternità originale. Tutto ciò è però frutto di un lungo cammino; cammino che i popoli indigeni hanno spesso pagato e continuano a pagare col sangue. La chiesa guatemalteca, che ha avuto il coraggio di fare memoria storica del genocidio consumatosi in trentasei anni di guerra civile, dando un nome a tutte le vittime e ai carnefici, denunciando le diverse forme di persecuzione e tortura, nonché le protezioni internazionali, ha pagato col sangue: quello di tanti laici e religiosi, e quello di un vescovo: Mons. Juan Gerardi. Il 26 aprile 1998, quarantotto ore dopo aver presentato nella Cattedrale di Città del Guatemala il rapporto "Guatemala, nunca más", il vescovo coordinatore del lavoro di recupero della memoria storica venne barbaramente ucciso.

Una Cristologia che parta dal Cristo ancora crocifisso

Ma in questo caso, come in quello di Mons. Romero, dei sei gesuiti dell'UCA e di migliaia di altre persone, la Chiesa non sa ancora pronunciare la parola Martirio (cioè il riconoscimento dello strettissimo legame tra questo tipo di morte e la croce di Gesù), prigioniera com'è dei vincoli giuridici che riconoscono il Martirio solo in caso di "Odium Fidei". La tragedia dell'America Latina è che in essa i panni dei carnefici non li rivestono i soliti nemici della fede, ma gli stessi fratelli correligionari. Da più parti si invoca allora la necessità di estendere il riconoscimento del Martirio anche all'"Odium Justitiae", e Jon Sobrino, teologo dell'UCA scampato al massacro perché assente, fa notare che paradossalmente secondo questo criterio nemmeno Gesù sarebbe riconosciuto martire. Non furono infatti gli infedeli a condannarlo per odio alla fede, ma nientemeno che i sommi sacerdoti a causa della "giustizia del Regno" che Egli andava predicando. Sobrino definisce allora martiri "gesuatici" questa tipologia di fratelli e sorelle che hanno pagato con la vita, non solo per le cause teologiche di sempre (il peccato degli uomini), ma anche per quelle storiche, le stesse per cui fu condannato Gesù. Inserisce così la categoria di "popoli crocefissi", come capitolo ulteriore della cristologia. Già Romero, in modo meno sistematico, aveva usato questa categoria parlando del "Servo di Jahweh" quando spiegava che questa figura è usata dal profeta per indicare indifferentemente il popolo ed il Messia: siamo dunque in presenza di una "cristologizzazione" del popolo. L'accostamento iniziale tra oppressione dei popoli indigeni e croce di Cristo non è dunque accidentale: i popoli hanno bisogno di Cristo e della sua croce per dare un senso alla loro sofferenza; ma anche Cristo ha bisogno di loro, per completare nella loro carne "ciò che manca ai suoi patimenti" (cfr. Col 1,24) e portare così a compimento l'opera di salvezza. Un compimento che porta frutto già nella storia. Questi popoli, come ogni uomo e come tutti i popoli che soffrono in ogni angolo del mondo, sono perciò una chiave d'accesso indispensabile alla Cristologia: una ricerca che non parta da loro, dai popoli crocifissi e coscientizzati, non giungerebbe mai a scoprire il mistero di Cristo, perché non sarebbe una teologia "dalla storia".

La prassi cristiana

Ma scoprire questo Cristo significa compromettersi con Lui, con la sua Causa, con la giustizia del Regno e pagare per essa: "A noi ecclesiastici - diceva Camilo Torres, sacerdote cattolico e guerrigliero colombiano - costa fatica collegare il nostro amore del prossimo con un cambiamento fondamentale delle istituzioni del paese. Utilizzare la beneficenza per risolvere problemi così gravi è come credere che il cancro si può curare con la tisana. Noi sacerdoti dovremmo lavorare con i poveri, non per i poveri, affinché siano loro che compiono le loro conquiste, attraverso l'organizzazione e la pressione sociale".
I popoli indigeni oggi ci invitano a camminare con loro: facciamo in modo che se di noi non potranno dire che avremo salvato il mondo, possano almeno dire: "è gente che ha camminato!"; nella passione c'è un solo protagonista e diversi attori: facciamo in modo che se non potremo evitare altre crocifissioni, saremo almeno dei Cirenei e delle Veroniche!

Alberto Vitali



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