Per
la terza volta nell'ultimo decennio il nostro paese si è
trovato direttamente coinvolto in un conflitto bellico di difficile
definizione. Gli Stati Uniti d'America infatti, attenti all'enfasi
di certe parole e al consenso che vogliono creare nell'opinione
pubblica internazionale, parlano apertamente di "guerra",
puntando sul fascino macabro, ma reale, e sulla capacità
coattiva che il termine è in grado di suscitare. Al contrario,
gli Stati Europei, più attenti per tradizione al valore
del Diritto, preferiscono parlare di "operazione di polizia
contro il terrorismo": la guerra infatti è regolata
da Convenzioni internazionali, che andrebbero evidentemente rispettate
e porrebbero vincoli ai termini dell'intervento; inoltre i terroristi
assurgerebbero al ruolo di combattenti e come tali sarebbero depositari
di doveri, ma anche di diritti. E questo risulterebbe assolutamente
inaccettabile per tutti i membri della coalizione. Dal canto loro
gli USA continuano a pensare, e forse non a torto, che quando
si è ottenuto un consenso forte e generalizzato - e in
più si è convinti di essere dalla parte della verità
-, per fare il Far West non sia necessario essere coperti dal
Diritto Internazionale. Insomma "il fine giustifica i mezzi";
e chi potrebbe obiettare, senza correre il rischio di essere tacciato
di tradimento a favore di fanatici fondamentalisti?
Non altrettanto semplice risulta la questione all'interno delle
Chiese, ed in particolare della Chiesa cattolica, dove ogni giudizio
va' necessariamente formulato alla luce della Parola di Dio e
della lunga e ricca tradizione dottrinale e morale che si è
sviluppata nel corso dei suoi venti secoli. Il fine - cioè
- non giustifica di per sé un bel niente, ed il criterio
pragmatico deve cedere il passo a quello morale. In queste situazioni,
data la complessità dell'assunto, è inevitabile
che il singolo credente si senta un po' confuso e volga l'attenzione
ai suoi pastori per essere aiutato da loro nella formulazione
del suo giudizio, che in ultima istanza deve comunque essere personale.
La Coscienza non può mai essere delegata a nessuno per
quanto autorevole, perché di essa ciascuno dovrà
rendere conto personalmente; ma è proprio in certi momenti
che il cristiano scopre la ricchezza di essere Chiesa, cioè
comunità che insieme, secondo i diversi ministeri e carismi,
esercita un discernimento e aiuta così i singoli credenti
ad esprimere una propria opzione, illuminata dalla fede. Le fatiche
però non sono finite. Come già ai tempi della Guerra
del Golfo, anche oggi, dietro le sottili sfumature del linguaggio,
i distinguo, i paroloni, le "furbizie ecclesiali" è
possibile scorgere all'interno dello stesso magistero cattolico
- anche ai suoi livelli più alti - posizioni e giudizi
differenti. Questo di per sé non dovrebbe costituire uno
scandalo, quanto piuttosto la conferma - che al tempo stesso è
una garanzia - che dati i limiti dell'essere umano e la nostra
insuperabile distanza dalla pienezza della verità, anche
all'interno della Chiesa cattolica esiste un sano pluralismo.
Ciononostante resta la fatica di compiere un'ulteriore sforzo
di attenzione e giudizio.
Esiste anzitutto la posizione del Papa, luminosa nella sua perfetta
coerenza: no alla guerra! Inascoltata, ma ferma, la sua voce si
era alzata forte, prima e durante tutto il conflitto del Golfo
persico, allorché aveva definito la guerra "un avventura
senza ritorno". La storia gli avrebbe dato ragione: non solo
la guerra non ha risolto i problemi presenti nell'area - tranne
la riconquista dei pozzi petroliferi del Kuwait -, ma si è
rivelata una vera carneficina di civili, nonostante le rassicurazioni
occidentali circa la precisione dei "bombardamenti chirurgici".
Inoltre le conseguenze dell'embargo e dei bombardamenti, che dalla
fine della guerra del '91 si susseguono periodicamente fino ad
oggi, hanno fatto circa 1.500.000 di morti, di cui almeno 350.000
sono bambini (Rapporto Unicef 1999). Aveva invece suscitato stupore,
e disagio in non pochi credenti, la posizione della Conferenza
Episcopale Italiana, favorevole all'intervento militare, che avvallando
la politica interventista dell'allora Democrazia Cristiana, la
toglieva - si fa per dire - dal pesante imbarazzo di scegliere
tra la propria naturale fedeltà al papa e quella all'alleato
americano. Si dovettero allora elaborare sottili spiegazioni per
ridurre queste divergenze ad una questione di semplici differenze
nella valutazione storica di una situazione concreta, e non già
di difformità, nell'uno o nell'altro caso, dalla Dottrina
tradizionale della Chiesa (che fissa le condizioni della cosiddetta
"guerra giusta"), alla quale tanto il papa che l'episcopato
italiano restavano saldamente ancorati. Il problema veniva così
ridotto a come applicare la dottrina generale ad una situazione
particolare, e questo avrebbe "spiegato" qualche piccola
divergenza. Tanto piccole da valere una guerra!
Il papa intanto non ha mai cessato di esprimere la propria condanna,
non solo nei confronti della guerra - sulla quale del resto sono
tutti d'accordo, almeno a parole
- ma sulla possibilità
che essa possa servire nella risoluzione dei conflitti. Particolarmente
significativo è il giudizio che ha formulato in una espressione
ripresa poi dal Catechismo degli Adulti: "È la guerra,
'il mezzo più barbaro e più inefficace per risolvere
i conflitti' (Giovanni Paolo II) (...). Si dovrebbe togliere ai
singoli Stati il diritto di farsi giustizia da soli con la forza,
come già è stato tolto ai privati cittadini e alle
comunità intermedie" (1037). I ventitré Messaggi
scritti in occasione della Giornata Mondiale della Pace, che si
celebra ogni anno il 1 gennaio, sono infine un vero e proprio
insegnamento pontificio sui temi della pace e della guerra, perché
elaborati in occasioni non strettamente contingenti possono diffondersi
più ampiamente ed entrare nei più profondi risvolti
del tema.
Ma ora il tempo stringe, anzi ormai è scaduto
Nelle
ultime settimane più volte il papa ha rinnovato un accorato
- e ancora una volta inascoltato - appello a non cedere alla logica
della violenza: invocando Dio che "mantenesse il mondo nella
pace", contro la possibilità ormai concretizzatasi
della guerra; delegittimando ogni pretesa di rivestire di motivazioni
religiose un conflitto che affonda le radici nell'ingiustizia
e nella mancanza di solidarietà; chiedendo ai credenti
di tutte le religioni di unirsi in "un'immensa preghiera
all'unico e onnipotente Dio"; smascherando la mistificazione
che vorrebbe camuffare la vendetta con i panni della giustizia,
quando invece di questa le mancano due requisiti fondamentali:
la clemenza e l'amore.
"Da
questa città, dal Kazakhstan, paese che è un esempio
di armonia tra uomini e donne di diverse origini e confessioni
religiose, desidero rivolgere un sincero appello a tutti, cristiani
e appartenenti ad altre religioni, a lavorare insieme per costruire
un mondo senza violenza, un mondo che ama la vita e progredisce
nella giustizia e nella solidarietà. Noi non possiamo permettere
che quanto è successo approfondisca le divisioni. La religione
non può essere mai fonte di conflitto.
Da questo luogo, invito sia cristiani che musulmani ad innalzare
un'immensa preghiera all'unico e onnipotente Dio, di cui tutti
noi siamo figli, affinché il grande dono della pace possa
regnare nel mondo. Possano tutti i popoli, sostenuti dalla divina
saggezza, lavorare dovunque per costruire una civiltà dell'amore,
nella quale non ci sia posto per l'odio, la discriminazione e
la violenza.
Con tutto il mio cuore prego Dio di mantenere il mondo in pace.
Amen" (Astana 23 settembre 2001).
"Certo
la pace non è disgiunta dalla giustizia, ma essa deve sempre
essere alimentata dalla clemenza e dall'amore.
Non possiamo non ricordare che ebrei, cristiani a musulmani adorano
Dio come l'Unico. Le tre religioni hanno, perciò, la vocazione
all'unità e alla pace. Voglia Dio concedere ai fedeli della
Chiesa di essere in prima linea nella ricerca della giustizia,
nel bandire la violenza e nell'essere operatori di pace. La Vergine
Maria, Regina della Pace, interceda per l'umanità intera,
affinché l'odio e la morte non abbiano mai l'ultima parola!"
(Roma 30 settembre 2001).
Di
sapore un po' diverso è ancora una volta la prolusione
del Card. Ruini al Consiglio Permanente della CEI, riunitosi a
Pisa: "Ciò riguarda in termini più immediati
la risposta da dare all'attacco subito dagli Stati Uniti: è
fuori dubbio il diritto, anzi la necessità e il dovere
di combattere e neutralizzare, per quanto possibile, il terrorismo
internazionale e coloro che, a qualunque livello, se ne facciano
promotori o difensori. E' però altrettanto importante e
indispensabile che questo diritto-dovere sia esercitato non solo
attraverso il ricorso alla forza delle armi - da mantenersi sempre
il più possibile limitato, senza rappresaglie indiscriminate
- ma anche adoperandosi per rimuovere le motivazioni e i focolai
che alimentano il terrorismo
". A condizione dunque
di non aver imparato niente dalla storia recente (quello che è
effettivamente successo in Iraq e nel Kosovo) e di credere alla
fiabe (i bombardamenti chirurgici
mentre le statistiche
dicono che nelle guerre contemporanee su cento vittime solo sette
sono militari e novantatré civili) è dato per scontato
il "ricorso alla forza delle armi", che getterà
il mondo in quella situazione di violenza generalizzata e di mancanza
di pace per evitare la quale il papa prega Dio con tutto il cuore.
Più conciliabili con la posizione del papa appaiono invece
le parole del portavoce vaticano, Navarro Valles, nelle quali
i giornali hanno piuttosto voluto leggere una sorta di approvazione
dell'intervento armato. In realtà Valles si è limitato
a ribadire la dottrina tradizionale della guerra giusta, ripresa
integralmente anche dall'attuale Catechismo della Chiesa Cattolica.
Essa però fissa cinque criteri perché la guerra
possa essere ritenuta "giusta" e tra questi vi è
quello della proporzionalità tra il male che si prevede
possa causare e quello che si darebbe nel caso non fosse combattuta.
Ed è esattamente alla luce di questo criterio che il papa
ha ripetutamente auspicato che non si giungesse a tanto. Cinque
milioni di civili - tra essi un milione e mezzo di bambini - già
in pericolo (Dati Unicef, Ginevra/New York, 24 settembre 2001)
nel solo Afghanistan, perché profughi interni od esterni,
possibili vittime per le conseguenze di bombardamenti su vasta
scala, in più le ripercussioni incalcolabili a livello
internazionale
sono dati spaventosi e al tempo stesso sufficienti
per far venire meno la suddetta condizione. In verità,
già papa Giovanni XXIII, nella Pacem in Terris aveva dichiarata
ormai tramontata la possibilità della guerra come soluzione
dei problemi nella nostra era, e proprio per questo motivo: "per
cui riesce alieno alla ragione pensare che nell'era atomica la
guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia"
(67). Era l'11 aprile 1963.
Alla luce di questi giorni e di tanti discorsi ascoltati, quanto
sembrano lontane, eppure sempre più necessarie, le parole
che l'attuale pontefice ha rivolto lo scorso anno ai giovani,
riuniti a Tor Vergata per il Giubileo dei Giovani! "Nel nuovo
secolo voi non vi presterete ad essere strumenti di violenza e
distruzione; difenderete la pace, pagando anche di persona se
necessario. Voi non vi rassegnerete ad un mondo in cui altri esseri
umani muoiono di fame, restano analfabeti, mancano di lavoro.
Voi difenderete la vita in ogni momento del suo sviluppo terreno,
vi sforzerete con ogni vostra energia di rendere questa terra
sempre più abitabile per tutti." (19 Agosto 2000)
Alberto
Vitali
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