I
testi biblici che riguardano il Giubileo, nella stesura definitiva
giunta a noi, sono certamente frutto di una redazione relativamente
tarda nell'Antico Testamento, avvenuta dopo il rientro degli Ebrei
dall'Esilio babilonese e quindi posteriori al 538 a.C. In questo
periodo maturarono anche le riflessioni sull'origine e il destino
dell'umanità nel progetto originario di Dio, che troviamo
nei racconti della Creazione. Ma al fine di comprendere le radici
profonde, l'esperienza e le motivazioni teologiche che hanno portato
alla codificazione della festa del Sabato, dell'Anno Sabbatico
e del Giubileo, é necessario ripercorrere il cammino storico
di Israele, partendo da quell'esperienza fondante della sua fede
che fu l'Esodo dall'Egitto.
L'Antico
Testamento
Al
tempo dell'Esodo Israele aveva vissuto la prima esperienza comunitaria
di Dio, e possiamo ritenere quegli anni (quaranta dice la Bibbia:
naturalmente simbolici, ma comunque un tempo trascorso nel deserto
dopo l'esperienza della liberazione) un grande ritiro spirituale,
un tempo nel quale Israele ha avuto modo di meditare su ciò
che era successo, sull'intervento di Dio, che si era rivelato
nella sua storia di popolo straniero e oppresso.
Dio
dunque si presentò come il Liberatore. Questo sarà
il primo articolo del Credo biblico: "Dio è il Liberatore".
Tale coscienza entrerà fin dall'inizio nella fede biblica,
diventandone la chiave di lettura fondamentale. E' chiaro che
la Bibbia può essere letta da diverse prospettive, ma ritengo,
soprattutto alla luce dello sviluppo teologico successivo, che
questa idea di Dio - e ciò che essa comporta - costituisca
un riferimento imprescindibile. Dio è "Colui che c'è"
per mettersi dalla parte dell'indifeso, contro le Potenze del
mondo. Non dimentichiamo che l'Egitto in quel tempo era una super-potenza,
e Dio intervenne come Colui che pronuncia un giudizio politico,
economico e sociale, capace di produrre una rottura storica; oserei
dire, in questo senso, che la prima parola della Storia della
Salvezza è: "Adesso basta!".
Ma
al giudizio negativo di condanna corrisponde una consegna propositiva:
Israele aveva compreso che Dio li aveva liberati e fatti uscire
dall'Egitto non per ricominciare allo stesso modo da un'altra
parte, ma perché custodiva un sogno. Il sogno di Dio è
una storia nuova, una storia alternativa; per questo consegnò
a Mosé, quelli che Alex Zanotelli chiama "i tre grandi
Sogni di Dio": il progetto di una economia che non sfrutti
l'uomo, di una politica che non lo opprima, di una religione che
lo renda libero, costituendolo nella propria dignità di
figlio di Dio.
1.
un'economia che non sfrutti l'uomo, perché non sia più
il denaro al di sopra dell'uomo, ma l'uomo a rivestire il primato
sull'economia e sul denaro
2. una politica che non lo opprima, delegittimando così
la schiavitù a tutti i livelli. La schiavitù egiziana
non é paragonabile a quella che si è data nei secoli
scorsi in Africa e in America Latina, ma piuttosto alle nuove
forme di schiavitù che ancora si generano. Quindi Dio squalifica
anche le politiche oppressive di oggi
3. una religione che renda libero l'uomo e non si ponga a servizio
del potere, legittimando i suoi abusi, in cambio di qualche beneficio
o privilegio; una religione cioè completamente diversa
da quella che avevano conosciuto in Egitto, tesa a legittimare
il potere del faraone e il sistema vigente.
Il
popolo di Israele comprende così chi é Dio e perché
lo ha liberato
e inizia a formarsi quella che mi piace chiamare
"l'Ideologia biblica" (che maturerà durante l'Esilio
a Babilonia), intendendo per ideologia l'idea attorno alla quale
si struttura il discorso di entrambi i Testamenti: "Dio,
il liberatore, è padre e madre di tutto il genere umano.
Egli è pure l'unico Creatore, il solo Signore di tutte
le cose". Questi articoli di fede che sono i fondamenti dell'antico
Credo biblico e del Credo niceno-costantinopolitano, che noi cristiani
recitiamo tutte le domeniche nella Messa: "Credo in un solo
Dio, Padre onnipotente, Creatore e Signore del cielo e della terra..."
andranno riconsiderati nella loro profondità se vogliamo
che passino dal piano puramente intellettivo a quello della prassi.
Anticipando
i tempi dello sviluppo storico possiamo qui ricordare come l'esperienza
teologica dell'Esodo sarà completata da quella dell'Esilio.
In questa seconda esperienza Israele giungerà a concepire
Dio non solo come il Liberatore, ma anche come l'unico Dio di
tutta la terra, Creatore e Signore delle cose create, e quindi
Padre e Madre di tutto il genere umano. La ricchezza di questa
nuova, e persino sconvolgente intuizione, confluisce nella grande
parabola del Giardino dell'Eden, il Paradiso Terrestre, che non
costituisce tanto un punto di partenza quanto di arrivo per la
storia dell'umanità.
La parabola del Paradiso Terrestre é posta a specificare
il progetto originale di Dio sulla Creazione, sulla storia; lo
scopo che Lui aveva nel momento stesso in cui ha creato. E cioè
un progetto d'amore rivolto ad una umanità, unica e unita.
Credo non vadano sottovalutati i termini del racconto, per cui
Adamo ed Eva formano un'unità: il testo dice infatti che
l'Uomo era Adamo più Eva, incapace di rivolgersi allo stesso
Dio fino a quando le due parti non si sono incontrate; e non parla,
come fanno altri racconti mitici sull'origine del mondo, della
creazione di diversi popoli. C'è dunque unità nel
genere umano. Un'unità di cui Dio è Padre, e questa
unità è anche del Giardino: non ci sono confini,
non ci sono frontiere, non ci sono steccati al suo interno. Il
progetto di Dio é quello di un'umanità che vive
in armonia con se stessa
"erano nudi", perché
non avevano niente da nascondersi: c'è una comunione profonda,
perfetta all'interno del genere umano, giacché sono in
comunione con Dio, il quale "passeggia con loro"; ma
allo stesso tempo sono in comunione con la natura di cui sono
custodi - non padroni - e godono tutti allo stesso modo dei beni
della creazione, senza bisogno di farsi la guerra.
Nel giardino non manca niente a nessuno.
Quando
Israele matura questa idea come progetto originario di Dio e quindi
come suo compito storico, si rende conto di quanto in realtà
faccia a pugni con l'esperienza: nella storia tale progetto non
si é mai realizzato a causa dell'egoismo umano. Dalla schiavitù
in Egitto a tante situazioni successive, anche dentro i propri
confini e per colpa sua - che da vittima si è trasformato
in carnefice - la vita di ogni giorno sconfessa la fede che professa.
E allora, soprattutto per l'apporto dei Profeti, Israele comprende
che esiste un peccato strutturale del Sistema, tanto più
grave dei singoli peccati contingenti, che assume le proporzioni
di una vera e propria apostasia: "se Dio ha un progetto sulla
Creazione e per questo ha fatto di noi il suo popolo, ma la storia
va per altre strade, allora significa che stiamo rinnegando la
nostra Alleanza con Lui".
Giosuè
aveva preannunciato che sarebbe stato difficile e compromettente,
essere il popolo di Dio, e alle soglie della terra promessa chiese
al popolo di fermarsi per considerare un'ultima volta, al compiersi
delle promesse, se veramente fossero disposti a rinnovare l'alleanza
con Lui, coscienti di quello che avrebbe comportato sul piano
storico, economico e politico, non solo teologico.
L'Ideologia
doveva ormai trasformarsi in Utopia, cioè in progetto storico
concreto. Utopia non è qualcosa di impossibile, ma un progetto
che pur trascendendo la realtà storica e compiendosi nell'"oltre",
la riempie di significato e le dà forma, traducendosi in
compito storico. Così la Santità, la Giustizia e
la Pace, per quanto non le vedremo mai pienamente realizzate sulla
terra (nel "già") non possiamo esimerci dal ricercarle
e costruirle per tutto il corso della nostra vita, per poterle
godere in pienezza nell'eternità (nel "non ancora").
Nella misura in cui Israele decide di essere fedele a questo Dio,
entrerà nella terra promessa, ma rifiuterà l'istituto
della monarchia, perché non potrà accettare che
un Re sia padrone della terra, il cui unico signore é Dio;
non potrà accettare soprattutto che un Re faccia da padrone
sugli uomini, il cui unico Padre é Dio, il solo che possa
decidere della loro vita. E questo si traduce allora in progetto
politico: Israele non avrà una monarchia, ma una confederazione
di tribù. E' l'epoca dei giudici, quando ogni tribù
si autogoverna, grazie al servizio degli anziani, dentro quella
che noi oggi chiameremmo una "confederazione di Stati autonomi".
Nei momenti cruciali Dio manda il Giudice, un leader carismatico
un po' condottiero, un po' profeta e un po' - appunto - giudice,
che guida Israele nei momenti più delicati e difficili.
Per qualche decennio si accarezzare l'idea che il progetto si
stia compiendo, ma, come spesso accade, le cose belle durano poco,
e Israele si lascia tentare dall'esempio dei popoli limitrofi,
cioè dall'istituzione monarchica. Il Re dà sicurezza,
è vanto nazionale
fa sentire importanti sulla scena
internazionale. E' interessante notare la crisi, il conflitto
ideologico e teologico che si genera in Israele, nel momento in
cui alcuni gruppi dominanti vogliono a tutti i costi la monarchia,
allorché i profeti, in particolare Samuele, leggono invece
questo desiderio come un grave peccato di sfiducia nei confronti
di Dio, come un rinnegamento, appunto, dell'ideologia originaria
della Bibbia.
E
poiché non demordono, interviene Dio stesso, rivolgendosi
al profeta: "Ascolta la voce del popolo per quanto ti ha
detto, perché costoro non hanno rigettato te, ma hanno
rigettato me, perché io non regni più su di essi.
Come si sono comportati dal giorno in cui li ho fatti uscire dall'Egitto
fino ad oggi, abbandonando me per seguire altri dei, così
intendono fare a te. Ascolta pure la loro richiesta, però
annunzia loro chiaramente le pretese del re che regnerà
su di loro" (1 Sam 8,7-9)
Merita
attenzione il discorso che Samuele rivolge al popolo, nell'estremo
tentativo di dissuaderlo: "Queste saranno le pretese del
re che regnerà su di voi: prenderà i vostri figli
per destinarli ai suoi carri e ai suoi cavalli, li farà
correre davanti al suo cocchio, li farà capi di migliaia
e capi di cinquantine; li costringerà ad arare i suoi campi,
a mietere le sue messi, ad apprestargli armi per le sue battaglie
e attrezzature per i suoi carri. Prenderà anche le vostre
figlie per farle sue profumiere e cuoche e fornaie. Si farà
consegnare ancora i vostri campi, le vostre vigne, i vostri oliveti
più belli e li regalerà ai suoi ministri. Sulle
vostre sementi e sulle vostre vigne prenderà le decime
e le darà ai suoi consiglieri e ai suoi ministri. Vi sequestrerà
gli schiavi e le schiave, i vostri armenti migliori e i vostri
asini e li adopererà nei suoi lavori. Metterà la
decima sui vostri greggi e voi stessi diventerete suoi schiavi.
Allora griderete a causa del re che avrete voluto eleggere, ma
il Signore non vi ascolterà" (1 Sam 8,11-18). Ma Israele
ancora non si lascia convincere: "Il popolo non diede retta
a Samuele e rifiutò di ascoltare la sua voce, ma gridò:
"No, ci sia un re su di noi. Saremo anche noi come tutti
i popoli; il nostro re ci farà da giudice, uscirà
alla nostra testa e combatterà le nostre battaglie"
(1 Sam 8,19-20). La situazione ormai oltre l'aspetto politico,
investe evidentemente anche quello teologico.
E non si dovrà attendere troppo, in Israele, per vedere
realizzata la parola del profeta.
Sorse
così una classe dominante, sempre più ricca, che
tradì progressivamente gli interessi del popolo, al punto
che Dio intervenne nuovamente con l'invio dei profeti, uomini
mandati a giudicare la storia, la politica e l'economia, alla
luce della Sua Parola, alla luce dell'Alleanza, alla luce dell'idea
originale, per puntare il dito contro l'ingiustizia ed i soprusi,
che ora palesemente si compiono dentro gli stessi confini di Israele.
Ormai
Israele non è più diverso dall'antico Egitto. Sul
piano politico conta infinitamente meno, ma la sostanza è
la stessa: in Israele i ricchi dominano i poveri, i potenti sfruttano
i loro fratelli ridotti in schiavitù, e quindi "questa"
storia non è più alternativa rispetto a quella che
avevano vissuto nella terra dei faraoni. La parola dei profeti
della prima generazione - di Amos in particolare, "il profeta
della giustizia", ma anche del I Isaia, di Sofonia e Geremia
- suona a minaccia: poiché Israele non è diverso
dall'antico Egitto
come Dio ha rigettato l'Egitto rigetterà
anche il suo popolo!
E'
questo il contesto storico e teologico nel quale inizia a maturare,
se non proprio la Legge, che verrà codificata più
tardi, almeno il suo spirito. E' lo spirito della Torah che difende
il diritto del povero e dell'oppresso.
Naturalmente la Torah é complessa, la si può leggere
da diverse prospettive e non è riducibile a nessuna di
esse: poiché il nostro tema è "Giubileo e migranti"
assumeremo quella che più concerne l'aspetto dei migranti.
Mi
sembra però imprescindibile contestualizzare tale prospettiva
nell'orizzonte più grande della Legge come espressione
della volontà di quel Dio che si prende cura del debole,
dell'oppresso, dell'indifeso. Dentro la categoria del povero,
che - non dimentichiamolo mai - non costituisce una minoranza
ma la stragrande maggioranza della popolazione, allora come oggi
(sebbene non sia così evidente nelle nostre città
occidentali), si colloca il discorso sugli stranieri, che in Israele
rappresentavano gli ultimi degli ultimi, poiché non potevano
far valere neanche il fatto di essere figli di Abramo, fratelli
degli altri.
Leggiamo
alcuni brani che mi sembrano abbastanza significativi:
Deuteronomio
24,17-18
"Non
lederai il diritto dello straniero e dell'orfano e non prenderai
in pegno la veste della vedova, ma ti ricorderai che sei stato
schiavo in Egitto e che di là ti ha liberato il Signore
tuo Dio; perciò ti comando di fare questa cosa".
1
Re 8,41-43: Questa é la preghiera che Salomone rivolge
a Dio nel momento della consacrazione del tempio:
"Anche
lo straniero, che non appartiene a Israele tuo popolo, se viene
da un paese lontano a causa del tuo nome perché si sarà
sentito parlare del tuo grande nome, della tua mano potente e
del tuo braccio teso, se egli viene a pregare in questo tempio,
tu ascoltalo dal cielo, luogo della tua dimora, e soddisfa tutte
le richieste dello straniero, perché tutti i popoli della
terra conoscano il tuo nome, ti temano come Israele tuo popolo
e sappiano che al tuo nome è stato dedicato questo tempio
che io ho costruito".
e
ancora, dal libro della Sapienza (19,13-17) (una rilettura della
storia della salvezza e quindi della schiavitù in Egitto,
dove si giunge a considerare l'Egitto più colpevole di
Sodoma): "sui peccatori invece caddero i castighi non senza
segni premonitori di fulmini fragorosi, essi soffrirono giustamente
per la loro malvagità avendo nutrito un odio tanto profondo
verso lo straniero. Altri non accolsero ospiti sconosciuti ma
costoro ridussero schiavi ospiti benemeriti. Non solo ci sarà
per i primi un giudizio perché accolsero ostilmente dei
forestieri ma quelli dopo averli festosamente accolti, poi quando
partecipavano già dei loro diritti, li oppressero con lavori
durissimi; furono perciò colpiti da cecità come
lo furono i primi alla corte del giusto quando avvolti fra le
tenebre fitte ognuno cercava l'ingresso della propria porta".
Il filo conduttore dei diversi testi, che è possibile leggere
quasi in filigrana dentro ogni situazione, é quello per
cui Dio si mette dalla parte del debole, dalla parte dell'oppresso,
dalla parte dello straniero e giudica, senza guardare in faccia
nessuno, qualsiasi forma di politica, di economia e di società
che perpetui il modello oppressivo dell'Egitto.
Ancora
in Isaia (56,3-7) leggiamo:
"Non
dica lo straniero che ha aderito al Signore: "Certo mi escluderà
il Signore dal suo popolo!" Non dica l'eunuco: "Ecco
io sono un albero secco!". Poiché cosi dice il Signore:
"Agli eunuchi che osservano i miei sabati, preferiscono le
cose di mio gradimento e restano fermi nella mia alleanza, io
concederò nella mia casa e dentro le mie mura un posto
e un nome migliore che ai figli e alle figlie, darò loro
un nome eterno che non sarà mai cancellato, gli stranieri
che hanno aderito al Signore per servirlo, e per amare il nome
del Signore e per essere suoi servi quanti si guardano dal profanare
il Sabato e restano fermi nella mia alleanza, li condurrò
sul mio Monte Santo e li colmerò di gioia nella mia casa
di preghiera, i loro olocausti e i loro sacrifici saliranno graditi
sul mio altare perché il mio tempio si chiamerà
casa di preghiera per tutti i popoli "
Queste
parole acquistano un significato ancora più forte se le
contestualizziamo nel periodo di forte chiusura nazionalistica
che Israele stava vivendo: il momento del massimo splendore del
regno, quando non più schiavi ne' oppressi, ma finalmente
liberi e potenti, si ritenevano perfino più importanti
di quanto non fossero in realtà. I profeti mettono in discussione
queste certezze e la parola di Dio giunge a delegittimare quella
situazione prospera che Egli stesso aveva creato, ma l'egoismo
dell'uomo aveva sconvolto. Dio la delegittima perché in
Israele non ci si prende cura dell'oppresso e dello straniero.
Così alle minacce dei profeti, rimaste inascoltate, fa'
seguito nel 721 il crollo di Samaria e nel 587 la caduta di Gerusalemme.
Entrambi questi momenti costituirono per Israele non solo un trauma
politico, ma anche una crisi di fede: i sacerdoti e gli intellettuali
fuggiti da Samaria e rifugiatisi al Sud, in Gerusalemme, che avrebbe
resistito ancora per poco, vennero accolti nel circolo del tempio,
e lì poterono sviluppare una amara riflessione, chiedendosi:
"perché il Signore ci ha abbandonato in questo modo?,
perché ha voltato le spalle al suo popolo?". La risposta,
preannunciata, sarà: "perché abbiamo voltato
le spalle al povero, al bisognoso e allo straniero".
Sul
trono di Gerusalemme sedeva, in quel tempo, Ezechia, uno dei pochi
re giudicati favorevolmente dalla Bibbia, il quale stava realizzando
una riforma sociale, peraltro fallita. Il clima politico favorevole
permise a quei sacerdoti ed intellettuali di elaborare alcuni
scritti che, adeguatamente conservati, vennero ritrovati cent'anni
dopo, nel 621 a.C., dal sacerdote Chelkia, e costituirono il "libro"
base per la formazione del Deuteronomio, al rientro dall'Esilio.
Lo scopo di questo libro fu il tentativo di "correre ai ripari":
"se abbiamo commesso un così grande peccato e Dio
ci ha abbandonato perché abbiamo voltato le spalle all'oppresso,
al povero e all'indifeso, allora é su questo che dobbiamo
ravvederci: fissiamo delle leggi per non violare più la
sua volontà, altrimenti ci condanneremo in eterno ad essere
abbandonati e dimenticati dal Signore".
Così
inizia a consolidarsi la tradizione che garantisce il riposo al
lavoratore, e quindi gli altri diritti sociali - noi diremmo "sindacali"
e "religiosi" - per tutti: servi, stranieri
perfino
per gli animali! E' la Legge del Sabato, che si svilupperà
in quella dell'Anno Sabbatico: ogni sette anni bisogna rimettere
a posto le cose: cancellare i debiti, liberare gli schiavi, ridistribuire
in parti eque la terra e lasciarla riposare per tutto l'anno.
Queste
quattro esigenze emergono, come diretta conseguenza, dalla natura
stessa della nostra fede in Dio, Padre e Signore di tutte le cose.
Se infatti Dio é riconosciuto Padre e Madre di tutto il
genere umano, allora si comprende come Egli - al pari dei padri
di questo mondo - voglia distribuire in parti uguali tra i figli
la "sua eredità"; e poiché é l'unico
Creatore e Signore - cioè l'unico a cui appartengono le
cose create - è anche il solo ad avere diritto di stabilirne
la destinazione. Ora, poiché sua volontà è
l'equa distribuzione tra tutti i suoi figli, non c'è alcun
sistema politico o economico sulla terra che possa decidere diversamente,
senza con questo usurparne il diritto. Così Israele raggiunge
il vertice della sua maturazione morale e comprende come, date
certe premesse, ogni forma di ingiustizia sociale, che si compie
sulla terra, non sia solo un peccato contro l'uomo, ma un grave
peccato contro Dio, una profanazione della sua Paternità,
una sconfessione della Sua Signoria sul Mondo. Questo peccato
che intacca le strutture stesse della convivenza umana, e perciò
chiamiamo "sociale", si rivela così una vera
e propria apostasia.
Credo
che questo asserto, valga ai nostri giorni non meno che ai tempi
dell'Antico Testamento. Celebrare l'Eucaristia ogni domenica,
professando il Simbolo della fede: "Credo in Dio, Padre onnipotente,
Creatore e Signore del cielo e della terra
", e condividere
(o essere conniventi che è lo stesso) un sistema economico
e politico che non Lo riconosce e ne usurpa le prerogative, è
non solo contraddittorio, ma una nuova - quanto vecchia - forma
di apostasia. "Non potete servire a due padroni
non
potete servire a Dio e a mammona (il denaro)". Dal punto
di vista morale dobbiamo anzitutto recuperare questa coscienza.
La nostra fede ci impone di rifiutare ogni sistema che nell'ideologia
o nella pratica si attribuisce le prerogative di Dio. Non è
in gioco solo la giustizia umana, ma l'opzione fondamentale della
vita e quindi la salvezza eterna.
Intanto,
nel 587, anche Gerusalemme crollò e iniziò il grande
Esilio a Babilonia. Esilio che per Israele fu una nuova e più
grande crisi di fede. "Sui fiumi di Babilonia
"
tornarono a chiedersi: "perché Dio ci ha abbandonato?".
E allora i profeti della seconda generazione, Ezechiele e il II
Isaia tra gli altri, offrirono per l'accaduto una chiave di lettura
già conosciuta: Dio vi ha abbandonato perché non
avete ascoltato la parola dei profeti, perché avete dimenticato
l'alleanza, perché avete continuato a non curarvi degli
oppressi.
Amos lo aveva preannunciato alle donne di Samaria:
"Ascoltate queste parole,
o vacche di Basàn,
che siete sul monte di Samaria,
che opprimete i deboli, schiacciate i poveri
e dite ai vostri mariti: Porta qua, beviamo!
Il Signore Dio ha giurato per la sua santità:
Ecco, verranno per voi giorni,
in cui sarete prese con ami
e le rimanenti di voi con arpioni da pesca.
Uscirete per le brecce, una dopo l'altra
e sarete cacciate oltre l'Ermon,
oracolo del Signore." (Am 4,1-3)
e così fu. E ancora lo stesso profeta aveva denunciato
che al mercato di Samaria un povero era venduto schiavo al prezzo
di un paio di sandali:
"Così
dice il Signore:
"Per tre misfatti d'Israele
e per quattro non revocherò il mio decreto,
perché hanno venduto il giusto per denaro
e il povero per un paio di sandali" (Am 2,6)
Particolare
poi confermato dall'archeologia che ha rinvenuto i listini dei
prezzi che si facevano a Samaria
se provassimo a calcolare
quanto costa oggi mantenere un bambino nel sud del mondo e quanto
costano i sandali di marca, scopriremmo che oggigiorno i bambini
e i poveri costano molto meno di un paio di sandali!
Tornati
dall'Esilio nel 538, inizia la grande ricostruzione e ancora si
scontrano due diverse tendenze. Da un lato coloro che vogliono
ricostruire la nazione a partire dalle strutture e dalle istituzioni,
il tempio prima fra tutte; dall'altro il III Isaia, che è
una comunità di profeti, si scaglia contro tale progetto
e indica come sia piuttosto necessario ricostruire a partire dalla
coscienza del popolo, per non ricadere nell'antico errore. E ricostruire
la coscienza del popolo significa proclamare un anno sabbatico,
un anno nel quale riaffermare la centralità del progetto
originale di Dio. E' in questo contesto, che vengono rielaborati
gli antichi testi liturgici e giuridici.
Così viene definitivamente codificato il Deuteronomio,
ma
con una punta di realismo, che al tempo stesso è
una caduta di tono. Gli Autori sacri si rendono conto che è
pura illusione proporre un Anno Sabbatico ogni sette, perché
risulta impossibile convincere i facoltosi a ridistribuire le
terre, liberare gli schiavi e condonare i debiti così frequentemente.
Tentano allora di prescriverlo almeno una volta ogni cinquant'anni:
se non ogni sette anni, almeno ogni sette settimane di anni! Ma
i biblisti sono concordi nel ritenere che neanche così
si realizzò, poiché è sempre "più
facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco
entri nel (nella logica del) Regno di cieli" (Mt 19,24).
Solo
quella volta, appena tornati da Babilonia, si è forse celebrato
qualcosa di simile, perché, dovendo ristrutturare lo stato,
fu imposto con la forza. Gli esiliati avevano perso tutto, e coloro
che erano rimasti ne avevano approfittato
andavano dunque
riequilibrate le cose, anche perché - guarda caso! - ad
essere deportata era stata la classe dirigente e non la povera
gente. Ma negli anni successivi, il Giubileo non si celebrò
più.
Restò dunque un ideale prescritto e "incompiuto",
e con ciò la storia della Salvezza giunse alle soglie del
Nuovo Testamento.
Il
Nuovo Testamento
All'inizio
della sua missione, Gesù si presentò nella Sinagoga
di Nazareth come "l'unto del Signore" inviato ad inaugurare
il Regno di Dio, e a proclamare un "Anno del Signore",
quale strumento principale della sua realizzazione. L'Antico Testamento
trovava così in lui il suo compimento e anche la tradizione
giubilare veniva riscattata.
Gesù
di Nazareth, Giubileo di Dio per l'uomo
Ma,
a questo punto, è necessario superare una visione esclusivamente
liturgica e celebrativa o canonica del Giubileo per rileggerlo,
piuttosto, in termini cristologici. Dobbiamo cioè comprendere
come il Giubileo non sia soltanto una "festa" o un "comando",
ma Gesù stesso. Come Don Giovanni Moioli ci ha insegnato
a non parlare di "escatologia" in termini astratti,
ma dell'Escatologico Cristiano che è il Cristo, così
anche del Giubileo credo si debba parlare in termini cristologici,
riconoscendo che Gesù è il nostro Giubileo. Se per
Giubileo infatti intendiamo la riconciliazione con Dio, la rinnovazione
del suo progetto originario che porta a pienezza tutte le cose,
e ci rende la gioia dell'umanità ritrovata, ebbene tutto
questo è solamente Gesù. E' Gesù che ci salva.
E' Gesù che ci riconcilia con Dio, è Gesù
che dona vita in abbondanza a tutti. E allora, come ci ricorda
Paolo, sarà guardando a Lui e imitando i suoi sentimenti
(cfr. Fil 2,5), che sapremo celebrare il Giubileo. Non cioè
rincorrendo tutte le indulgenze e i santuari, quasi fosse una
"grande caccia al tesoro spirituale" ma piuttosto nell'identificarci
con Lui, nel "rivestirci di Cristo" che trasforma integralmente
la vita del discepolo e non si esaurisce nel breve spazio di un
anno (questo è pure un importante spunto per la formazione
di una spiritualità adulta e matura).
Per
questo Gesù proclama l'"Anno del Signore" in
termini assoluti: non è semplicemente una scadenza temporale
ritmata dal nostro calendario, ma l'inizio della Nuova Era, che
grazie alla sua Pasqua non avrà più fine. Il discorso
nella Sinagoga di Nazareth è dunque il suo manifesto, il
programma della sua missione, che ci offre citando il profeta
Isaia:" Sono stato mandato per rimandare liberi gli oppressi,
sanare, i cuori affranti e proclamare l'anno di grazia del Signore"
(Lc 4,18ss).
Tutta
la missione di Gesù potremmo allora leggerla in chiave
giubilare: gli incontri che Lui ha avuto sono stati incontri "giubilari",
le parole che ha detto sono state parole "giubilari"
Facciamo qualche esempio. Il più evidente mi sembra il
caso di Zaccheo, un uomo lontano da Dio, non riconciliato con
Lui, tanto meno con il suo popolo e neanche con se stesso
ma quando Gesù lo incontra e gli offre gratuitamente la
sua amicizia e la riconciliazione con Dio, Zaccheo pieno di Giubilo
si converte, cambia vita, restituisce quattro volte tanto quello
che ha rubato e dà la metà dei suoi beni ai poveri.
Questo è davvero un Giubileo, e in questa linea possiamo
leggere anche tutti gli altri incontri di Gesù, fino all'anti-Giubileo
per eccellenza che è l'incontro con il "giovane ricco"
(Mc 10, 17-22). Lui non fu pieno di Giubilo, ma, secondo Marco,
"se ne andò triste" perché non aveva avuto
il coraggio di condividere le sue ricchezze. In questa prospettiva
possiamo leggere tutto il ministero di Gesù.
Il
Giubileo inoltre non doveva limitarsi ai confini di Israele, ma
raggiungere ogni angolo della terra, secondo quella apertura universalistica
già presente nell'Antico Testamento, nella riflessione
dei profeti e della Genesi, poi rimasta incompiuta e ora definitivamente
portata a maturazione nella predicazione e nella prassi di Gesù.
In
questo senso va' ricordato il brano già citato di Luca
4 con riferimento a Naman il Siro e alla vedova di Sarepta di
Sidone, e l'incontro con il Centurione, che lo prega per la guarigione
del servo, quando Gesù esclama: "Non ho mai trovato
una fede così grande in Israele!"(Lc 7,1-10). Così
anche l'incontro con la donna siro-fenicia (Mc 7,24-30), quando
Gesù per un attimo assume la posizione paradossale dei
suoi contemporanei: "Lascia prima che si sfamino i figli;
non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini",
facendo esplodere dall'interno la situazione e mettendo i suoi
discepoli di fronte all'evidenza che colei che loro considerano
straniera, e perciò esclusa, ha in realtà una fede
più grande della loro. Un valore del tutto paradigmatico
riveste poi il racconto del buon samaritano (Lc 10,29-37).
Gesù,
in questo modo, pone i suoi discepoli, contemporanei e futuri,
di fronte a questa evidenza: non solo non è lecita nessuna
forma di discriminazione nei confronti degli stranieri, ma bisogna
perfino imparare da loro quanto alla fede (perché alcuni
ne mostrano più degli stessi israeliti) e vanno imitati
nella carità. La contrapposizione tra il Samaritano, il
sacerdote e il levita sembra fatta apposta per provocare la rottura
definitiva, essendo un pugno nello stomaco di coloro che da secoli
lo aspettavano.
La
dimensione teologica (o verticale-spirituale) e quella sociale
(o orizzontale-concreta) del Giubileo si integrano infine nel
"Padre Nostro", che si rivela la preghiera del giubileo
per eccellenza, nella complementarietà delle due versioni
giunte a noi. Nel Vangelo di Matteo (Mt 6,9-13) e in quello di
Luca (Lc 11,2-4) le redazioni differiscono infatti leggermente.
Il passo in questione è quello che recita "rimetti
a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori".
Così nella versione di Matteo, che è quella con
cui recitiamo abitualmente questa preghiera. La differenza sta
nella prima parte: "rimetti a noi i nostri debiti".
Luca usa il termine greco "hamartias" a cui corrisponde
la parola italiana "peccato", mentre Matteo usa il termine
"ofeilémata" da tradurre con "debiti",
nel senso economico del termine. La differenza c'è, ed
è interessante vedere come, partendo da due situazioni
diverse, la conclusione è la stessa. La comunità
di Matteo è un comunità oppressa dal problema dei
debiti materiali e chiede a Dio che sia proclamato un Giubileo
per togliergli da dosso questo grosso peso: "Rimetti a noi
i nostri debiti e noi rimetteremo agli altri quei pochi debiti
che hanno con noi". Siamo, per intenderci, nella logica della
parabola del servo, quello al quale viene condonato tanto dal
padrone e dovrebbe fare altrettanto col compagno (Mt 18,23-35).
La situazione della comunità di Luca è diversa.
Una comunità non oppressa dai debiti, ma dal proprio peccato,
offre a Dio la stessa cosa, di condonare cioè i debiti
economici che altri hanno nei loro confronti in cambio del perdono
dei peccati: "Tu perdonaci e noi impareremo da questo, a
condonare agli altri i loro debiti". Mi sembra importante
sovrapporre queste due versioni del Padre Nostro perché
le due prospettive si completano a vicenda: il rapporto con Dio,
e il rapporto con i fratelli vanno di pari passo. Ciò che
bisogna offrire a Dio, in cambio del suo perdono o della proclamazione
di un anno giubilare che liberi da una situazione oppressiva,
è in entrambi i casi quello che Dio vuole, cioè
la giustizia sociale sulla terra.
Negli
Atti degli Apostoli, vediamo consolidarsi nel nuovo popolo, la
Chiesa, le stesse dinamiche. Vorrei qui citare il brano della
Pentecoste (At 2,1-13). Vi offro di questo avvenimento la lettura
che ne fa Pablo Richard, un teologo latino americano di origine
cilena. Pablo legge il primo versetto del secondo capitolo in
modo leggermente diverso da quello offertoci nella versione CEI
secondo cui "tutti erano raccolti nello stesso luogo".
La traduzione letteraria dice che "tutti erano raccolti col
medesimo intento". Secondo Pablo, questo "medesimo intento"
era quello di restaurare la comunità giudaica, perché
nel brano precedente viene riportato un episodio abbastanza particolare.
Gesù era asceso al cielo raccomandando agli Apostoli di
non fare niente fino a quando non avrebbero ricevuto il dono dello
Spirito. Ed ecco invece che scelgono Mattia per prendere il posto
di Giuda e ristrutturare così l'antico gruppo giudaico.
La caratteristica dell'eletto doveva essere infatti quella di
essere un discepolo della prima ora (At 1,21-26). Evidentemente
tutto ciò contraddice il comando di Gesù, e tradisce
il bisogno della comunità primitiva, comunità strettamente
giudaica, di guardare al passato e di cercare sicurezza nella
ricostruzione della situazione che fu, integrando non uno straniero,
ma ancora una volta un giudeo nella comunità apostolica.
Pablo fa notare come, nel momento in cui erano ancora raccolti
con la "medesima intenzione" di consolidare l'esistente,
irrompe lo Spirito con una manifestazione violenta di vento e
fuoco, e, facendo esplodere dall'interno questa situazione, butta
"fuori" (non solo in senso figurato) la comunità
e la obbliga ad incontrare anzitutto gli stranieri che sono presenti
a Gerusalemme. Da questo momento la comunità apostolica
non sarà più una comunità etnica, ma diventa
una comunità universale. Il seguito del libro degli Atti
ci testimonia quanta fatica e quante resistenze ci saranno ancora
nella comunità giudaica, fino al Concilio di Gerusalemme,
dove si risolverà definitivamente la scontro tra la tendenza
universalista di Paolo e quella giudaica di Pietro.
Pensiamo
pure a quella bellissima pagina del libro degli Atti, che ci parla
di Pietro in casa di Cornelio, dove un'espressione davvero eccezionale
esprime allo stesso tempo la fatica umana di Pietro, per aprire
la sua mentalità chiusa ad accogliere gli stranieri, ma
anche l'onesta dell'uomo di Dio, che non può fare a meno
di arrendersi alla Sua volontà: "In verità
sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma
chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga,
è a lui accetto" (At 10,34-35).
Ormai
ogni pretesa di circoscrivere tutto nei nostri limiti - pur nel
rispetto degli altri popoli tenuti a debita distanza - viene definitivamente
annientata dal dono dello Spirito.
L'ultimo
testo che vorrei ricordare per il suo valore escatologico è
quello del "giudizio universale" di Matteo 25. I criteri
del giudizio ultimo e definitivo sono anche quelli con i quali
Dio vuole che si costruisca la storia: "avevo fame, mi avete
dato da mangiare? avevo sete, mi avete dato da bere? ero nudo,
mi avete vestito? ero straniero, mi avete ospitato? ero ammalato
e in carcere, siete venuti a trovarmi?".
A partire da questi criteri veramente universali, perché
di patrimonio comune alle diverse religioni e anche alle coscienze
più laiche, ed in particolare - per quello che ci riguarda
- dalla domanda: "ero straniero, mi avete ospitato?"
dovremo ripensare tanto il Giubileo -
non mi pare che questo
del 2000 l'abbia presa in seria considerazione - quanto la nostra
intera vicenda di credenti; se non altro perché un giorno
dovremo renderne conto!
Conclusione
Da
questa lettura storico-teologica traiamo qualche semplice conclusione.
1.
Mi sembra da quanto emerso che il tema degli stranieri sia strettamente
connesso a quello del Giubileo lungo tutto il corso del suo sviluppo
storico-biblico. Anzitutto è la condizione della prima
rivelazione. Israele è straniero nel momento in cui Dio
si rivela e questa situazione caratterizza fin dall'inizio la
sua concezione di Dio. E' una delle categorie per le quali Dio
si qualifica come il "difensore", ma anche come il "confessato".
Se già infatti nell'Antico Testamento Dio dice "io
difendo lo straniero", in Gesù addirittura dirà:
"guardate gli stranieri come confessano il mio nome, imparate
da loro".
Questo ci obbliga a considerare lo straniero non solo nella categoria
del "bisognoso", ma anche in quelle del "testimone"
e di colui che ha qualcosa da offrirci. Non ultimo un esempio
di fede e di carità da imitare. Una grossa lacuna della
nostra mentalità fa sì che ci ostiniamo a considerare
il povero solo come oggetto di assistenza e non lo riconosciamo
quale potenziale soggetto storico; protagonista della propria
storia e di quella universale. Questo aspetto fondamentale dovrebbe
essere recuperato nell'anno del Giubileo.
2.
Vi è inoltre il tema dell'universalismo che da Genesi 1
e 2-3 a Isaia 2,2ss - "Alla fine dei giorni sul monte del
tempio del Signore verranno tutti i popoli", citato da Gesù
in Lc 13,29: "Verranno da oriente e da occidente, da settentrione
e da mezzogiorno e sederanno a mensa nel regno di Dio" -
attraverso i Vangeli, passando per Atti fino al grande sogno della
"moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni
nazione, razza, popolo e lingua" dell'Apocalisse (7,9), si
rivela quale progetto originario di Dio sull'umanità, e
quindi compito storico per i suoi fedeli. Ogni scelta politica
o economica, dettata da ragioni egoistiche di accaparramento dei
beni della creazione, che vada nella linea di un settarismo etnico
va' smascherata e denunciata come contraria al progetto di Dio
e quindi incompatibile con la fede cristiana. I discepoli del
Risorto in nessun momento storico e per nessun motivo potranno
scendere a compromessi con tali logiche.
3.
Mi sembra inoltre che non possiamo pensare al Giubileo a prescindere
dall'antropologia cristiana, ovvero dalla confessione principale
della nostra fede che ci fa chiamare Dio col nome di Padre, e
conseguentemente riconoscere gli altri come "fratelli e sorelle".
Una cosa gravissima che sta' avvenendo nelle nostre città,
è lo smantellamento "a picconate" dell'antropologia
cristiana, senza che alcuno - neanche quelli predisposti alla
cura della fede dei fratelli - se ne vogliano rendere conto: il
termine "extracomunitario" è entrato nel lessico
comune. E' la fine dell'Ecumene! Se abbiamo insegnato ai nostri
figli a chiamare l'altro "straniero" e non più
"fratello" e "sorella", l'antropologia cristiana
è minata.
Mi impressiona costatare come la stessa Conferenza Episcopale
Italiana, così preoccupata del "progetto culturale"
e della "cultura cattolica" non si renda conto di quello
che sta avvenendo. Oggi in Italia non si va' al potere in forza
di buoni programmi elettorali, ma - da destra a sinistra - promettendo
di "cacciare lo straniero", indiscriminatamente criminalizzato,
e distruggendo in questo modo qualsiasi cultura della solidarietà
e della giustizia, nonché della fraternità. Questo,
dovrebbe comportare come pratica del Giubileo, una forte presa
di posizione culturale e politica.
4.
Anche noi siamo ad un bivio, come Giosué a Sichem: dobbiamo
decidere se continuare a confessare la nostra fede nel Dio biblico,
avendo il coraggio, come i profeti, di scontrarci con un sistema
politico ed economico avverso a Lui o sconfessarlo. Oserei dire
che dobbiamo scegliere tra il Cristo e l'anticristo. Se infatti
l'anticristo non è un essere mitologico, ma lo storicizzarsi
di un progetto alternativo a quello che Dio ci ha rivelato nel
Cristo; se l'anticristo è qualsiasi potere economico e
politico che nella storia usurpa il posto di Dio, il ruolo salvifico
del suo Cristo (l'Alfa e l'Omega, la prima e ultima parola che
svela il senso della nostra vita) e pretende di dire l'ultima
parola sull'uomo e sulla storia, allora siamo davvero di fronte
ad una nuova manifestazione dell'anticristo! Quando il giapponese
Fukuyama, uno dei massimi intellettuali contemporanei del Neoliberismo,
dice che "con il Neoliberismo siamo giunti alla/al fine della
storia", e che "fuori dal Capitalismo non c'è
salvezza", il Cristiano dovrebbe immediatamente rendersi
conto della consistenza di tale pretesa. Per noi il fine della
storia è Cristo e "in nessun altro c'è salvezza;
non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo
nel quale è stabilito che possiamo essere salvati"
(At 4,12). Se questo sistema economico si concepisce come il fine
della storia, il suo punto di arrivo e, in forza di questo, si
arroga il diritto di dire l'ultima parola sull'uomo; di stabilire
chi ha diritto di vivere e chi no; si permette di dichiarare 1/5
dell'umanità in esubero, allora siamo davvero in presenza
dell'anticristo, di un Sistema cioè che vuole usurpare
il posto di Cristo. Come credenti, non possiamo non scontrarci.
Questo avrà inevitabilmente delle conseguenze: vorrà
dire, magari, scontrarci con i nostri alleati di oggi, perdere
privilegi consolidati negli anni, avere il coraggio, come Chiesa,
di tornare a vestire i panni della minoranza, e così mettersi
veramente dalla parte dei poveri, cioè di Dio.
Il Giubileo fin dall'inizio voleva essere precisamente un'opzione
per i poveri, mediante una rottura storica, capace di ridare a
Dio il primato sulla storia. Va' dunque ripensata tutta la tematica
degli stranieri non solo in chiave caritativa, ma anche culturale
e teologica.
5.
Questo significa anche affrontare il problema del Debito Estero
con più coraggio e senza mezze misure, a differenza, purtroppo,
di quello che sta avvenendo. Credo che il Prof. Moro abbia spiegato
in maniera stupenda, per conto della Conferenza Episcopale Italiana,
come si è formato il cosiddetto "debito estero".
Ovvero ci ha spiegato che il "debito estero" non è
un debito. Un debito è qualcosa che devo restituire perché
ho preso, ma qui si tratta di un "qualcosa" che in realtà,
è il risultato di una serie di manovre e speculazioni a
livello internazionale. I popoli del sud del mondo, ci ricordano
inoltre che queste speculazioni non le hanno fatte loro, ma le
hanno subite fin dall'inizio. Celebrare il Giubileo vorrà
dire allora fare proprio il grido dei popoli del Sud del mondo
che dicono "il debito non c'è non va pagato".
Solo dopo, in un secondo momento, potremo dire "il debito
non c'è, ma ci sono le sue conseguenze" e allora non
sarà più equivoco raccogliere aiuti per questi popoli;
ma "soltanto dopo" aver rotto ogni rapporto e complicità
con il sistema economico e gli organismi che l'anno creato e
continuano a tenerlo in vita. Temo invece che la "Campagna
per la riduzione del debito estero" della CEI, così
com'è strutturata, finisca piuttosto per legittimare il
debito. Perché al di là delle sottili spiegazioni
che la gente non riesce a comprendere, il messaggio che sta' passando
è questo: "diamo un mano a pagare il debito, perché
quei poveretti da soli non ce la fanno". Bisognava piuttosto
avere il coraggio di dire: "Il debito non c'è e non
va pagato! Per questo pretendiamo che questo giogo ingiusto sia
rimosso!" E così spiegare alla gente non solo come
il "debito" si è creato, ma anche che è
lo strumento attraverso il quale le economie del Nord del Mondo
tengono al guinzaglio quelle del Sud; spiegare perché i
grandi del mondo fingono di ridurlo ma ne conservano bene quel
tanto che basta a non cambiare niente, perché altrimenti
sarebbe una vera rivoluzione economica, che nessuno vuole - tranne
Dio - che ci obbligherebbe a ridistribuire le ricchezze della
creazione secondo il Suo progetto originario, nello spirito del
Giubileo. Ma questo non abbiamo il coraggio di farlo.
6.
Infine dovremmo ripensare il tema della Terra, anzitutto nella
sua Simbologia di Sostentamento, molto esplicita nell'Antico Testamento.
Allora si trattava di ridistribuire i campi, oggi che non siamo
più contadini, assume evidentemente altre valenze. Ridistribuire
la Terra oggi, significa ridistribuire le risorse naturali, le
risorse della Creazione, e gli strumenti per potervi accedere;
così anche ripensare l'illegalità delle frontiere,
che nella concezione comune sono ormai ritenute del tutto naturali.
Ma il fatto che non sappiamo o non vogliamo ancora a farne a meno,
non può farci perdere coscienza della loro illegalità.
Quando Dio ha creato il mondo non c'erano le frontiere e se per
qualche motivo sono state inventate non possono perpetuarsi come
strumento attraverso il quale continuare ad opprimere i popoli,
negando loro il riconoscimento dei diritti universali. Soprattutto
dovremmo ripensare il tema della Terra nella sua materialità.
Quando parliamo di popoli migranti, che vengono nelle città
del Nord, dovremmo dire non già che invadono la Terra d'altri,
ma che vengono nella "loro" terra, poiché, lo
ammettiamo o no, qui c'è gran parte delle loro terre. Quel
benessere che abbonda da noi e manca da loro, sotto forma di generi
alimentari, di petrolio, di minerali, è "Terra"
che noi continuamente preleviamo nei paesi del Sud del mondo e
portiamo qua. Se in Europa ci si muove con il petrolio, se tutti
i frutti delle loro terre si trovano qua
è loro diritto
venire a godere i frutti delle loro terre! A questo proposito
credo sia illuminante e insuperato un passo della Pacem in Terris
di papa Giovanni XXIII. E' il §. 10 dell'enciclica (nella
versione italiana in Enchiridion Vaticanum vol. II ed. 10 EDB),
dal titolo: "Diritto di emigrazione e di immigrazione":
"Ogni essere umano ha il diritto alla libertà di movimento
e di dimora nell'interno della comunità politica di cui
è cittadino; ed ha pure il diritto, quando legittimi interessi
lo consiglino, di immigrare in altre comunità politiche
e stabilirsi in esse (cfr. Radiomessaggio natalizio di Pio XII,
1952). Per il fatto che si è cittadini di una determinata
comunità politica, nulla perde di contenuto la propria
appartenenza, in qualità di membri, alla stessa famiglia
umana; e quindi l'appartenenza, in qualità di cittadini,
alla comunità mondiale".
Questa riflessione dovrebbe essere approfondita per ripensare
il Giubileo come necessità di restituire a ciascuno il
suo.
Vorrei
infine citare una riflessione di Don Tonino Bello, già
vescovo di Molfetta e presidente di Pax Christi Italia:
"Alcune
sere fa quando Ruvo (è una città della mia Diocesi)
era ammantata della neve di questo stranissimo inverno, volli
andare a trovare un gruppo di marocchini. Sapevo che da mesi vivevano
in una stalla. Mi ci condusse Mohammed, il quale da tempo mi supplicava
di fare qualcosa per i suoi compagni. Lui, grazie ad Allah, era
stato fortunato: dormiva in un garage, dove l'unico inconveniente
non era tanto la mancanza di un bagno o dell'acqua, quanto l'odore
amarognolo della benzina che lo perseguitava anche di giorno.
Nella stanza, tra gli escrementi degli animali e gli arnesi della
campagna, vivevano i compagni di Mohammed, sei giacigli senza
federe; due finestre riparate dai cartoni lasciano entrare ogni
tanto uno spruzzo di neve. Mi dissero che nelle lunghe notti d'inverno
si scaldavano sedendosi l'uno sui piedi dell'altro. Mohammed abbassò
il volume di una radiolina che trasmetteva malinconiche nenie
impregnate di deserto. Da noi in Puglia si captano bene i programmi
del Marocco. Mi raccontarono delle loro case lontane, di donne
in attesa, di amori interrotti. Mohammed estrasse la fotografia
dei suoi figli, tanti. Poi ripeté: "Fai qualcosa per
questi miei compagni. Non per me, io grazie ad Allah, mi sento
fortunato. Lo disse quasi con arroganza, come se lui avesse affittato
un attico ai Parioli, ma negli occhi profondi aveva un'indicibile
tristezza. Lo so che qualcuno forse troverà irriverente
che io con la pelle intrisa di stalla mi metta a scrivere della
Santissima Trinità. Ma non posso nascondervi che quella
sera, mentre tornavo a casa, mi sono sentito interiormente contestare.
E proprio dal mistero delle "Tre Persone Uguali e Distinte",
uguali al punto che il Padre non è più grande del
Figlio e lo Spirito non è inferiore ne all'Uno né
all'Altro. Ma perché mai l'Eterno è venuto a raccontarsi
nel tempo se non per introdurre nella storia l'esigenza totalizzante
della pari dignità tra gli uomini, che poi è il
principio di ogni comunione vera. Che cosa ha spinto Gesù
a svelarci questo segreto se non il bisogno di costringerci al
rifiuto di ogni discriminazione di razza, di cultura, e di ricchezza
e perché dopo tanti secoli di cristianesimo l'ingiustizia
imperversa e il potere dell'uomo sull'uomo, umilia ancora la turba
dei poveri, ma perché sui banchi di teologia abbiamo consumato
tanto tempo per studiare l'uguaglianza delle persone divine, se
poi non alziamo la voce per mettere in discussione questo perverso
sistema economico, che uccide ogni anno 50 milioni di fratelli?
In Somalia ogni giorno muoiono 1000 persone! Sono notizie che
ci hanno reso dalla Caritas. Muoiono di fame! Che senso ha questo
mistero della fede se poi non muoviamo un dito per denunciare
la segregazione razziale del sud Africa, ma anche l'apartheid
ignobile che si pratica in alcune scuole delle nostre città?
Che senso hanno i nostri segni di croce, nel nome del Padre e
del Figlio e dello Spirito Santo, se non ci battiamo perché
a tutti gli oppressi del mondo, ma anche a quelli del primo e
del secondo mondo, vengano riconosciuti i più elementari
diritti umani? Dobbiamo riuscire a capire che le ingiustizie (anche
quelle nostre, private) non sono solo causa di tutte le guerre,
ma sono anche eresie trinitarie perché contrastano il fondamentale
cardine della vita trinitaria: l'uguaglianza.
Ho letto una pagina di Martin Luther King che diceva: "Ho
fatto il sogno che un giorno sulle rosse colline della Georgia
i figli degli antichi schiavi e i figli degli antichi schiavisti
saranno capaci di sedere assieme alla tavola della fratellanza.
Ho fatto il sogno che un giorno anche lo stato del Mississipi,
uno stato soffocante per l'afa dell'oppressione, sarà trasformato
in un oasi di pace e di giustizia. Ho il sogno che i miei quattro
bambini un giorno vivranno in una nazione in cui non saranno giudicati
per il colore della pelle, ma per il contenuto del loro carattere.
Ho un sogno...".
Ognuno di noi ha un tratto intrasferibile e ci dovremmo opporre
a tutte le omologazioni di massa che vengono fatte; a tutte le
voracità della nostra cultura che intende omologare le
altre culture per allivellarle come se passasse un bulldozer.
Dio invece pratica la distinzione".
Alberto
Vitali
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