NON OPPRIMERAI LO STRANIERO
CHE CERCA RIFUGIO PRESSO DI TE

- Giubileo e Migrazioni -


I testi biblici che riguardano il Giubileo, nella stesura definitiva giunta a noi, sono certamente frutto di una redazione relativamente tarda nell'Antico Testamento, avvenuta dopo il rientro degli Ebrei dall'Esilio babilonese e quindi posteriori al 538 a.C. In questo periodo maturarono anche le riflessioni sull'origine e il destino dell'umanità nel progetto originario di Dio, che troviamo nei racconti della Creazione. Ma al fine di comprendere le radici profonde, l'esperienza e le motivazioni teologiche che hanno portato alla codificazione della festa del Sabato, dell'Anno Sabbatico e del Giubileo, é necessario ripercorrere il cammino storico di Israele, partendo da quell'esperienza fondante della sua fede che fu l'Esodo dall'Egitto.

L'Antico Testamento

Al tempo dell'Esodo Israele aveva vissuto la prima esperienza comunitaria di Dio, e possiamo ritenere quegli anni (quaranta dice la Bibbia: naturalmente simbolici, ma comunque un tempo trascorso nel deserto dopo l'esperienza della liberazione) un grande ritiro spirituale, un tempo nel quale Israele ha avuto modo di meditare su ciò che era successo, sull'intervento di Dio, che si era rivelato nella sua storia di popolo straniero e oppresso.

Dio dunque si presentò come il Liberatore. Questo sarà il primo articolo del Credo biblico: "Dio è il Liberatore". Tale coscienza entrerà fin dall'inizio nella fede biblica, diventandone la chiave di lettura fondamentale. E' chiaro che la Bibbia può essere letta da diverse prospettive, ma ritengo, soprattutto alla luce dello sviluppo teologico successivo, che questa idea di Dio - e ciò che essa comporta - costituisca un riferimento imprescindibile. Dio è "Colui che c'è" per mettersi dalla parte dell'indifeso, contro le Potenze del mondo. Non dimentichiamo che l'Egitto in quel tempo era una super-potenza, e Dio intervenne come Colui che pronuncia un giudizio politico, economico e sociale, capace di produrre una rottura storica; oserei dire, in questo senso, che la prima parola della Storia della Salvezza è: "Adesso basta!".

Ma al giudizio negativo di condanna corrisponde una consegna propositiva: Israele aveva compreso che Dio li aveva liberati e fatti uscire dall'Egitto non per ricominciare allo stesso modo da un'altra parte, ma perché custodiva un sogno. Il sogno di Dio è una storia nuova, una storia alternativa; per questo consegnò a Mosé, quelli che Alex Zanotelli chiama "i tre grandi Sogni di Dio": il progetto di una economia che non sfrutti l'uomo, di una politica che non lo opprima, di una religione che lo renda libero, costituendolo nella propria dignità di figlio di Dio.

1. un'economia che non sfrutti l'uomo, perché non sia più il denaro al di sopra dell'uomo, ma l'uomo a rivestire il primato sull'economia e sul denaro
2. una politica che non lo opprima, delegittimando così la schiavitù a tutti i livelli. La schiavitù egiziana non é paragonabile a quella che si è data nei secoli scorsi in Africa e in America Latina, ma piuttosto alle nuove forme di schiavitù che ancora si generano. Quindi Dio squalifica anche le politiche oppressive di oggi
3. una religione che renda libero l'uomo e non si ponga a servizio del potere, legittimando i suoi abusi, in cambio di qualche beneficio o privilegio; una religione cioè completamente diversa da quella che avevano conosciuto in Egitto, tesa a legittimare il potere del faraone e il sistema vigente.

Il popolo di Israele comprende così chi é Dio e perché lo ha liberato… e inizia a formarsi quella che mi piace chiamare "l'Ideologia biblica" (che maturerà durante l'Esilio a Babilonia), intendendo per ideologia l'idea attorno alla quale si struttura il discorso di entrambi i Testamenti: "Dio, il liberatore, è padre e madre di tutto il genere umano. Egli è pure l'unico Creatore, il solo Signore di tutte le cose". Questi articoli di fede che sono i fondamenti dell'antico Credo biblico e del Credo niceno-costantinopolitano, che noi cristiani recitiamo tutte le domeniche nella Messa: "Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, Creatore e Signore del cielo e della terra..." andranno riconsiderati nella loro profondità se vogliamo che passino dal piano puramente intellettivo a quello della prassi.

Anticipando i tempi dello sviluppo storico possiamo qui ricordare come l'esperienza teologica dell'Esodo sarà completata da quella dell'Esilio. In questa seconda esperienza Israele giungerà a concepire Dio non solo come il Liberatore, ma anche come l'unico Dio di tutta la terra, Creatore e Signore delle cose create, e quindi Padre e Madre di tutto il genere umano. La ricchezza di questa nuova, e persino sconvolgente intuizione, confluisce nella grande parabola del Giardino dell'Eden, il Paradiso Terrestre, che non costituisce tanto un punto di partenza quanto di arrivo per la storia dell'umanità.
La parabola del Paradiso Terrestre é posta a specificare il progetto originale di Dio sulla Creazione, sulla storia; lo scopo che Lui aveva nel momento stesso in cui ha creato. E cioè un progetto d'amore rivolto ad una umanità, unica e unita. Credo non vadano sottovalutati i termini del racconto, per cui Adamo ed Eva formano un'unità: il testo dice infatti che l'Uomo era Adamo più Eva, incapace di rivolgersi allo stesso Dio fino a quando le due parti non si sono incontrate; e non parla, come fanno altri racconti mitici sull'origine del mondo, della creazione di diversi popoli. C'è dunque unità nel genere umano. Un'unità di cui Dio è Padre, e questa unità è anche del Giardino: non ci sono confini, non ci sono frontiere, non ci sono steccati al suo interno. Il progetto di Dio é quello di un'umanità che vive in armonia con se stessa… "erano nudi", perché non avevano niente da nascondersi: c'è una comunione profonda, perfetta all'interno del genere umano, giacché sono in comunione con Dio, il quale "passeggia con loro"; ma allo stesso tempo sono in comunione con la natura di cui sono custodi - non padroni - e godono tutti allo stesso modo dei beni della creazione, senza bisogno di farsi la guerra.
Nel giardino non manca niente a nessuno.

Quando Israele matura questa idea come progetto originario di Dio e quindi come suo compito storico, si rende conto di quanto in realtà faccia a pugni con l'esperienza: nella storia tale progetto non si é mai realizzato a causa dell'egoismo umano. Dalla schiavitù in Egitto a tante situazioni successive, anche dentro i propri confini e per colpa sua - che da vittima si è trasformato in carnefice - la vita di ogni giorno sconfessa la fede che professa. E allora, soprattutto per l'apporto dei Profeti, Israele comprende che esiste un peccato strutturale del Sistema, tanto più grave dei singoli peccati contingenti, che assume le proporzioni di una vera e propria apostasia: "se Dio ha un progetto sulla Creazione e per questo ha fatto di noi il suo popolo, ma la storia va per altre strade, allora significa che stiamo rinnegando la nostra Alleanza con Lui".

Giosuè aveva preannunciato che sarebbe stato difficile e compromettente, essere il popolo di Dio, e alle soglie della terra promessa chiese al popolo di fermarsi per considerare un'ultima volta, al compiersi delle promesse, se veramente fossero disposti a rinnovare l'alleanza con Lui, coscienti di quello che avrebbe comportato sul piano storico, economico e politico, non solo teologico.

L'Ideologia doveva ormai trasformarsi in Utopia, cioè in progetto storico concreto. Utopia non è qualcosa di impossibile, ma un progetto che pur trascendendo la realtà storica e compiendosi nell'"oltre", la riempie di significato e le dà forma, traducendosi in compito storico. Così la Santità, la Giustizia e la Pace, per quanto non le vedremo mai pienamente realizzate sulla terra (nel "già") non possiamo esimerci dal ricercarle e costruirle per tutto il corso della nostra vita, per poterle godere in pienezza nell'eternità (nel "non ancora"). Nella misura in cui Israele decide di essere fedele a questo Dio, entrerà nella terra promessa, ma rifiuterà l'istituto della monarchia, perché non potrà accettare che un Re sia padrone della terra, il cui unico signore é Dio; non potrà accettare soprattutto che un Re faccia da padrone sugli uomini, il cui unico Padre é Dio, il solo che possa decidere della loro vita. E questo si traduce allora in progetto politico: Israele non avrà una monarchia, ma una confederazione di tribù. E' l'epoca dei giudici, quando ogni tribù si autogoverna, grazie al servizio degli anziani, dentro quella che noi oggi chiameremmo una "confederazione di Stati autonomi". Nei momenti cruciali Dio manda il Giudice, un leader carismatico un po' condottiero, un po' profeta e un po' - appunto - giudice, che guida Israele nei momenti più delicati e difficili. Per qualche decennio si accarezzare l'idea che il progetto si stia compiendo, ma, come spesso accade, le cose belle durano poco, e Israele si lascia tentare dall'esempio dei popoli limitrofi, cioè dall'istituzione monarchica. Il Re dà sicurezza, è vanto nazionale… fa sentire importanti sulla scena internazionale. E' interessante notare la crisi, il conflitto ideologico e teologico che si genera in Israele, nel momento in cui alcuni gruppi dominanti vogliono a tutti i costi la monarchia, allorché i profeti, in particolare Samuele, leggono invece questo desiderio come un grave peccato di sfiducia nei confronti di Dio, come un rinnegamento, appunto, dell'ideologia originaria della Bibbia.

E poiché non demordono, interviene Dio stesso, rivolgendosi al profeta: "Ascolta la voce del popolo per quanto ti ha detto, perché costoro non hanno rigettato te, ma hanno rigettato me, perché io non regni più su di essi. Come si sono comportati dal giorno in cui li ho fatti uscire dall'Egitto fino ad oggi, abbandonando me per seguire altri dei, così intendono fare a te. Ascolta pure la loro richiesta, però annunzia loro chiaramente le pretese del re che regnerà su di loro" (1 Sam 8,7-9)

Merita attenzione il discorso che Samuele rivolge al popolo, nell'estremo tentativo di dissuaderlo: "Queste saranno le pretese del re che regnerà su di voi: prenderà i vostri figli per destinarli ai suoi carri e ai suoi cavalli, li farà correre davanti al suo cocchio, li farà capi di migliaia e capi di cinquantine; li costringerà ad arare i suoi campi, a mietere le sue messi, ad apprestargli armi per le sue battaglie e attrezzature per i suoi carri. Prenderà anche le vostre figlie per farle sue profumiere e cuoche e fornaie. Si farà consegnare ancora i vostri campi, le vostre vigne, i vostri oliveti più belli e li regalerà ai suoi ministri. Sulle vostre sementi e sulle vostre vigne prenderà le decime e le darà ai suoi consiglieri e ai suoi ministri. Vi sequestrerà gli schiavi e le schiave, i vostri armenti migliori e i vostri asini e li adopererà nei suoi lavori. Metterà la decima sui vostri greggi e voi stessi diventerete suoi schiavi. Allora griderete a causa del re che avrete voluto eleggere, ma il Signore non vi ascolterà" (1 Sam 8,11-18). Ma Israele ancora non si lascia convincere: "Il popolo non diede retta a Samuele e rifiutò di ascoltare la sua voce, ma gridò: "No, ci sia un re su di noi. Saremo anche noi come tutti i popoli; il nostro re ci farà da giudice, uscirà alla nostra testa e combatterà le nostre battaglie" (1 Sam 8,19-20). La situazione ormai oltre l'aspetto politico, investe evidentemente anche quello teologico.
E non si dovrà attendere troppo, in Israele, per vedere realizzata la parola del profeta.

Sorse così una classe dominante, sempre più ricca, che tradì progressivamente gli interessi del popolo, al punto che Dio intervenne nuovamente con l'invio dei profeti, uomini mandati a giudicare la storia, la politica e l'economia, alla luce della Sua Parola, alla luce dell'Alleanza, alla luce dell'idea originale, per puntare il dito contro l'ingiustizia ed i soprusi, che ora palesemente si compiono dentro gli stessi confini di Israele.

Ormai Israele non è più diverso dall'antico Egitto. Sul piano politico conta infinitamente meno, ma la sostanza è la stessa: in Israele i ricchi dominano i poveri, i potenti sfruttano i loro fratelli ridotti in schiavitù, e quindi "questa" storia non è più alternativa rispetto a quella che avevano vissuto nella terra dei faraoni. La parola dei profeti della prima generazione - di Amos in particolare, "il profeta della giustizia", ma anche del I Isaia, di Sofonia e Geremia - suona a minaccia: poiché Israele non è diverso dall'antico Egitto… come Dio ha rigettato l'Egitto rigetterà anche il suo popolo!

E' questo il contesto storico e teologico nel quale inizia a maturare, se non proprio la Legge, che verrà codificata più tardi, almeno il suo spirito. E' lo spirito della Torah che difende il diritto del povero e dell'oppresso.
Naturalmente la Torah é complessa, la si può leggere da diverse prospettive e non è riducibile a nessuna di esse: poiché il nostro tema è "Giubileo e migranti" assumeremo quella che più concerne l'aspetto dei migranti.

Mi sembra però imprescindibile contestualizzare tale prospettiva nell'orizzonte più grande della Legge come espressione della volontà di quel Dio che si prende cura del debole, dell'oppresso, dell'indifeso. Dentro la categoria del povero, che - non dimentichiamolo mai - non costituisce una minoranza ma la stragrande maggioranza della popolazione, allora come oggi (sebbene non sia così evidente nelle nostre città occidentali), si colloca il discorso sugli stranieri, che in Israele rappresentavano gli ultimi degli ultimi, poiché non potevano far valere neanche il fatto di essere figli di Abramo, fratelli degli altri.

Leggiamo alcuni brani che mi sembrano abbastanza significativi:

Deuteronomio 24,17-18

"Non lederai il diritto dello straniero e dell'orfano e non prenderai in pegno la veste della vedova, ma ti ricorderai che sei stato schiavo in Egitto e che di là ti ha liberato il Signore tuo Dio; perciò ti comando di fare questa cosa".

1 Re 8,41-43: Questa é la preghiera che Salomone rivolge a Dio nel momento della consacrazione del tempio:

"Anche lo straniero, che non appartiene a Israele tuo popolo, se viene da un paese lontano a causa del tuo nome perché si sarà sentito parlare del tuo grande nome, della tua mano potente e del tuo braccio teso, se egli viene a pregare in questo tempio, tu ascoltalo dal cielo, luogo della tua dimora, e soddisfa tutte le richieste dello straniero, perché tutti i popoli della terra conoscano il tuo nome, ti temano come Israele tuo popolo e sappiano che al tuo nome è stato dedicato questo tempio che io ho costruito".

e ancora, dal libro della Sapienza (19,13-17) (una rilettura della storia della salvezza e quindi della schiavitù in Egitto, dove si giunge a considerare l'Egitto più colpevole di Sodoma): "sui peccatori invece caddero i castighi non senza segni premonitori di fulmini fragorosi, essi soffrirono giustamente per la loro malvagità avendo nutrito un odio tanto profondo verso lo straniero. Altri non accolsero ospiti sconosciuti ma costoro ridussero schiavi ospiti benemeriti. Non solo ci sarà per i primi un giudizio perché accolsero ostilmente dei forestieri ma quelli dopo averli festosamente accolti, poi quando partecipavano già dei loro diritti, li oppressero con lavori durissimi; furono perciò colpiti da cecità come lo furono i primi alla corte del giusto quando avvolti fra le tenebre fitte ognuno cercava l'ingresso della propria porta".

Il filo conduttore dei diversi testi, che è possibile leggere quasi in filigrana dentro ogni situazione, é quello per cui Dio si mette dalla parte del debole, dalla parte dell'oppresso, dalla parte dello straniero e giudica, senza guardare in faccia nessuno, qualsiasi forma di politica, di economia e di società che perpetui il modello oppressivo dell'Egitto.

Ancora in Isaia (56,3-7) leggiamo:

"Non dica lo straniero che ha aderito al Signore: "Certo mi escluderà il Signore dal suo popolo!" Non dica l'eunuco: "Ecco io sono un albero secco!". Poiché cosi dice il Signore: "Agli eunuchi che osservano i miei sabati, preferiscono le cose di mio gradimento e restano fermi nella mia alleanza, io concederò nella mia casa e dentro le mie mura un posto e un nome migliore che ai figli e alle figlie, darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato, gli stranieri che hanno aderito al Signore per servirlo, e per amare il nome del Signore e per essere suoi servi quanti si guardano dal profanare il Sabato e restano fermi nella mia alleanza, li condurrò sul mio Monte Santo e li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera, i loro olocausti e i loro sacrifici saliranno graditi sul mio altare perché il mio tempio si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli "

Queste parole acquistano un significato ancora più forte se le contestualizziamo nel periodo di forte chiusura nazionalistica che Israele stava vivendo: il momento del massimo splendore del regno, quando non più schiavi ne' oppressi, ma finalmente liberi e potenti, si ritenevano perfino più importanti di quanto non fossero in realtà. I profeti mettono in discussione queste certezze e la parola di Dio giunge a delegittimare quella situazione prospera che Egli stesso aveva creato, ma l'egoismo dell'uomo aveva sconvolto. Dio la delegittima perché in Israele non ci si prende cura dell'oppresso e dello straniero. Così alle minacce dei profeti, rimaste inascoltate, fa' seguito nel 721 il crollo di Samaria e nel 587 la caduta di Gerusalemme. Entrambi questi momenti costituirono per Israele non solo un trauma politico, ma anche una crisi di fede: i sacerdoti e gli intellettuali fuggiti da Samaria e rifugiatisi al Sud, in Gerusalemme, che avrebbe resistito ancora per poco, vennero accolti nel circolo del tempio, e lì poterono sviluppare una amara riflessione, chiedendosi: "perché il Signore ci ha abbandonato in questo modo?, perché ha voltato le spalle al suo popolo?". La risposta, preannunciata, sarà: "perché abbiamo voltato le spalle al povero, al bisognoso e allo straniero".

Sul trono di Gerusalemme sedeva, in quel tempo, Ezechia, uno dei pochi re giudicati favorevolmente dalla Bibbia, il quale stava realizzando una riforma sociale, peraltro fallita. Il clima politico favorevole permise a quei sacerdoti ed intellettuali di elaborare alcuni scritti che, adeguatamente conservati, vennero ritrovati cent'anni dopo, nel 621 a.C., dal sacerdote Chelkia, e costituirono il "libro" base per la formazione del Deuteronomio, al rientro dall'Esilio. Lo scopo di questo libro fu il tentativo di "correre ai ripari": "se abbiamo commesso un così grande peccato e Dio ci ha abbandonato perché abbiamo voltato le spalle all'oppresso, al povero e all'indifeso, allora é su questo che dobbiamo ravvederci: fissiamo delle leggi per non violare più la sua volontà, altrimenti ci condanneremo in eterno ad essere abbandonati e dimenticati dal Signore".

Così inizia a consolidarsi la tradizione che garantisce il riposo al lavoratore, e quindi gli altri diritti sociali - noi diremmo "sindacali" e "religiosi" - per tutti: servi, stranieri… perfino per gli animali! E' la Legge del Sabato, che si svilupperà in quella dell'Anno Sabbatico: ogni sette anni bisogna rimettere a posto le cose: cancellare i debiti, liberare gli schiavi, ridistribuire in parti eque la terra e lasciarla riposare per tutto l'anno.

Queste quattro esigenze emergono, come diretta conseguenza, dalla natura stessa della nostra fede in Dio, Padre e Signore di tutte le cose. Se infatti Dio é riconosciuto Padre e Madre di tutto il genere umano, allora si comprende come Egli - al pari dei padri di questo mondo - voglia distribuire in parti uguali tra i figli la "sua eredità"; e poiché é l'unico Creatore e Signore - cioè l'unico a cui appartengono le cose create - è anche il solo ad avere diritto di stabilirne la destinazione. Ora, poiché sua volontà è l'equa distribuzione tra tutti i suoi figli, non c'è alcun sistema politico o economico sulla terra che possa decidere diversamente, senza con questo usurparne il diritto. Così Israele raggiunge il vertice della sua maturazione morale e comprende come, date certe premesse, ogni forma di ingiustizia sociale, che si compie sulla terra, non sia solo un peccato contro l'uomo, ma un grave peccato contro Dio, una profanazione della sua Paternità, una sconfessione della Sua Signoria sul Mondo. Questo peccato che intacca le strutture stesse della convivenza umana, e perciò chiamiamo "sociale", si rivela così una vera e propria apostasia.

Credo che questo asserto, valga ai nostri giorni non meno che ai tempi dell'Antico Testamento. Celebrare l'Eucaristia ogni domenica, professando il Simbolo della fede: "Credo in Dio, Padre onnipotente, Creatore e Signore del cielo e della terra…", e condividere (o essere conniventi che è lo stesso) un sistema economico e politico che non Lo riconosce e ne usurpa le prerogative, è non solo contraddittorio, ma una nuova - quanto vecchia - forma di apostasia. "Non potete servire a due padroni… non potete servire a Dio e a mammona (il denaro)". Dal punto di vista morale dobbiamo anzitutto recuperare questa coscienza. La nostra fede ci impone di rifiutare ogni sistema che nell'ideologia o nella pratica si attribuisce le prerogative di Dio. Non è in gioco solo la giustizia umana, ma l'opzione fondamentale della vita e quindi la salvezza eterna.

Intanto, nel 587, anche Gerusalemme crollò e iniziò il grande Esilio a Babilonia. Esilio che per Israele fu una nuova e più grande crisi di fede. "Sui fiumi di Babilonia…" tornarono a chiedersi: "perché Dio ci ha abbandonato?". E allora i profeti della seconda generazione, Ezechiele e il II Isaia tra gli altri, offrirono per l'accaduto una chiave di lettura già conosciuta: Dio vi ha abbandonato perché non avete ascoltato la parola dei profeti, perché avete dimenticato l'alleanza, perché avete continuato a non curarvi degli oppressi.
Amos lo aveva preannunciato alle donne di Samaria:

"Ascoltate queste parole,
o vacche di Basàn,
che siete sul monte di Samaria,
che opprimete i deboli, schiacciate i poveri
e dite ai vostri mariti: Porta qua, beviamo!
Il Signore Dio ha giurato per la sua santità:
Ecco, verranno per voi giorni,
in cui sarete prese con ami
e le rimanenti di voi con arpioni da pesca.
Uscirete per le brecce, una dopo l'altra
e sarete cacciate oltre l'Ermon,
oracolo del Signore." (Am 4,1-3)

… e così fu. E ancora lo stesso profeta aveva denunciato che al mercato di Samaria un povero era venduto schiavo al prezzo di un paio di sandali:

"Così dice il Signore:
"Per tre misfatti d'Israele
e per quattro non revocherò il mio decreto,
perché hanno venduto il giusto per denaro
e il povero per un paio di sandali" (Am 2,6)

Particolare poi confermato dall'archeologia che ha rinvenuto i listini dei prezzi che si facevano a Samaria … se provassimo a calcolare quanto costa oggi mantenere un bambino nel sud del mondo e quanto costano i sandali di marca, scopriremmo che oggigiorno i bambini e i poveri costano molto meno di un paio di sandali!

Tornati dall'Esilio nel 538, inizia la grande ricostruzione e ancora si scontrano due diverse tendenze. Da un lato coloro che vogliono ricostruire la nazione a partire dalle strutture e dalle istituzioni, il tempio prima fra tutte; dall'altro il III Isaia, che è una comunità di profeti, si scaglia contro tale progetto e indica come sia piuttosto necessario ricostruire a partire dalla coscienza del popolo, per non ricadere nell'antico errore. E ricostruire la coscienza del popolo significa proclamare un anno sabbatico, un anno nel quale riaffermare la centralità del progetto originale di Dio. E' in questo contesto, che vengono rielaborati gli antichi testi liturgici e giuridici.

Così viene definitivamente codificato il Deuteronomio, ma …con una punta di realismo, che al tempo stesso è una caduta di tono. Gli Autori sacri si rendono conto che è pura illusione proporre un Anno Sabbatico ogni sette, perché risulta impossibile convincere i facoltosi a ridistribuire le terre, liberare gli schiavi e condonare i debiti così frequentemente. Tentano allora di prescriverlo almeno una volta ogni cinquant'anni: se non ogni sette anni, almeno ogni sette settimane di anni! Ma i biblisti sono concordi nel ritenere che neanche così si realizzò, poiché è sempre "più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel (nella logica del) Regno di cieli" (Mt 19,24).

Solo quella volta, appena tornati da Babilonia, si è forse celebrato qualcosa di simile, perché, dovendo ristrutturare lo stato, fu imposto con la forza. Gli esiliati avevano perso tutto, e coloro che erano rimasti ne avevano approfittato… andavano dunque riequilibrate le cose, anche perché - guarda caso! - ad essere deportata era stata la classe dirigente e non la povera gente. Ma negli anni successivi, il Giubileo non si celebrò più.
Restò dunque un ideale prescritto e "incompiuto", e con ciò la storia della Salvezza giunse alle soglie del Nuovo Testamento.

Il Nuovo Testamento

All'inizio della sua missione, Gesù si presentò nella Sinagoga di Nazareth come "l'unto del Signore" inviato ad inaugurare il Regno di Dio, e a proclamare un "Anno del Signore", quale strumento principale della sua realizzazione. L'Antico Testamento trovava così in lui il suo compimento e anche la tradizione giubilare veniva riscattata.

 

Gesù di Nazareth, Giubileo di Dio per l'uomo

Ma, a questo punto, è necessario superare una visione esclusivamente liturgica e celebrativa o canonica del Giubileo per rileggerlo, piuttosto, in termini cristologici. Dobbiamo cioè comprendere come il Giubileo non sia soltanto una "festa" o un "comando", ma Gesù stesso. Come Don Giovanni Moioli ci ha insegnato a non parlare di "escatologia" in termini astratti, ma dell'Escatologico Cristiano che è il Cristo, così anche del Giubileo credo si debba parlare in termini cristologici, riconoscendo che Gesù è il nostro Giubileo. Se per Giubileo infatti intendiamo la riconciliazione con Dio, la rinnovazione del suo progetto originario che porta a pienezza tutte le cose, e ci rende la gioia dell'umanità ritrovata, ebbene tutto questo è solamente Gesù. E' Gesù che ci salva. E' Gesù che ci riconcilia con Dio, è Gesù che dona vita in abbondanza a tutti. E allora, come ci ricorda Paolo, sarà guardando a Lui e imitando i suoi sentimenti (cfr. Fil 2,5), che sapremo celebrare il Giubileo. Non cioè rincorrendo tutte le indulgenze e i santuari, quasi fosse una "grande caccia al tesoro spirituale" ma piuttosto nell'identificarci con Lui, nel "rivestirci di Cristo" che trasforma integralmente la vita del discepolo e non si esaurisce nel breve spazio di un anno (questo è pure un importante spunto per la formazione di una spiritualità adulta e matura).

Per questo Gesù proclama l'"Anno del Signore" in termini assoluti: non è semplicemente una scadenza temporale ritmata dal nostro calendario, ma l'inizio della Nuova Era, che grazie alla sua Pasqua non avrà più fine. Il discorso nella Sinagoga di Nazareth è dunque il suo manifesto, il programma della sua missione, che ci offre citando il profeta Isaia:" Sono stato mandato per rimandare liberi gli oppressi, sanare, i cuori affranti e proclamare l'anno di grazia del Signore" (Lc 4,18ss).

Tutta la missione di Gesù potremmo allora leggerla in chiave giubilare: gli incontri che Lui ha avuto sono stati incontri "giubilari", le parole che ha detto sono state parole "giubilari"… Facciamo qualche esempio. Il più evidente mi sembra il caso di Zaccheo, un uomo lontano da Dio, non riconciliato con Lui, tanto meno con il suo popolo e neanche con se stesso… ma quando Gesù lo incontra e gli offre gratuitamente la sua amicizia e la riconciliazione con Dio, Zaccheo pieno di Giubilo si converte, cambia vita, restituisce quattro volte tanto quello che ha rubato e dà la metà dei suoi beni ai poveri. Questo è davvero un Giubileo, e in questa linea possiamo leggere anche tutti gli altri incontri di Gesù, fino all'anti-Giubileo per eccellenza che è l'incontro con il "giovane ricco" (Mc 10, 17-22). Lui non fu pieno di Giubilo, ma, secondo Marco, "se ne andò triste" perché non aveva avuto il coraggio di condividere le sue ricchezze. In questa prospettiva possiamo leggere tutto il ministero di Gesù.

Il Giubileo inoltre non doveva limitarsi ai confini di Israele, ma raggiungere ogni angolo della terra, secondo quella apertura universalistica già presente nell'Antico Testamento, nella riflessione dei profeti e della Genesi, poi rimasta incompiuta e ora definitivamente portata a maturazione nella predicazione e nella prassi di Gesù.

In questo senso va' ricordato il brano già citato di Luca 4 con riferimento a Naman il Siro e alla vedova di Sarepta di Sidone, e l'incontro con il Centurione, che lo prega per la guarigione del servo, quando Gesù esclama: "Non ho mai trovato una fede così grande in Israele!"(Lc 7,1-10). Così anche l'incontro con la donna siro-fenicia (Mc 7,24-30), quando Gesù per un attimo assume la posizione paradossale dei suoi contemporanei: "Lascia prima che si sfamino i figli; non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini", facendo esplodere dall'interno la situazione e mettendo i suoi discepoli di fronte all'evidenza che colei che loro considerano straniera, e perciò esclusa, ha in realtà una fede più grande della loro. Un valore del tutto paradigmatico riveste poi il racconto del buon samaritano (Lc 10,29-37).

Gesù, in questo modo, pone i suoi discepoli, contemporanei e futuri, di fronte a questa evidenza: non solo non è lecita nessuna forma di discriminazione nei confronti degli stranieri, ma bisogna perfino imparare da loro quanto alla fede (perché alcuni ne mostrano più degli stessi israeliti) e vanno imitati nella carità. La contrapposizione tra il Samaritano, il sacerdote e il levita sembra fatta apposta per provocare la rottura definitiva, essendo un pugno nello stomaco di coloro che da secoli lo aspettavano.

La dimensione teologica (o verticale-spirituale) e quella sociale (o orizzontale-concreta) del Giubileo si integrano infine nel "Padre Nostro", che si rivela la preghiera del giubileo per eccellenza, nella complementarietà delle due versioni giunte a noi. Nel Vangelo di Matteo (Mt 6,9-13) e in quello di Luca (Lc 11,2-4) le redazioni differiscono infatti leggermente. Il passo in questione è quello che recita "rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori". Così nella versione di Matteo, che è quella con cui recitiamo abitualmente questa preghiera. La differenza sta nella prima parte: "rimetti a noi i nostri debiti". Luca usa il termine greco "hamartias" a cui corrisponde la parola italiana "peccato", mentre Matteo usa il termine "ofeilémata" da tradurre con "debiti", nel senso economico del termine. La differenza c'è, ed è interessante vedere come, partendo da due situazioni diverse, la conclusione è la stessa. La comunità di Matteo è un comunità oppressa dal problema dei debiti materiali e chiede a Dio che sia proclamato un Giubileo per togliergli da dosso questo grosso peso: "Rimetti a noi i nostri debiti e noi rimetteremo agli altri quei pochi debiti che hanno con noi". Siamo, per intenderci, nella logica della parabola del servo, quello al quale viene condonato tanto dal padrone e dovrebbe fare altrettanto col compagno (Mt 18,23-35). La situazione della comunità di Luca è diversa. Una comunità non oppressa dai debiti, ma dal proprio peccato, offre a Dio la stessa cosa, di condonare cioè i debiti economici che altri hanno nei loro confronti in cambio del perdono dei peccati: "Tu perdonaci e noi impareremo da questo, a condonare agli altri i loro debiti". Mi sembra importante sovrapporre queste due versioni del Padre Nostro perché le due prospettive si completano a vicenda: il rapporto con Dio, e il rapporto con i fratelli vanno di pari passo. Ciò che bisogna offrire a Dio, in cambio del suo perdono o della proclamazione di un anno giubilare che liberi da una situazione oppressiva, è in entrambi i casi quello che Dio vuole, cioè la giustizia sociale sulla terra.

Negli Atti degli Apostoli, vediamo consolidarsi nel nuovo popolo, la Chiesa, le stesse dinamiche. Vorrei qui citare il brano della Pentecoste (At 2,1-13). Vi offro di questo avvenimento la lettura che ne fa Pablo Richard, un teologo latino americano di origine cilena. Pablo legge il primo versetto del secondo capitolo in modo leggermente diverso da quello offertoci nella versione CEI secondo cui "tutti erano raccolti nello stesso luogo". La traduzione letteraria dice che "tutti erano raccolti col medesimo intento". Secondo Pablo, questo "medesimo intento" era quello di restaurare la comunità giudaica, perché nel brano precedente viene riportato un episodio abbastanza particolare. Gesù era asceso al cielo raccomandando agli Apostoli di non fare niente fino a quando non avrebbero ricevuto il dono dello Spirito. Ed ecco invece che scelgono Mattia per prendere il posto di Giuda e ristrutturare così l'antico gruppo giudaico. La caratteristica dell'eletto doveva essere infatti quella di essere un discepolo della prima ora (At 1,21-26). Evidentemente tutto ciò contraddice il comando di Gesù, e tradisce il bisogno della comunità primitiva, comunità strettamente giudaica, di guardare al passato e di cercare sicurezza nella ricostruzione della situazione che fu, integrando non uno straniero, ma ancora una volta un giudeo nella comunità apostolica. Pablo fa notare come, nel momento in cui erano ancora raccolti con la "medesima intenzione" di consolidare l'esistente, irrompe lo Spirito con una manifestazione violenta di vento e fuoco, e, facendo esplodere dall'interno questa situazione, butta "fuori" (non solo in senso figurato) la comunità e la obbliga ad incontrare anzitutto gli stranieri che sono presenti a Gerusalemme. Da questo momento la comunità apostolica non sarà più una comunità etnica, ma diventa una comunità universale. Il seguito del libro degli Atti ci testimonia quanta fatica e quante resistenze ci saranno ancora nella comunità giudaica, fino al Concilio di Gerusalemme, dove si risolverà definitivamente la scontro tra la tendenza universalista di Paolo e quella giudaica di Pietro.

Pensiamo pure a quella bellissima pagina del libro degli Atti, che ci parla di Pietro in casa di Cornelio, dove un'espressione davvero eccezionale esprime allo stesso tempo la fatica umana di Pietro, per aprire la sua mentalità chiusa ad accogliere gli stranieri, ma anche l'onesta dell'uomo di Dio, che non può fare a meno di arrendersi alla Sua volontà: "In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto" (At 10,34-35).

Ormai ogni pretesa di circoscrivere tutto nei nostri limiti - pur nel rispetto degli altri popoli tenuti a debita distanza - viene definitivamente annientata dal dono dello Spirito.

L'ultimo testo che vorrei ricordare per il suo valore escatologico è quello del "giudizio universale" di Matteo 25. I criteri del giudizio ultimo e definitivo sono anche quelli con i quali Dio vuole che si costruisca la storia: "avevo fame, mi avete dato da mangiare? avevo sete, mi avete dato da bere? ero nudo, mi avete vestito? ero straniero, mi avete ospitato? ero ammalato e in carcere, siete venuti a trovarmi?".
A partire da questi criteri veramente universali, perché di patrimonio comune alle diverse religioni e anche alle coscienze più laiche, ed in particolare - per quello che ci riguarda - dalla domanda: "ero straniero, mi avete ospitato?" dovremo ripensare tanto il Giubileo - …non mi pare che questo del 2000 l'abbia presa in seria considerazione - quanto la nostra intera vicenda di credenti; se non altro perché un giorno dovremo renderne conto!

Conclusione

Da questa lettura storico-teologica traiamo qualche semplice conclusione.

1. Mi sembra da quanto emerso che il tema degli stranieri sia strettamente connesso a quello del Giubileo lungo tutto il corso del suo sviluppo storico-biblico. Anzitutto è la condizione della prima rivelazione. Israele è straniero nel momento in cui Dio si rivela e questa situazione caratterizza fin dall'inizio la sua concezione di Dio. E' una delle categorie per le quali Dio si qualifica come il "difensore", ma anche come il "confessato".
Se già infatti nell'Antico Testamento Dio dice "io difendo lo straniero", in Gesù addirittura dirà: "guardate gli stranieri come confessano il mio nome, imparate da loro".
Questo ci obbliga a considerare lo straniero non solo nella categoria del "bisognoso", ma anche in quelle del "testimone" e di colui che ha qualcosa da offrirci. Non ultimo un esempio di fede e di carità da imitare. Una grossa lacuna della nostra mentalità fa sì che ci ostiniamo a considerare il povero solo come oggetto di assistenza e non lo riconosciamo quale potenziale soggetto storico; protagonista della propria storia e di quella universale. Questo aspetto fondamentale dovrebbe essere recuperato nell'anno del Giubileo.

2. Vi è inoltre il tema dell'universalismo che da Genesi 1 e 2-3 a Isaia 2,2ss - "Alla fine dei giorni sul monte del tempio del Signore verranno tutti i popoli", citato da Gesù in Lc 13,29: "Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e sederanno a mensa nel regno di Dio" - attraverso i Vangeli, passando per Atti fino al grande sogno della "moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua" dell'Apocalisse (7,9), si rivela quale progetto originario di Dio sull'umanità, e quindi compito storico per i suoi fedeli. Ogni scelta politica o economica, dettata da ragioni egoistiche di accaparramento dei beni della creazione, che vada nella linea di un settarismo etnico va' smascherata e denunciata come contraria al progetto di Dio e quindi incompatibile con la fede cristiana. I discepoli del Risorto in nessun momento storico e per nessun motivo potranno scendere a compromessi con tali logiche.

3. Mi sembra inoltre che non possiamo pensare al Giubileo a prescindere dall'antropologia cristiana, ovvero dalla confessione principale della nostra fede che ci fa chiamare Dio col nome di Padre, e conseguentemente riconoscere gli altri come "fratelli e sorelle". Una cosa gravissima che sta' avvenendo nelle nostre città, è lo smantellamento "a picconate" dell'antropologia cristiana, senza che alcuno - neanche quelli predisposti alla cura della fede dei fratelli - se ne vogliano rendere conto: il termine "extracomunitario" è entrato nel lessico comune. E' la fine dell'Ecumene! Se abbiamo insegnato ai nostri figli a chiamare l'altro "straniero" e non più "fratello" e "sorella", l'antropologia cristiana è minata.
Mi impressiona costatare come la stessa Conferenza Episcopale Italiana, così preoccupata del "progetto culturale" e della "cultura cattolica" non si renda conto di quello che sta avvenendo. Oggi in Italia non si va' al potere in forza di buoni programmi elettorali, ma - da destra a sinistra - promettendo di "cacciare lo straniero", indiscriminatamente criminalizzato, e distruggendo in questo modo qualsiasi cultura della solidarietà e della giustizia, nonché della fraternità. Questo, dovrebbe comportare come pratica del Giubileo, una forte presa di posizione culturale e politica.

4. Anche noi siamo ad un bivio, come Giosué a Sichem: dobbiamo decidere se continuare a confessare la nostra fede nel Dio biblico, avendo il coraggio, come i profeti, di scontrarci con un sistema politico ed economico avverso a Lui o sconfessarlo. Oserei dire che dobbiamo scegliere tra il Cristo e l'anticristo. Se infatti l'anticristo non è un essere mitologico, ma lo storicizzarsi di un progetto alternativo a quello che Dio ci ha rivelato nel Cristo; se l'anticristo è qualsiasi potere economico e politico che nella storia usurpa il posto di Dio, il ruolo salvifico del suo Cristo (l'Alfa e l'Omega, la prima e ultima parola che svela il senso della nostra vita) e pretende di dire l'ultima parola sull'uomo e sulla storia, allora siamo davvero di fronte ad una nuova manifestazione dell'anticristo! Quando il giapponese Fukuyama, uno dei massimi intellettuali contemporanei del Neoliberismo, dice che "con il Neoliberismo siamo giunti alla/al fine della storia", e che "fuori dal Capitalismo non c'è salvezza", il Cristiano dovrebbe immediatamente rendersi conto della consistenza di tale pretesa. Per noi il fine della storia è Cristo e "in nessun altro c'è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati" (At 4,12). Se questo sistema economico si concepisce come il fine della storia, il suo punto di arrivo e, in forza di questo, si arroga il diritto di dire l'ultima parola sull'uomo; di stabilire chi ha diritto di vivere e chi no; si permette di dichiarare 1/5 dell'umanità in esubero, allora siamo davvero in presenza dell'anticristo, di un Sistema cioè che vuole usurpare il posto di Cristo. Come credenti, non possiamo non scontrarci. Questo avrà inevitabilmente delle conseguenze: vorrà dire, magari, scontrarci con i nostri alleati di oggi, perdere privilegi consolidati negli anni, avere il coraggio, come Chiesa, di tornare a vestire i panni della minoranza, e così mettersi veramente dalla parte dei poveri, cioè di Dio.
Il Giubileo fin dall'inizio voleva essere precisamente un'opzione per i poveri, mediante una rottura storica, capace di ridare a Dio il primato sulla storia. Va' dunque ripensata tutta la tematica degli stranieri non solo in chiave caritativa, ma anche culturale e teologica.

5. Questo significa anche affrontare il problema del Debito Estero con più coraggio e senza mezze misure, a differenza, purtroppo, di quello che sta avvenendo. Credo che il Prof. Moro abbia spiegato in maniera stupenda, per conto della Conferenza Episcopale Italiana, come si è formato il cosiddetto "debito estero". Ovvero ci ha spiegato che il "debito estero" non è un debito. Un debito è qualcosa che devo restituire perché ho preso, ma qui si tratta di un "qualcosa" che in realtà, è il risultato di una serie di manovre e speculazioni a livello internazionale. I popoli del sud del mondo, ci ricordano inoltre che queste speculazioni non le hanno fatte loro, ma le hanno subite fin dall'inizio. Celebrare il Giubileo vorrà dire allora fare proprio il grido dei popoli del Sud del mondo che dicono "il debito non c'è non va pagato". Solo dopo, in un secondo momento, potremo dire "il debito non c'è, ma ci sono le sue conseguenze" e allora non sarà più equivoco raccogliere aiuti per questi popoli; ma "soltanto dopo" aver rotto ogni rapporto e complicità con il sistema economico e gli organismi che l'anno creato e… continuano a tenerlo in vita. Temo invece che la "Campagna per la riduzione del debito estero" della CEI, così com'è strutturata, finisca piuttosto per legittimare il debito. Perché al di là delle sottili spiegazioni che la gente non riesce a comprendere, il messaggio che sta' passando è questo: "diamo un mano a pagare il debito, perché quei poveretti da soli non ce la fanno". Bisognava piuttosto avere il coraggio di dire: "Il debito non c'è e non va pagato! Per questo pretendiamo che questo giogo ingiusto sia rimosso!" E così spiegare alla gente non solo come il "debito" si è creato, ma anche che è lo strumento attraverso il quale le economie del Nord del Mondo tengono al guinzaglio quelle del Sud; spiegare perché i grandi del mondo fingono di ridurlo ma ne conservano bene quel tanto che basta a non cambiare niente, perché altrimenti sarebbe una vera rivoluzione economica, che nessuno vuole - tranne Dio - che ci obbligherebbe a ridistribuire le ricchezze della creazione secondo il Suo progetto originario, nello spirito del Giubileo. Ma questo non abbiamo il coraggio di farlo.

6. Infine dovremmo ripensare il tema della Terra, anzitutto nella sua Simbologia di Sostentamento, molto esplicita nell'Antico Testamento. Allora si trattava di ridistribuire i campi, oggi che non siamo più contadini, assume evidentemente altre valenze. Ridistribuire la Terra oggi, significa ridistribuire le risorse naturali, le risorse della Creazione, e gli strumenti per potervi accedere; così anche ripensare l'illegalità delle frontiere, che nella concezione comune sono ormai ritenute del tutto naturali. Ma il fatto che non sappiamo o non vogliamo ancora a farne a meno, non può farci perdere coscienza della loro illegalità. Quando Dio ha creato il mondo non c'erano le frontiere e se per qualche motivo sono state inventate non possono perpetuarsi come strumento attraverso il quale continuare ad opprimere i popoli, negando loro il riconoscimento dei diritti universali. Soprattutto dovremmo ripensare il tema della Terra nella sua materialità. Quando parliamo di popoli migranti, che vengono nelle città del Nord, dovremmo dire non già che invadono la Terra d'altri, ma che vengono nella "loro" terra, poiché, lo ammettiamo o no, qui c'è gran parte delle loro terre. Quel benessere che abbonda da noi e manca da loro, sotto forma di generi alimentari, di petrolio, di minerali, è "Terra" che noi continuamente preleviamo nei paesi del Sud del mondo e portiamo qua. Se in Europa ci si muove con il petrolio, se tutti i frutti delle loro terre si trovano qua… è loro diritto venire a godere i frutti delle loro terre! A questo proposito credo sia illuminante e insuperato un passo della Pacem in Terris di papa Giovanni XXIII. E' il §. 10 dell'enciclica (nella versione italiana in Enchiridion Vaticanum vol. II ed. 10 EDB), dal titolo: "Diritto di emigrazione e di immigrazione": "Ogni essere umano ha il diritto alla libertà di movimento e di dimora nell'interno della comunità politica di cui è cittadino; ed ha pure il diritto, quando legittimi interessi lo consiglino, di immigrare in altre comunità politiche e stabilirsi in esse (cfr. Radiomessaggio natalizio di Pio XII, 1952). Per il fatto che si è cittadini di una determinata comunità politica, nulla perde di contenuto la propria appartenenza, in qualità di membri, alla stessa famiglia umana; e quindi l'appartenenza, in qualità di cittadini, alla comunità mondiale".
Questa riflessione dovrebbe essere approfondita per ripensare il Giubileo come necessità di restituire a ciascuno il suo.

Vorrei infine citare una riflessione di Don Tonino Bello, già vescovo di Molfetta e presidente di Pax Christi Italia:

"Alcune sere fa quando Ruvo (è una città della mia Diocesi) era ammantata della neve di questo stranissimo inverno, volli andare a trovare un gruppo di marocchini. Sapevo che da mesi vivevano in una stalla. Mi ci condusse Mohammed, il quale da tempo mi supplicava di fare qualcosa per i suoi compagni. Lui, grazie ad Allah, era stato fortunato: dormiva in un garage, dove l'unico inconveniente non era tanto la mancanza di un bagno o dell'acqua, quanto l'odore amarognolo della benzina che lo perseguitava anche di giorno. Nella stanza, tra gli escrementi degli animali e gli arnesi della campagna, vivevano i compagni di Mohammed, sei giacigli senza federe; due finestre riparate dai cartoni lasciano entrare ogni tanto uno spruzzo di neve. Mi dissero che nelle lunghe notti d'inverno si scaldavano sedendosi l'uno sui piedi dell'altro. Mohammed abbassò il volume di una radiolina che trasmetteva malinconiche nenie impregnate di deserto. Da noi in Puglia si captano bene i programmi del Marocco. Mi raccontarono delle loro case lontane, di donne in attesa, di amori interrotti. Mohammed estrasse la fotografia dei suoi figli, tanti. Poi ripeté: "Fai qualcosa per questi miei compagni. Non per me, io grazie ad Allah, mi sento fortunato. Lo disse quasi con arroganza, come se lui avesse affittato un attico ai Parioli, ma negli occhi profondi aveva un'indicibile tristezza. Lo so che qualcuno forse troverà irriverente che io con la pelle intrisa di stalla mi metta a scrivere della Santissima Trinità. Ma non posso nascondervi che quella sera, mentre tornavo a casa, mi sono sentito interiormente contestare. E proprio dal mistero delle "Tre Persone Uguali e Distinte", uguali al punto che il Padre non è più grande del Figlio e lo Spirito non è inferiore ne all'Uno né all'Altro. Ma perché mai l'Eterno è venuto a raccontarsi nel tempo se non per introdurre nella storia l'esigenza totalizzante della pari dignità tra gli uomini, che poi è il principio di ogni comunione vera. Che cosa ha spinto Gesù a svelarci questo segreto se non il bisogno di costringerci al rifiuto di ogni discriminazione di razza, di cultura, e di ricchezza e perché dopo tanti secoli di cristianesimo l'ingiustizia imperversa e il potere dell'uomo sull'uomo, umilia ancora la turba dei poveri, ma perché sui banchi di teologia abbiamo consumato tanto tempo per studiare l'uguaglianza delle persone divine, se poi non alziamo la voce per mettere in discussione questo perverso sistema economico, che uccide ogni anno 50 milioni di fratelli? In Somalia ogni giorno muoiono 1000 persone! Sono notizie che ci hanno reso dalla Caritas. Muoiono di fame! Che senso ha questo mistero della fede se poi non muoviamo un dito per denunciare la segregazione razziale del sud Africa, ma anche l'apartheid ignobile che si pratica in alcune scuole delle nostre città? Che senso hanno i nostri segni di croce, nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, se non ci battiamo perché a tutti gli oppressi del mondo, ma anche a quelli del primo e del secondo mondo, vengano riconosciuti i più elementari diritti umani? Dobbiamo riuscire a capire che le ingiustizie (anche quelle nostre, private) non sono solo causa di tutte le guerre, ma sono anche eresie trinitarie perché contrastano il fondamentale cardine della vita trinitaria: l'uguaglianza.
Ho letto una pagina di Martin Luther King che diceva: "Ho fatto il sogno che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli degli antichi schiavi e i figli degli antichi schiavisti saranno capaci di sedere assieme alla tavola della fratellanza. Ho fatto il sogno che un giorno anche lo stato del Mississipi, uno stato soffocante per l'afa dell'oppressione, sarà trasformato in un oasi di pace e di giustizia. Ho il sogno che i miei quattro bambini un giorno vivranno in una nazione in cui non saranno giudicati per il colore della pelle, ma per il contenuto del loro carattere. Ho un sogno...".
Ognuno di noi ha un tratto intrasferibile e ci dovremmo opporre a tutte le omologazioni di massa che vengono fatte; a tutte le voracità della nostra cultura che intende omologare le altre culture per allivellarle come se passasse un bulldozer.
Dio invece pratica la distinzione".

Alberto Vitali



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