L'estremismo della Pace



Avevo deciso di accantonare la questione, dopo che un periodico della mia diocesi mi aveva già offerto la possibilità di rispondere ad alcuni illustri opinionisti che, nelle scorse settimane, si erano cimentati dalle colonne dei maggiori quotidiani nazionali a discutere la pertinenza degli interventi del papa sulla pace: divisi nel giudizio sul papa, concordi nel condannare senza misura l'estremismo dei "soliti" pacifisti; ancor più insopportabili se cattolici. Avevo quindi pensato che non valesse la pena di perdere altro tempo perché se è certamente un dovere cristiano dialogare con tutti e a tutti offrire le proprie ragioni, è altrettanto vero che non c'è più sordo di chi non voglia sentire. Ma, ancora una volta, è stata una persona semplice a farmi cambiare idea: "don Alberto, secondo lei sono estremista se ritengo che la guerra non sia mai accettabile?". Da dove le veniva questo dubbio e chi glielo aveva messo in testa? Guardandola, ho però capito che la misura per me era di nuovo piena e il discorso si stava riaprendo: se c'è una cosa che proprio non riesco a sopportare è che "burattinai di parole" - profumatamente pagati per effondere il loro libero pensiero - usino la cultura (?!) per confondere i semplici; per seminare sconcerto in coloro che, privi di diplomi o titoli accademici, hanno però una scienza superiore delle cose, laureati come sono alla scuola della vita. Incapaci, certo, di elaborare un sofisticato sistema di pensiero, e perciò spesso impossibilitati a controbattere, intuiscono ciononostante con più profondità la verità degli eventi… forse perché "il Padre che sta nei cieli - che birbone! - si è compiaciuto di nascondere queste cose ai dotti e ai sapienti, e di rivelarle ai piccoli" (cfr. Lc 10,21). Intanto, pur ascoltandola, vago con la mente, inseguendo svariati ricordi biblici che questo inaspettato incontro mi suggerisce. Si chiama Anna, è molto avanti negli anni, e mi ferma al termine della messa: come non pensare ad un'altra vegliarda di nome Anna, che nel tempio di Gerusalemme proclamava le grandi opere di Dio, mentre i dotti dell'epoca non ci capivano niente? (cfr. Lc 2,36) E chissà se certe analogie sono veramente casuali…? Ma la forza delle sue parole, e soprattutto dei suoi ricordi, mi riporta con i piedi per terra, nel nostro tempo: lei non ha bisogno di farsi spiegare la guerra da Bush o da Blair, o da qualsiasi guerrafondaio di turno, perché se la ricorda bene. La ricorda - mi dice - come il tempo in cui mangiava le bucce delle patate, perché non aveva altro, ed il problema più grosso era quello di sfamare (si fa per dire) i suoi quattro figli. Peggio, la ricorda come quella cosa orribile che l'ha lasciata vedova di un marito "disperso" in Russia; e quella parola indefinita "disperso" - lasciandole un'improbabile speranza - ha fatto sì che non si risposasse più. Perciò Anna la odia e trova del tutto naturale che il papa tuoni contro la guerra! Ma ci sono altre parole, diverse da quelle del papa, che ora tornano a confonderla. Parole che alcuni vorrebbero sacre, ma riemergono come antichi fantasmi dai tempi più bui del sonno della ragione e dall'oblio dove avevamo tentato di affogarle: nemico, guerra, onore, dovere, eroismo… associate ad altri vocaboli, certamente più leciti, ma sinistramente congiunti in un lugubre discorso: patria, bandiere, inni, sacrificio… Beninteso: non voglio negare il significato della nostra identità culturale o nazionale, ma ogni tentativo di strumentalizzare questi valori per usarli a pretesto di contrapposizioni e violenze, di scontro anziché di incontro. Quanto suonano attuali - oggi più di allora - le parole che don Milani scrisse ai cappellani militari toscani, nel 1965: "Non discuterò qui l'idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri"… Continuo ad ascoltarla, ma intanto il mio sguardo si allarga alle nostre comunità, civili e cristiane: duemila anni di cristianesimo e, sebbene a malincuore, molti accetterebbero con più naturalezza l'ipotesi di una guerra che un discorso rigoroso sulla pace da perseguire con metodi non violenti! Cos'è, dunque, che non ha funzionato? La risposta me la offre proprio Anna, involontariamente, tra le pieghe del racconto. Secoli di teoria (e teologia) della "guerra giusta"... L'enfasi posta sull'eroismo dei nostri soldati, anche quando - come sottolinea lo stesso don Milani, in una dettagliata analisi che sviluppa nel proseguo della lettera - la Patria li ha mandati a combattere una guerra più ingiusta dell'altra. Una retorica della Patria - che credevamo ormai superata - sfumata appena in quella dell'Occidente. Le mistificazioni dell'ultimo decennio, per le quali si è coniato il concetto di "guerra umanitaria": fra un po' faticheremo a distinguere la definizione di "militare" da quella di "dama della S. Vincenzo"! Infine, una nuova versione di manicheismo politico e bellico, per cui il bene viene identificato tout-court con l'occidente, mentre il male, incarnato nel terrorismo internazionale, si presta ad essere raffigurato, di volta in volta, col volto del nemico di turno. C'è quindi poco da stupirsi se perfino alcuni cristiani, spesso sprovveduti degli strumenti necessari per una approfondita analisi della situazione internazionale, nonché di una vera formazione evangelica, restino sconcertati e finiscano per accettare logiche sostanzialmente antitetiche a quella evangelica; con la triste conseguenza di ritenere il papa un povero illuso, oppure uno che prende certe posizioni semplicemente "perché è il suo mestiere"! A tali condizionamenti ormai "storici" vanno aggiunte altre obiezioni più attuali. Anzitutto l'accusa rivolta indistintamente al papa e a tutti i movimenti per la pace di prendere posizione "a senso unico", solamente contro gli USA (poveretti!) ed il blocco occidentale, tacendo invece i crimini che vengono perpetrati in altri angoli del mondo. Niente di più falso! Onestamente non so spiegarmi se tali critiche muovano dalla più banale superficialità o semplicemente dalla malafede, né quale delle due ipotesi sia la peggiore. In realtà, chi è attento e non tralascia di consultare anche i media "minori" (riviste, internet…) sa che le cose stanno diversamente... Il caso più evidente è certamente quello del papa, che mai perde occasione per ricordare anche i conflitti cosiddetti dimenticati, come ha fatto, ad esempio, lo scorso 13 gennaio, in occasione del discorso rivolto al Corpo Diplomatico accreditato presso la S. Sede. Ma qualcosa di simile può essere detto anche per i movimenti: mentre l'opinionista di un grosso quotidiano nazionale ci ha recentemente accusati di non aver mai preso posizione contro la violazione dei diritti umani in Sudan, Pax Christi ed altre associazioni hanno dato vita, fin dal 1995, ad una campagna apposita; e nel settembre 1999 abbiamo rilanciato la questione, organizzando un grande convegno, presso la biblioteca Sormani di Milano, con la partecipazione di alti rappresentanti della società civile e delle istituzioni sudanesi. Dov'erano i nostri detrattori? La risposta è semplice e sta nel disinteresse di certi media - e dei loro padroni - per quanto avviene lontano dai palazzi che contano e per tutte quelle iniziative che non toccano immediatamente (nel caso del Sudan "danneggiavano") i loro interessi; pena poi recriminare a sproposito, con la pretesa di smascherare, con obiezioni infondate, la presunta partigianeria degli altri. Che poi in occidente la voce del dissenso si levi principalmente nei confronti dei propri rappresentanti politici e degli alleati del proprio paese, mi sembra la cosa più logica e lecita in un sistema democratico! Ancora più frequente è l'obiezione che verte sul "che fare?". Che fare quando un dittatore mostruoso viola i diritti umani ed il diritto internazionale? Che fare quando sostiene il terrorismo e non c'è tempo da perdere? Anzitutto rispondiamo che non bisognerebbe creare "mostri amici" oggi, pronti a diventare "nemici" domani, da rovesciare a prezzo di sangue innocente. Sulla conquista del potere da parte dei più recenti dittatori - con relativi appoggi internazionali - si potrebbero scrivere montagne di pagine, in cui avrebbero un posto di rilievo le ultime due situazioni di Afghanistan e Iraq. Andrebbero poi perseguite fino in fondo tutte le possibili vie diplomatiche, cosa che regolarmente non viene fatta ogni qualvolta l'urgenza bellica è motivata da ben altre e celate motivazioni economiche e strategico-militari: è ormai chiaro a tutti quello che sta succedendo in Iraq, dopo mesi di ricerche senza esito da parte degli ispettori dell'ONU e la smania di USA e Regno Unito di iniziare la guerra. Ancora, non bisognerebbe cadere mai nella logica dell'urgenza, nemmeno quando si dice "è ormai troppo tardi", perché le decisioni affrettate di oggi creano le urgenze di domani… e così si va' all'infinito. Bisognerebbe invece rendersi conto che pianificare la politica internazionale sui tempi lunghi non è un lusso, ma una necessità. Riteniamo inoltre che almeno l'equivalente dei fondi destinati agli investimenti bellici e alle ricerche strategico-militari andrebbe riservato allo studio di strategie non violente per la soluzione dei conflitti. Inoltre, gli stati occidentali dovrebbero finalmente arrendersi all'idea che fino a quando il 20% dell'umanità (noi) avrà a disposizione l'80% dei beni del pianeta potremo scordarci la pace; mentre la guerra continuerà ad essere una necessità per garantire un simile, esagerato, privilegio. Quest'anno, al contrario, USA e Unione Europea spenderanno rispettivamente 500.000 miliardi e 250.000 miliardi di dollari per finanziare le operazioni militari, mentre la Banca Mondiale stima che ne basterebbero 13.000 per risolvere, per un intero anno, il problema della fame nel mondo e garantire i farmaci a tutti. Infine non dovremmo accettare mai e per nessun motivo il bombardamento delle popolazioni civili, che invece è sempre regolarmente avvento nelle guerre "umanitarie" degli ultimi anni. Almeno 5000 vittime in Afghanistan, secondo le stime più caute; altre 5000 in Iraq al tempo della Guerra del Golfo, a cui vanno aggiunti un milione e mezzo di morti per fame e malattie, in conseguenza dell'embargo. Tra loro 500.000 erano bambini. Ammesso - ma solo per pura dissertazione - che fossero popolazioni "da liberare": valeva davvero la pena farlo a questo prezzo? E quale sarebbe il prezzo giusto? Ed è mai possibile stabilire un numero equo di morti? Qui tocchiamo un punto molto delicato, che ci mette in discussione. Pacifismo infatti non può significare ignavia e nemmeno la teorizzazione di un "non intervento" assoluto e costante, che farebbe del mondo una specie di Far West planetario: regnando la legge del più forte infatti, la pace sarebbe impedita da una costante e impunita violazione della giustizia. Essere pacifisti significa piuttosto credere che la giustizia e la pace duratura possano essere perseguite solo con metodi pacifici. Ciò non esclude una funzione di polizia internazionale, dal momento che nessun vero pacifista contesta la legittimità di un servizio a tutela dell'ordine pubblico entro lo stato di diritto. Contesta semmai l'inganno che spesso si è voluto celare, giocando con le parole: nelle normali operazioni di polizia infatti - anche in quelle più delicate e pericolose - il 93% delle vittime non appartiene alla popolazione che vive sul territorio, come avviene nella media delle guerre contemporanee, per il semplice fatto che la polizia non bombarda indiscriminatamente i civili. Cosa che invece avviene regolarmente in tutti i conflitti, a partire dalla II guerra mondiale. Il fatto poi che si combatta al di fuori dei nostri confini e che tali operazioni fruttino ingenti guadagni alle nostre casse (col business della ricostruzione, dell'umanitario, del petrolio… ) non attenua ai nostri occhi (siamo onesti: la rende accettabile a quelli di molti altri!) la gravità della cosa, perché siamo ostinati nel ritenere che la vita di chiunque altro valga quanto la nostra. In questo sì siamo "estremisti" perché se a livello di principio tutti concordano con tale affermazione (almeno gli stati che hanno firmato la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani), concretamente, poi, il non essere disposti a fare sconti sulla pelle degli altri - per nessun motivo e a qualsiasi costo - è criterio per alcuni di distinguere tra "estremisti" e "gente di buon senso". E questo si traduce immediatamente nella più "grande" delle accuse: quella di estremismo. Accusa interessante però, perché non riguardando aspetti particolari, ma l'insieme delle nostre scelte, ci obbliga a ragionare su noi stessi. Prendiamola per buona e chiediamoci: perché siamo estremisti? Il modello su cui misurare tale presunto estremismo non potrà che essere il nostro Maestro: cosa del tutto naturale per coloro che si dicono discepoli e perciò senza presunzione. Ebbene, quando Gesù veniva accusato per il suo comportamento ed i suoi insegnamenti, giudicati "troppo" misericordiosi e disinvolti, rimandava immediatamente all'agire del Padre (cfr. Lc 15). Noi pure rimandiamo a Lui e rispondiamo in tutta sincerità: siamo estremisti perché anche Gesù lo era! Certo bisogna intendersi sul significato delle parole e capire cosa può significare il termine "estremismo" in una società che ha fatto del compromesso e delle ambiguità la quasi-norma delle proprie relazioni. In un paese in cui, per moralizzare la politica e l'economia, si cambiano le leggi e si criticano i giudici, si può anche confondere facilmente l'integrità con l'estremismo e la rettitudine con il fanatismo. Esistono però valori sui quali non si può scendere a compromessi, né giocare con le parole o nascondersi nelle sfumature del discorso… e qui scatta l'accusa di estremismo. Ma appunto: come sarebbe definito oggi un maestro che insegnasse ai suoi discepoli: "Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno" (Mt 5,37)? E che riprendendo l'antico comando di Dio lo completasse aggiungendo: "Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio" (Mt 5,21), per poi concludere: "ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra (Mt 5,39)? Certo, non bisogna fare una lettura fondamentalista della Bibbia, ma nemmeno manipolare l'interpretazione fino a sconvolgerne il significato. Gesù ha identificato nel dono divino della pace (shalom) il frutto più maturo del Regno e lo scopo della sua missione: "Pace a voi!" (Gv 20,19), sono le prime parole del Risorto. Ed ha anche precisato che la "sua" pace non ha nulla a che fare con quella scialba caricatura che ci propina il mondo: "Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi" (Gv 14,27). Persino Tacito, in seguito, ironizzerà sulla pace dell'impero: "Fanno il deserto e lo chiamano pace" (Vita di Agricola,30,6). La chiesa primitiva, dal canto suo, ha inteso la missione di Gesù intrinsecamente legata al dono/esigenza universale della pace: "Questa è la parola che egli ha inviato ai figli d'Israele, recando la buona novella della pace, per mezzo di Gesù Cristo, che è il Signore di tutti" (At 10,36). Una buona novella di pace, che essendo universale chiede di essere incarnata nell'ordine storico, concreto, non nelle speculazioni metafisiche. Per questo Giovanni XXIII indirizzò "a tutti gli uomini di buona volontà", non solo ai credenti, l'enciclica Pacem in terris, che sigillò con la solenne e definitiva affermazione: "E' alieno alla ragione pensare che nell'era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia" (67). Frase che qualcuno ritenne tanto estremista da tradurre, nella versione ufficiale italiana, "alienum est a ratione" con "riesce quasi impossibile pensare"! Ma, come ha recentemente sottolineato l'attuale pontefice nel discorso per la giornata mondiale della pace 2003, "papa Giovanni non era d'accordo con coloro che ritenevano impossibile la pace"… Certamente non poteva esserlo, perché se è vero che "Cristo è nostra pace" (Ef 2,14), come potremmo fare sconti sulla pace?… Nel frattempo la chiesa si è svuotata, la messa è davvero finita: andate in pace! Vai in pace anche te, vecchia Anna, e grazie. Non solo a nome mio, ma anche di Colui che, guardandoci dall'alto e fremendo nelle viscere al vedere i suoi figli che si squartano tra loro, può almeno consolarsi pensando che molti di più sono quelli come te!

Alberto Vitali



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