"Quest'anno
è nato un bambino morto"… Mons. Samuel Ruiz, vescovo di San Cristobal
De Las Casas in Chiapas, iniziò così l'omelia nella notte di Natale
del 1997. Tre giorni prima, ad Acteal, una zona montuosa della
sua diocesi, era stato compiuto un massacro. Molte donne e bambini
furono uccisi a colpi di machete, vittime innocenti di quella
repressione che da 500 anni si sta perpetrando a danno delle popolazioni
indigene in tutto il continente latinoamericano e dal 1994 si
è intensificata sulle montagne del sudest messicano, all'indomani
dell'insurrezione zapatista contro tutte le forme di oppressione
esercitate dal sistema neoliberista. Solidarietà a quelle popolazioni
e proteste indignate al governo federale piovevano già da tutto
il mondo e di lì a qualche mese un fiume ininterrotto di persone,
venute da ogni dove, avrebbe iniziato a salire verso Acteal. Il
popolo chiapaneco e la Chiesa di don Samuel erano quindi profondamente
feriti, ma i soliti benpensanti si stupirono di quell'incipit
giudicato troppo duro: "proprio nella notte di Natale, quando
si va in Chiesa a cercare un po' di pace!…". Incredibile? No!
C'è sempre qualche imbecille pronto a scandalizzarsi e a lasciarsi
infastidire più dalla veridicità di certe parole che dalla cruda
realtà della cronaca, anche quando risulta tempestata di simili
atrocità. E purtroppo… é una storia che si ripete! C'è sempre
qualcuno troppo "sensibile" e tanto "pio" da sdegnarsi più per
l'infranta poesia del Natale che per i crimini perpetrati ogni
giorno, in qualche angolo del mondo, anche a nome suo. Così, se
il Natale 2001 fu bagnato dal sangue dei piccoli afghani, quello
appena trascorso non possiamo certo definirlo un Natale di pace:
ombre sinistre all'orizzonte erano pronte ad offuscare il fulgore
della stella, mentre il cupo rullio dei tamburi di guerra si accompagnava
alle tradizionali melodie natalizie. "Ancora tuona il cannone
e ancora non è contenta di sangue la belva umana…" cantava Guccini
in una famosa canzone degli anni '60 che, disgraziatamente, continua
ad essere attuale: l'umanità è sul baratro di un nuovo conflitto
di cui nessuno può prevedere proporzioni e conseguenze, benché
non serva essere veggenti per intuire che aggiungerà sofferenze,
sangue e morte al già triste bilancio della stupidità umana. Ciò
nonostante, non avvertiamo frenetici tentativi diplomatici volti
a fermare la macchina della guerra, come sarebbe ragionevole aspettarsi
e come avvenne in altri momenti, altrettanto critici, della storia
recente. Assistiamo piuttosto, esterrefatti, all'intensificarsi
delle esercitazioni sul campo; all'inizio dei bombardamenti, con
relativi morti (naturalmente civili, come prevede il copione delle
guerre moderne: 93%) e in aperto disprezzo del Diritto internazionale;
e alla affannosa ricerca di palesi pretesti, da parte degli Stati
Uniti d'America e dei suoi alleati che, evidentemente, non sanno
più come occultare agli occhi del mondo le reali motivazioni dell'imminente
tragedia. Veniamo perciò, quasi quotidianamente, martellati da
inverificabili allarmismi, finalizzati a "giustificare" una propaganda
bellica (che sarebbe ridicola se non fosse tragica) e accompagnati
dall'incapacità della classe politica europea a definire le linee
di una politica estera, che sia coerente e propria dell'Unione,
finalmente affrancata da ogni vassallaggio nei confronti degli
USA. Infine - quale sgraditissimo regalo della vigilia - ci è
giunta la notizia che l'intesa, quasi raggiunta a livello internazionale,
per la vendita "a basso costo" dei farmaci salvavita (contro AIDS,
TBC e Malaria) ai paesi più poveri è definitivamente naufragata,
a causa del veto posto - ancora una volta - dagli Stati Uniti,
preoccupati esclusivamente di salvaguardare i colossali, quanto
ingiustificati, guadagni delle proprie multinazionali!… A questo
punto mi chiedo e credo se lo domandi chiunque abbia conservato
un briciolo di onestà intellettuale: quale dose di ipocrisia è
necessaria per continuare ad accusare indistintamente di "anti-americanismo"
tutti coloro che in nome dei diritti umani e delle diverse fedi
religiose e/o ideologie, lottano con determinazione contro una
simile "cultura di morte"? Quale spazio possiamo ancora concedere
alle diverse "Ragion di stato"?… A quell'alleanza "difensiva",
la NATO, che in sordina e giocando sulle parole, ha mutato natura
per passare dalla "difesa dei confini nazionali" alla "difesa
degli interessi nazionali" e arrogarsi il diritto di muovere guerre
ovunque nel mondo? Quale spazio possiamo ancora concedere alle
"ragioni" di un certo modo di fare politica, che qualcuno (anche
in campo cattolico e contro le esplicite ammonizioni, recentemente
ribadite, dallo stesso pontefice) si ostina ad anteporre "in certe
situazioni" alle ragioni dell'etica? Con quanta superficialità
e comoda faciloneria ci addomestichiamo - non di rado - la coscienza,
ingannandola magari con beneficenze natalizie o televisive, finalizzate
ad "accattonare" i fondi necessari alla ricerca o alla sanità,
che dovrebbe invece assicurare lo Stato, anziché garantirli -
sempre! - agli investimenti bellici? E perché, mentre i servizi
vengono tagliati ed i ticket aumentano, non viene nemmeno presa
in considerazione l'eventualità di astenersi dal prossimo conflitto
per mancanza di fondi, oppure in ossequio alla Costituzione italiana…
al Diritto internazionale?… O più semplicemente perché non siamo
d'accordo con l'affermazione della Albright (ex segretario di
Stato USA) che rispondendo a Lesley Stahl, durante un dibattito
pubblico il 12 maggio 1996, sulla necessità di far perire dal
'91, tra guerra ed embargo, circa 500.000 bambini iracheni, aveva
risposto: "We think that the price is worth it", "Pensiamo che
il prezzo sia giusto" (Cardini, La paura e l'arroganza, Ed. Laterza,
pag. 71). Dal loro punto di vista ne valeva la pena… dal nostro
no! Perciò riflettere sulla pace e le sue esigenze - a Natale,
come ogni altro giorno in cui ci diciamo credenti - non è un pensierino
"da bambini", ma qualche cosa che mette in discussione la nostra
fede, obbligandoci a ridisegnarla sulle esigenze radicali del
Vangelo per agire di conseguenza. Forse qualcuno ci accuserà di
integralismo evangelico? Non c'è da stupirsene, in un mondo abituato
a tenere i piedi in due scarpe… ma sulla Buona Notizia del Regno,
sulla integrità dello Shalom biblico, Dio non è disposto a scendere
a compromessi. Perciò il papa non smette di invocare la pace e
di denunciare - diremmo "inutilmente" - ogni occasione perduta.
Negli ultimi mesi, questi richiami costituiscono ormai il lait
motif dei suoi interventi. Dopo innumerevoli inviti (caduti nel
vuoto) ai responsabili della comunità internazionale, in occasione
del mese mariano di ottobre ha lanciato un vero e proprio appello
- quasi ultima spiaggia - ai cristiani, perché mediante la preghiera
del rosario impetrino ancora il dono della pace. Appello raccolto
certamente dai piccoli e dai semplici… Grande eco hanno invece
incontrato le parole che ha pronunciato nel corso dell'Udienza
generale di mercoledì 11 dicembre: "Oltre alla spada e alla fame,
c'è, infatti, una tragedia maggiore, quella del silenzio di Dio,
che non si rivela più e sembra essersi rinchiuso nel suo cielo,
quasi disgustato dell'agire dell'umanità… Non è forse questa solitudine
esistenziale la sorgente profonda di tanta insoddisfazione, che
cogliamo anche ai giorni nostri? Tanta insicurezza e tante reazioni
sconsiderate hanno la loro origine nell'aver abbandonato Dio,
roccia di salvezza". E nel discorso alla Curia vaticana, in occasione
del Natale, ha aggiunto: "Come dimenticare, innanzitutto, che
il volto di Cristo continua ad avere un tratto dolente, di vera
passione, per i conflitti che insanguinano tante regioni del mondo,
e per quelli che minacciano di esplodere con rinnovata virulenza?".
Per poi tornare a ribadire con forza: "Di fronte a questo orizzonte
rigato di sangue, la Chiesa non cessa di far sentire la sua voce
e, soprattutto, continua ad elevare la sua preghiera. E' quanto
è avvenuto, in particolare, il 24 gennaio scorso nella Giornata
di Preghiera per la Pace ad Assisi quando, insieme con i rappresentanti
delle altre religioni, abbiamo testimoniato la missione di pace
che è speciale dovere di quanti credono in Dio. Dobbiamo continuare
a gridarlo con forza: "Le religioni sono al servizio della pace".
Infine, nel Messaggio in occasione della Giornata Mondiale della
Pace (1 gennaio), facendo memoria del quarantesimo anniversario
dell'enciclica "Pacem in terris" di Giovanni XXIII, il papa ha
ricordato non solo l'opposizione totale alla guerra e ad ogni
forma di violenza - che devono caratterizzare chiunque si professi
cristiano ed ogni persona di buona volontà - ma anche i fondamenti
imprescindibili della pace autentica e duratura: "Papa Giovanni
XXIII non era d'accordo con coloro che ritenevano impossibile
la pace… Da spirito illuminato qual era, Giovanni XXIII identificò
le condizioni essenziali per la pace in quattro precise esigenze
dell'animo umano: la verità, la giustizia, l'amore e la libertà…
La questione della pace non può essere separata da quella della
dignità e dei diritti umani. Proprio questa è una delle perenni
verità insegnate dalla Pacem in terris, e noi faremmo bene a ricordarla
e a meditarla in questo quarantesimo anniversario". Anche i vescovi
cattolici degli Stati Uniti hanno preso posizione, lo scorso 13
settembre, inviando a Bush una lettera per mano del presidente
della Conferenza Episcopale, Mons. Wilton Gregory, nella quale,
dopo aver analizzato la situazione attuale alla luce della dottrina
morale classica sulla guerra e aver giudicato un eventuale intervento
armato inammissibile da ogni punto di vista, scrivono, rispettosamente
ma perentoriamente: "La esortiamo a ritrarsi dall'orlo della guerra".
Tanta ostinazione, voglio ripeterlo, non è dovuta a semplice buon
senso, a filantropia o ad una mera questione etica: nasce dall'essenza
stessa e più profonda della nostra fede. Così scriveva Paolo ai
cristiani di Efeso: "Egli (Cristo) infatti è la nostra pace… Egli
è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e
pace a coloro che erano vicini…" (Ef 2,14a.17). Quale significato
cristologico e quale ripercussione sulla nostra prassi dobbiamo
dunque riconoscere a questa definizione paolina, che la Chiesa
riconosce come Parola di Dio? Cioè, quale influenza ha sul nostro
credo (la fede) e come condiziona il nostro agire (la morale)?
Don Tonino Bello, vescovo di Molfetta, presidente di Pax Christi
e vero profeta della pace ci suggeriva un metodo di indagine molto
semplice e rigoroso allo stesso tempo: "Il genere umano è chiamato
a vivere sulla terra ciò che le tre persone divine vivono nel
cielo: la convivialità delle differenze. Che significa? Nel cielo,
più persone mettono così tutto in comunione sul tavolo della stessa
divinità, che a loro rimane intrasferibile solo l'identikit personale
di ciascuna, che è rispettivamente l'essere Padre, l'essere Figlio,
l'essere Spirito Santo. Sulla terra, gli uomini sono chiamati
a vivere secondo questo archetipo trinitario: a mettere, cioè,
tutto in comunione sul tavolo della stessa umanità, trattenendo
per sé solo ciò che fa parte del proprio identikit personale.
Questa, in ultima analisi, è la pace: la convivialità delle differenze.
Definizione più bella non possiamo dare. Perché siamo andati a
cercarla proprio nel cuore della SS. Trinità. Le stesse parole
che servono a definire il mistero principale della nostra fede,
ci servono a definire l'anelito supremo del nostro impegno umano".
Allo stesso modo, Paolo ci guida a scoprire l'essenza e le esigenze
della pace nel mistero intimo di Cristo: la pace, secondo l'apostolo,
non è uno dei tanti doni divini, ma il Cristo stesso. E se - usando
termini classici - dovremmo dire che la pace è una delle "categorie
cristologiche" mediante le quali il Nuovo Testamento ci parla
di Gesù, credo che possiamo altrettanto sostenere che fra queste
sia la Sua preferita, se è vero, come attestano unanimi i Vangeli,
che il Risorto, dopo aver tutto compiuto, non si è presentato
dicendo: "così vi ho salvato" o "così vi ho redento", ma "Pace
a voi!". Possiamo - e dobbiamo! - perciò su suggerimento di Paolo
e di don Tonino, tornare a contemplare il mistero di Dio rivelatoci
in Gesù, per scoprire in Lui cosa sia la vera pace e come siamo
chiamati a viverla sulla terra. Allora sarà chiaro a chiunque,
anche ai più recalcitranti, che la pace non è la fissazione di
alcuni esagerati, ma il dovere gravissimo di chiunque voglia dirsi
cristiano. Ogni deviazione da questo compito, ogni cedimento alla
logica della violenza, non potrà, perciò, essere considerata una
"triste necessità" (dietro a cui molti vorrebbero ancora nascondersi),
ma la conseguenza pratica di un debole atto di fede; mentre ogni
teorizzazione, che tenda a negare la pace quale attributo cristologico
o a ritenerla quasi impossibile nella storia, anche dopo l'avvento
di Cristo (a causa del peccato… e quale alibi ai propri interessi
e alle proprie mancanze), andrebbe considerata pressappoco alla
stregua delle primitive eresie. Così, se per secoli abbiamo onorato
i Confessori della fede, oggi a questa schiera vogliamo aggiungere
i Confessori della Pace: Giovanni XXIII, don Tonino, Giovanni
Paolo II… e tanti, tanti altri che hanno compreso che la pace
altro non è che il nome più maturo e più bello della fede.
Alberto
Vitali
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