Medici di guerra, inviati di Pace



Intervista con la dott.ssa Teresa Sarti, presidente di Emergency

Una delle obiezioni più comuni e banali che ha dominato il dibattito negli ultimi mesi, e a cui talvolta non si sono sottratti nemmeno alcuni tra gli opinionisti più apprezzati, è stata e continua ad essere: "cosa fanno i pacifisti quando non scendono in piazza a manifestare contro la guerra?" O, nella variante appena più positiva: "voi, cosa proponete in cambio?". Terminata la guerra "guerreggiata", non già quella che continua a mietere vittime, e nel momento in cui l’attenzione pubblica va progressivamente spostandosi su altre questioni, abbiamo rivolto questi interrogativi alla dott.ssa Teresa Strada, presidente di Emergency, organizzazione per la cura delle vittime civili di guerra e delle mine antiuomo. Nella sua storia peraltro, Emergency non si è limitata a prestare cure mediche, ma avendo preso posizioni sempre molti forti contro l’utilizzo della guerra, quale mezzo per risolvere i conflitti e rifiutando ogni genere di collaborazione con chiunque ne fosse responsabile, non di rado si è trovata ad essere bersaglio delle critiche più aspre, finanche ad essere oggetto di un vero e proprio oscuramento sui principali media nazionali.

Dott.ssa Sarti, nel corso dell’ultimo anno sono uscite diverse pubblicazioni che discutono genesi, ideologia e presunta crisi del movimento umanitario. Tra questi "Un giaciglio per la notte: il paradosso umanitario" di David Rieff (Carocci 2003), ripreso anche da un giornale che potremmo definire "molto vicino alle nostre posizioni", ma che sorprendentemente definisce il dopoguerra iracheno "segnato dall’assenza delle Organizzazioni non Governative". Mi risulta invece che Emergency non solo fosse presente, da anni, con due ospedali nella zona curda, al nord del paese, ma che proprio nel bel mezzo del conflitto siate arrivati fino a Bagdad con l’intenzione di restarci…

All’ospedale Al Husayin Hospital di Karbala, la città santa sciita situata a circa 100 chilometri a sud di Bagdad, il team di Emergency, guidato da Gino, è arrivato lo scorso 10 aprile, con due tir che trasportavano 30 tonnellate di medicinali, nel bel mezzo del caos seguito alla caduta del regime. Hanno perciò chiesto di lasciare il cargo nel cortile dell’ospedale, in modo di andare a Bagdad in macchina per vedere la situazione e capire cosa si poteva portare. Quando sono tornati, dopo aver preso accordi con l’ospedale Al Kindi di Bagdad, nonostante fosse un giorno di saccheggi non era stato toccato nemmeno un filo di sutura. Hanno quindi lasciato a loro le prime 3 tonnellate di farmaci e materiale, mentre il resto è stato portato a Bagdad. Di ritorno, la vigilia di Pasqua, Gino ha fatto notare al direttore e al personale che in mezzo ai medicinali c’erano delle bandiere della pace e ha loro spiegato che in Italia milioni di persone le avevano esposte dalle finestre per urlare un deciso no alla guerra che li avrebbe colpiti… commossi hanno voluto appendere le bandiere della pace alle finestre del loro ospedale. Da questo rapporto è nata un’amicizia, per cui ci hanno affidato alcuni feriti gravi da portare nel nostro ospedale di Sulaimaniya, dove potevano essere curati da specialisti. La prima volta furono undici, poi molti altri, in prevalenza bambini, soprattutto feriti da Cluster Bomb. Questo fu un segnale forte, perché Sulaimaniya è nella zona dei Curdi, che sono tradizionalmente i loro nemici. Nei giorni successivi vi si sono recati anche i loro parenti, poi persino l’Imam ed il direttore dell’ospedale… Il rapporto di stima e amicizia è cresciuto fino al punto che ci siamo accordati affinché noi ristrutturassimo il loro ospedale e costruissimo, all’interno del loro cortile, l’ospedale chirurgico di Emergency. Nel protocollo d’intesa (che comprende: la ristrutturazione dei reparti dell’ospedale Al Husayin; la costruzione di un Centro chirurgico adiacente all’ospedale per "garantire standard elevati per trattare i feriti di guerra e i pazienti affetti da altre urgenze chirurgiche"; il Centro chirurgico darà assistenza gratuita a tutti i pazienti, senza discriminazione politica, ideologica e religiosa; Emergency fornirà equipaggiamento, farmaci e materiale di consumo e il proprio personale internazionale specializzato; inoltre, in stretta collaborazione con i responsabili della sanità di Karbala e nel rispetto della cultura e delle tradizioni locali, Emergency gestirà il Centro chirurgico sia dal punto di vista amministrativo che clinico) un punto è il nome dell’ospedale, che si chiamerà Salam (Pace, in lingua araba). Loro hanno accettato felicissimi. Peccato solo che, da quando lo abbiamo concordato ad ora, i prezzi di realizzazione siano quasi triplicati, a causa della fortissima svalutazione della moneta locale, dovuta alla guerra, che ha anche polverizzato i loro salari, ma questo non ci fermerà.

Come si costruisce dunque la Pace?

In quei giorni, per loro e l’ospedale Kindi di Bagdad il problema principale era la mancanza di petrolio per azionare i generatori: assurdo per uno dei paesi tra i più grandi esportatori di petrolio. Abbiamo perciò fatto arrivare dal nostro ospedale di Sulaimaniya 15.000 litri di gasolio con tre camion cisterna e due fuoristrada che portavano anche coperte, farmaci e materassi. A guidare il convoglio c’era il nostro amministratore, Hawar, che non aveva mai potuto andare a Bagdad, in quanto curdo, neanche quando nel ‘98 era ricoverato suo figlio di 3 anni con un tumore al cervello, che abbiamo poi portato in Italia, ma purtroppo inutilmente. Il fatto che sia un curdo - il tuo nemico - a rimetterti in funzione l’ospedale è un fatto molto significativo… è così che si costruisce la pace: "facendo" e mettendo assieme le persone.

La Pace va dunque costruita nel quotidiano. Ma, per fortuna, non è sempre quotidiana la guerra…

In alcuni paesi però lo sono le mine antiuomo e le conseguenze tragiche della miseria. Perciò nei due ospedali del nord Iraq abbiamo recentemente inaugurato i reparti per ustionati adulti. Ad Erbil, sabato 31 maggio 2003, è stato aperto il primo. Lì avevamo solo i reparti per ustionati pediatrici, fino ai 15 anni. La nuova sezione comprende: due reparti femminili (13 letti), uno maschile (7), uno di terapia intensiva (2) ed una stanza per l’isolamento (1 letto). In ciascun ospedale arrivano almeno 40 ustionati al mese, perché oltre a quelli per scoppio di ordigni ci sono moltissimi ustionati domestici. Ciò è dovuto sia al fatto che hanno un cherosene pessimo e le stufette spesso scoppiano, sia perché, cucinando per terra, a volte i bambini piccoli si scottano. Inoltre, tra gli adulti, molte sono donne che tentano il suicidio con il fuoco. Perciò da tempo le autorità ci chiedevano di aprire reparti anche per gli adulti. Abbiamo così iniziato, ma i reparti per ustionati sono costosissimi; oltre che deprimenti, perché spesso arrivano in condizioni tali da non poter essere salvati. Da un paio d’anni però mandiamo anche, per due mesi, il chirurgo plastico, per la ricostruzione di alcuni casi, precedentemente operati, che vengono richiamati.

Nella diatriba circa la necessità dell’accompagnamento militare dei convogli umanitari, Emergency ha espresso una posizione molto chiara…

Anche questa volta, avendo detto no alla guerra in Iraq, non collaboriamo né ci coordiniamo con i paesi invasori. Abbiamo dimostrato che non solo si può arrivare lì senza la scorta militare, ma che, al contrario, è pericoloso farlo. La cosa più pericolosa sarebbe quella di essere scambiati per invasori e permettere ad altri di strumentalizzare il nostro lavoro. Su questo non si può transigere.

Facciamo un passo indietro. Alla fine del 2001 scoppiò la guerra dell’Afghanistan; se non fosse per la presenza dei nostri militari non se ne sentirebbe più nemmeno parlare: il circo mediatico si è spostato altrove… Allora si parlava soprattutto, e in modo palesemente strumentale, delle condizioni di vita delle donne. Cosa si fa oggi per le donne afgane?

In Panshir, nel nord dell’Afghanistan, lo scorso 3 giugno, abbiamo inaugurato l’ospedale di maternità. Lì, nei mesi precedenti, le ostetriche arrivate dall’Italia avevano girato i villaggi, dove ci sono i nostri posti di Primo Soccorso, a spargere la voce tra le donne. Molte sono venute per le visite e adesso hanno iniziato a venire anche per partorire; soprattutto quelle che presentano gravidanze a rischio. E’ un ospedale in un certo senso "scandaloso" perché c’è tutto quello che le donne italiane hanno negli ospedali di qui: ecografo… La nostra idea è che non si possono portare gli scarti: non solo, evidentemente, i farmaci scaduti o di minor qualità, ma nemmeno una sanità da terzo mondo. Il fatto che ci vadano queste donne, che non hanno mai mostrato il volto a nessuno (ovviamente il nostro personale è femminile, e abbiamo fatto non poca fatica a reperirlo), accompagnate dai loro uomini che si fidano, è un modo di fargli vedere delle prospettive che non sono quelle che hanno sempre avuto. In verità, le hanno passate tutte: la guerra, la miseria, la carestia… la malaria che sta prendendo piede come non era in passato. Secondo loro, il loro futuro è quello, la loro prospettiva è quella, guerra più guerra meno: bisogna dare delle immagini di un futuro che può essere diverso. Bisogna che i diritti vengano praticati, non solo proclamati. Così come dare lavoro alle donne: a prima vista sembrerebbe che non abbia niente a che fare con noi il programma delle vedove, a cui diamo le mucche, o l’allevamento di polli che abbiamo inaugurato; così pure per la fabbrica di tappeti… perché siamo nati con un altro obiettivo, ma quando abbiamo visto il posto ed i bisogni, abbiamo selezionato 400 vedove, le più povere della zona e stiamo avviando questi programmi. Tutto ciò costa, d’accordo, ma significa "praticare" i diritti.

Qualche mese fa, in un editoriale del Corriere della Sera, il Dott. Galli Della Loggia accusava tra l’altro i "pacifisti" di non aver mai fatto niente per il Sudan. La rivista diocesana di Milano "Il nostro Tempo" mi diede allora la possibilità di rispondere per ricordare che dal 1995 Pax Christi, con altre associazioni, sta portando avanti una campagna in difesa dei diritti umani in quel paese e che organizzammo un grosso convegno in merito nel settembre del ’99, presso la Sormani di Milano. Naturalmente non se n’erano accorti… Così come rischieranno di non accorgersi di quello che Emergency sta per fare in quel paese e del grande valore simbolico e direi "politico" del vostro intervento là…

Sì, Gino è appena tornato dal Sudan. Ieri è venuto qui in sede, a Milano, il ministro della sanità di Kartoum: faremo due progetti. Uno nel sud Sudan per la sanità di base. Anche di chirurgia, ma soprattutto per la malaria, la dissenteria e infezioni varie. E lì è successa una cosa interessante anche dal punto di vista simbolico. Dopo un sopralluogo, Gino, Rossella e Giorgio si sono accorti che esiste un ospedale militare, bello e pulito, ma vuoto. Abbiamo allora chiesto di trasformarlo in ospedale civile e di darcelo in gestione. Hanno accettato ed il ministro della sanità si è impegnato personalmente a convincere i militari. A Kartoum invece faremo un centro di cardiochirurgia, in collaborazione con il reparto De Gasperis dell’ospedale Niguarda di Milano, con l’obiettivo di essere un punto di riferimento anche per i paesi confinanti, con i quali il Sudan non ha buoni rapporti. Sarebbe dunque un progetto regionale. Mi spiegava Gino che sarebbe principalmente per problemi cardiaci dovuti a cattive condizioni igieniche, febbri reumatiche, che provocano spesso problemi valvolari, ecc… Se questo diventasse il luogo dei cosiddetti "viaggi della speranza", sarebbe poi più facile creare relazioni di pace sia tra le popolazioni che tra gli stessi governi. Abbiamo poi chiesto che ci mettessero del loro, dimostrando così che sono davvero interessati alla solidarietà. Hanno accettato, per cui anzitutto ci metteranno a disposizione un’area vastissima sulla riva del Nilo e poi interverranno a coprire i due terzi dei costi di costruzione: cosa per nulla consueta in questi paesi che destinano il 50% del baget agli armamenti e della sanità non gli importa nulla. C’è da dire che la richiesta originale di intervento è partita da loro, che ci avevano invitati a compiere un sopralluogo. Quello che più ci ha impressionato è che ci hanno dimostrato di conoscerci bene, e ci hanno confidato di averci scelto perché "sappiamo molto bene come avete operato per la sanità e la pace nelle altre nazioni dove state operando". Dovremmo quindi iniziare già da settembre, mandando personale; speriamo però di trovare anche un po’ di disponibilità da parte dei fornitori, perché i macchinari necessari sono, come sempre, costosissimi.

Cos’altro bolle in pentola?

In Algeria abbiamo iniziato un progetto di protesi per amputati, soprattutto per atti di terrorismo e questo è un progetto a termine, nel senso che li abbiamo equipaggiati di un centro per costruire protesi e abbiamo giù un bravissimo protesista che insegna a costruire le protesi. Per cui si prevede che, dopo aver fatto 250 protesi che sono già in lista d’attesa, dovrebbe essere pronto il personale a portare avanti in proprio il lavoro. In Brasile siamo diventati partner del progetto "fame 0" di Lula. Nella seconda metà di agosto io e Gino andremo ad incontrarlo e siamo già d’accordo che ci indicherà una zona particolarmente bisognosa del nostro intervento. In Kurdistan abbiamo aperto dei centri di primo soccorso. In Sierra Leone stiamo costruendo due nuove corsie per ampliare un ospedale che è soltanto di 56 posti letto. In Cambogia abbiamo ampliato i criteri di ammissibilità, che vanno concordati con il ministero della sanità. Fino ad ora, infatti, potevamo ricoverare solo feriti da mina e per ortopedica ricostruttiva. Adesso ci hanno chiesto di ampliare i criteri di ammissione anche alla chirurgia d’urgenza per traumi da incidenti stradali, che sono una grande quantità.

Un’altra delle obiezioni "storiche" rivolte ai pacifisti è di guardare lontano, ma di dimenticare i vicini…

Niente affatto! In Italia cominceremo un progetto – questa è un’anteprima, perché è ancora in fase di elaborazione - per l’assistenza ai profughi. Il nostro gruppo di Palermo sta seguendo da tempo un centro d’accoglienza in cui si prendono cura di 60 sudanesi. Stiamo cercando una palazzina per avviare un progetto che comprenda l’assistenza sanitaria e quella legale, la scuola di italiano e inglese; e corsi di avviamento professionale. I nostri gruppi sono entusiasti di "chiudere" così "il cerchio", perché bene o male quanti arrivano su quelle disgraziate navi, vengono in buona parte dai paesi dove abbiamo gli ospedali, come il Kurdistan. Inoltre abbiamo depositato in Parlamento almeno 180 mila firme per una proposta di legge d’iniziativa popolare per l’attuazione dell’articolo 11 della Costituzione. Si tratta di 5 articoli attuativi, preparati da esperti giuristi, che limitano l’uso della guerra alla stretta difesa del territorio nazionale e impediscono di aggirare il dettato costituzionale, come è stato fatto in questi ultimi anni. A settembre, quando ci sarà la ripresa dei lavori parlamentari, faremo conoscere meglio quest’iniziativa, perché si muova l’opinione pubblica e venga calendarizzata questa discussione.

Ecco dunque cosa fanno i pacifisti, perlomeno alcuni, quando non scendono in piazza. Sarebbe interessante continuare questo viaggio "dietro le quinte" delle diverse associazioni, movimenti, ecc. Certo il lavoro non vi manca, ma la logistica per sostenere tutto questo?

I gruppi di Emergency in Italia adesso sono 165 ed è il momento in cui dobbiamo più precisamente chiedere alla gente che ci aiuti a sostenere i progetti. Solo nel 2002 abbiamo curato 250.000 persone e questo ha già di per sé dei costi molto elevati… inoltre le richieste aumentano. Ieri ci è arrivata un’e-mail molto toccante da una suora, missionaria in Angola, che ci diceva: "è questo il posto dove dovreste esserci"; fornendoci anche delle indicazioni molto precise. Le abbiamo risposto di continuare a tenerci informati, che a settembre ne riparliamo, ma, ancora una volta, la questione dei fondi non sarà secondaria perché l’Angola è un paese costosissimo.

In quest’intervista abbiamo voluto mettere un po’ il dito nella piaga delle critiche, ma in verità so che nemmeno le soddisfazioni vi mancano…

La soddisfazione più bella è certamente la gioia delle persone per una qualità di vita, almeno in parte, ritrovata; la loro amicizia, la loro gratitudine. Poi, certo, se è a questo che ti riferisci, l'Accademia dei Lincei ha assegnato il Premio "Antonio Feltrinelli" 2003 ad Emergency "per un'impresa eccezionale di alto valore morale e umanitario". Il riconoscimento, che è stato deciso all'unanimità dalla Commissione presieduta dal prof. Edoardo Vesentini, ci gratifica molto perché è un riconoscimento da parte dell’ambiente della scienza e della cultura, che è passato sopra tutto il battage pubblicitario contro Emergency. Hanno guardato con obiettività al lavoro che abbiamo fatto, piuttosto che ai pettegolezzi del tipo "questi sono amici dei terroristi", solo perché non ci siamo mai venduti a nessuno. Tra l’altro questo premio è correlato da un contributo economico che metteremo subito nel progetto di Kerbala e del Sudan. Pensa che tanto il comunicato stampa del 23 giugno dell’Accademia dei Lincei, quanto quello di Emergency non sono stati ripresi da nessun giornale. Comunque, ci verrà consegnato a novembre, lo stesso mese in cui Gino andrà in Argentina a ritirare il premio internazionale "Medico dell’anno". Se non avrà qualche altra urgenza, da un’altra parte.

Alberto Vitali



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