Sarebbe
stato impossibile, la sera del 15 marzo scorso, non emozionarsi
al termine di una giornata lunghissima, che stava ponendo fine
a 188 anni di dominio oligarchico-militare in El Salvador. Per
la prima volta infatti la volontà popolare, espressa
in occasione delle elezioni presidenziali, aveva buone possibilità
di essere rispettata. La forte determinazione dei cittadini
- motivata tanto dalla disperata contingenza, quanto dalla credibilità
del candidato di opposizione, Mauricio Funes - così come
il generale riposizionamento politico dell'America Latina e,
non ultimo, il nuovo corso della politica statunitense, avevano
creato le condizioni perché finalmente ogni tentativo
di frode fosse sventato. Il cambio era quindi nell'aria, ma
poteva essere realistico aspettarsi che i poteri forti - finanziari
e militari - accettassero tranquillamente un tale rovesciamento
epocale? Il dubbio ci accompagnava, mentre in delegazione congiunta
- Pax Christi Italia e Associazione Oscar Romero di Milano -
attendavamo alle pratiche necessarie, per essere accreditati
come Osservatori Internazionali.
Arrivato
il grande giorno e giunti a Sonsonate, il luogo assegnatoci
per il nostro servizio, abbiamo trovato una città blindata,
ma anche una cortesia e delle premure inimmaginabili. Se, infatti,
i militari hanno prontamente rimosso i blocchi per permetterci
l'accesso, i poliziotti ci hanno addirittura guidato, perché
arrivassimo puntuali a controllare le operazioni preliminari.
Nelle ore successive avremmo scoperto l'arcano: la presunzione
cerbera dei ricchi, arroccati su una concezione "patrimoniale"
dello Stato - evidentissima nelle reazioni stizzite della sera,
quasi che il popolo avesse usurpato una loro prerogativa - unita
all'ingordigia di un accumulo senza misura, incurante delle
pesanti ripercussioni sociali, gli avevano ormai alienato persino
l'appoggio tradizionale della base e dei settori intermedi dei
corpi di sicurezza. Per questo la giornata è trascorsa
senza particolari problemi e la sera, uscendo al termine dello
scrutinio, abbiamo vissuto l'emozione più forte: quella
di essere avvicinati da molti che, con discrezione, ci chiedevano
se davvero il sogno si fosse realizzato. Come non cogliere quella
sottile discrepanza tra sorrisi offerti e occhi umidi, che in
realtà tradivano il ricordo di volti: figli, fratelli,
genitori, amici... cui dedicare una vittoria, frutto del loro
sacrificio? Davvero in quel momento tutti i martiri del Salvador
erano tornati per festeggiare insieme. Più tardi, un'amica
mi ha mandato un sms con scritto: "Questa sera Mons. Romero
sorride al suo El Salvador liberato!".
Così,
dopo un po' d'apprensione per le lungaggini del Tribunale Supremo
Elettorale, che lasciavano presagire qualche amara sorpresa
e l'intervento inatteso del Segretario di Stato statunitense
(Hillary Clinton), che ha comunicato allo stesso organismo la
totale indisponibilità del suo governo a legittimare
qualsiasi broglio, la giornata si è chiusa in gloria.
Forse troppo. Nel paese in proporzione più violento dell'America
Latina (ca. 13 omicidi al giorno, su nemmeno 6 milioni di abitanti);
che ancora nel febbraio 2007 ha ricevuto un richiamo ufficiale
dal Gruppo di Lavoro sulle Scomparse Forzate dell'ONU, per "la
prosecuzione di tale delitto", soprattutto a danno dei
leader sindacali; che registra una situazione economica e sociale
tra le più disperate del continente: quasi un terzo della
popolazione è migrato all'estero, mentre in patria si
conta che il 50% sopravviva, il 30% si arrangi con lavori di
fortuna e solo il 20% abbia un lavoro stabile (tra costoro però
sarebbero già 24.000 i disoccupati a seguito della crisi
mondiale)... e dove, a fronte di un costo medio della vita di
762,78$ mensili (anche la moneta nazionale, il Colon, è
stata infatti sostituita dal dollaro USA), il salario minimo
dell'industria è di 203,10$, quello del commercio e dei
servizi di 207,60$ e quello delle "Maquillas" (fabbriche
di assemblaggio, in "zone franche internazionali")
è infine di 173,70$... come si spiegava che non stesse
succedendo niente? Era credibile che la classe dominante accettasse
così democraticamente di passare la mano? La situazione,
in realtà, era molto più complessa e abbiamo cercato
di capirla meglio. Un primo elemento da considerare è
l'evoluzione del tutto peculiare di quest'ultima campagna elettorale,
che - con buona pace di facili enfatizzazioni - non ha semplicemente
contrapposto il partito dei "poveri" a quello dei
"ricchi".
Se
infatti i poveri più "consapevoli" erano certamente
schierati con l'FMLN, il partito nato dal Fronte dei gruppi
ex-guerriglieri, molti altri sostenevano invece ARENA, il partito
fondato dal maggiore D'Aubuisson, mandante riconosciuto dell'assassinio
di Mons. Romero. Paura, piccoli interessi mischiati a ignoranza,
imperscrutabili meccanismi psicologici (conosco persone che
pur essendo state torturate dall'esercito continuano a votare
l'estrema destra)... sono ancora fattori determinanti. D'altra
parte, questa volta nemmeno i ricchi si sono compattati nelle
fila di ARENA. La lotta per l'investitura, infatti, ha acuito
le rivalità tradizionali tra i diversi gruppi impresariali:
finanzieri, latifondisti, industriali... e poiché, alla
fine, la direzione del partito ha maldestramente imposto l'ex
capo della polizia (non certo una garanzia per gli affari),
molti se ne sono andati, per confluire - dopo un tentativo fallito
di creare una forza intermedia - nelle fila di Mauricio Funes.
Di Funes, non dell'FMLN! Per questo sarebbe più esatto
dire che il vincitore è il candidato, non il partito.
Il nuovo presidente si trova pertanto a un bivio: o imbocca
la via di un'alternanza morbida, che porterebbe il paese nella
logica di un bipartitismo di stampo statunitense o quella di
un'alternativa radicale al modello neoliberista, fin qui perseguito.
Perché si realizzi la prima possibilità è
però necessario che i contendenti siano accomunati dalla
medesima ideologia. Di fatto, negli USA, Repubblicani e Democratici
condividono la stessa fede capitalista e si muovono sullo stesso
terreno neoliberale.
Ma
Funes sa bene che la base non l'ha votato per questo. D'altra
parte, se imboccasse la via di un'alternativa netta si troverebbe
contro gli imprenditori che l'hanno appoggiato, oltre naturalmente
l'oligarchia e gli Stati Uniti. Il cambio dell'imperatore, infatti,
non significa che sia cambiato l'impero, il cui fine è
pur sempre il controllo dei "sudditi". Esistono certamente
una serie di possibili iniziative, dall'aria vagamente "rivoluzionaria",
che il neopresidente ha già annunciato. Tra queste, il
ristabilimento di relazioni diplomatiche con Cuba: in realtà,
gli altri governi centroamericani - quasi tutti di destra -
l'hanno già fatto, al punto che il presidente brasiliano
ha suggerito a Obama di toglierle un "blocco", ormai
superato dai fatti. Gli imprenditori salvadoregni inoltre intrattengono
già buone relazioni con l'isola caraibica e i ricchi
vanno là a farsi curare... per non parlare della compagnia
aerea salvadoregna (TACA) che da 16 anni gestisce i trasporti
nell'intera regione. Lo stesso dicasi per il mercato cinese:
gli imprenditori di ARENA non chiederebbero di meglio. Persino
gli USA non pongono obiezioni ad accordi petroliferi tra El
Salvador e il Venezuela di Chávez... e si capisce!
Infine,
nessuno si opporrebbe a una riforma radicale dell'obsoleto sistema
elettorale, mentre qualche iniziativa in difesa dei consumatori
l'ha già intrapresa il presidente uscente. Tutte cose
possibili, a condizione però di non mettere in discussione
i grandi privilegi e senza sottrarsi al controllo statunitense.
In sintesi: limitarsi a una politica dell'alternanza, rinunciando
a una vera alternativa. E in effetti, sembra essere questa l'opzione
privilegiata da Funes, avendo manifestato, da subito, l'intenzione
di formare un governo di unità nazionale, anche in considerazione
della miseria che eredita: casse vuote, nessuna risorsa, un
paese appaltato al capitale straniero e una società che
non ha ancora superato i traumi del conflitto. Ciò rischierà
di creargli problemi con gli amici, prima ancora che con i nemici.
Al tempo stesso però, permetterà di misurare la
vera consapevolezza della società civile salvadoregna,
nell'appoggio che saprà offrirgli, per non sprecare questa
occasione davvero unica. Dal primo giugno la grande sfida inizia.