di
Emma Nuri Pavoni
"Il
20% della popolazione mondiale sfrutta l'80% delle risorse del
pianeta e di conseguenza il restante 80% deve accontentarsi del
20% delle risorse". Statistiche che conosciamo, che periodicamente
qualcuno divulga ma che non ci dicono quasi nulla. Se poi queste
statistiche sono coronate da articoli di giornali o inchieste
televisive dove possiamo vedere come vive questo 80% di popolazione
dimenticata, allora le nostre coscienze si risvegliano. Di fronte
a immense bidonville ai margini di grandi città del Sud, bambini
di strada o sfruttati, uomini e donne senza speranza, nasce in
noi un sentimento di pietà che quasi sempre si esprime in carità,
perché non conosciamo altra soluzione o pensiamo che la povertà
in certe parti del mondo sia inevitabile. Ma se, superato il senso
di pietà e rassegnazione, ci impegnassimo a ricercare le cause
che provocano tanta povertà, scopriremmo che non sono poi così
invincibili e questo ci aprirebbe nuove possibilità. Il sistema
di commercio mondiale, gestito in larga parte dalle multinazionali,
è certamente tra le cause principali di questo disagio. Per soddisfare
l'enorme richiesta del mercato, le grandi compagnie importatrici
strangolano i produttori del Sud costringendoli a svendere i frutti
del loro lavoro. Contro questa logica esiste da anni, in 18 Paesi
Europei, tra cui l'Italia, una forma di commercio alternativo
chiamato "Commercio Equo e Solidale" che, promuove la giustizia
sociale ed economica, lo sviluppo sostenibile, il rispetto per
le persone e l'ambiente, la crescita della consapevolezza dei
consumatori, l'educazione, l'informazione e l'azione politica.
Gli obiettivi che si pone il Commercio Equo e Solidale sono: Migliorare
le condizioni di vita dei produttori aumentandone l'accesso al
mercato, rafforzando le organizzazioni di produttori, pagando
un prezzo migliore ed assicurando continuità nelle relazioni commerciali.
Promuovere opportunità di sviluppo per produttori svantaggiati,
specialmente gruppi di donne e popolazioni indigene e proteggere
i bambini dallo sfruttamento nel processo produttivo. Divulgare
informazioni sui meccanismi economici di sfruttamento, tramite
la vendita di prodotti, favorendo e stimolando nei consumatori
la crescita di un atteggiamento alternativo al modello economico
dominante e la ricerca di nuovi modelli di sviluppo. Organizzare
rapporti commerciali e di lavoro senza fini di lucro e nel rispetto
della dignità umana, aumentando la consapevolezza dei consumatori
sugli effetti negativi che il commercio internazionale ha sui
produttori, in maniera tale che possano esercitare il proprio
potere di acquisto in maniera positiva. Proteggere i diritti umani
promuovendo giustizia sociale, sostenibilità ambientale, sicurezza
economica. Favorire la creazione di opportunità di lavoro a condizioni
giuste tanto nei Paesi economicamente svantaggiati come in quelli
economicamente sviluppati. Favorire l'incontro fra consumatori
critici e produttori dei Paesi economicamente meno sviluppati.
Sostenere l'autosviluppo economico e sociale. Stimolare le istituzioni
nazionali ed internazionali a compiere scelte economiche e commerciali
a difesa dei piccoli produttori, della stabilità economica e della
tutela ambientale, effettuando campagne di informazione e pressione
affinché cambino le regole e la pratica del commercio internazionale
convenzionale. Promuovere un uso equo e sostenibile delle risorse
ambientali. Da parte loro i produttori del Sud si impegnano a:
Perseguire logiche di autosviluppo e di autonomia delle popolazioni
locali. Evitare una dipendenza economica verso l'esportazione,
a scapito della produzione per il mercato locale. Evitare di esportare
prodotti alimentari e materie prime scarseggianti o di manufatti
con queste ottenuti. Favorire l'uso di materie prime locali. Garantire
la qualità del prodotto. In fine gli esportatori devono: Assicurarsi
che i princìpi del Commercio Equo e Solidale siano conosciuti
dai produttori e lavorare con questi per applicarli. Fornire supporto
alle organizzazioni di produzione: formazione, consulenza, ricerche
di mercato, sviluppo dei prodotti, feedback sui prodotti e sul
mercato. Dare ai produttori, se da questi richiesto, il pre-finanziamento
della merce o altre forme di credito equo o microcredito. Fornire
informazioni sui prodotti e sui produttori e sui prezzi pagati
ai produttori. Garantire rapporti di continuità con i produttori.
Breve
storia del Commercio Equo e Solidale
Nel
1964, per la prima volta, alla "Conferenza delle Nazioni Unite
per il Commercio e lo Sviluppo" (UNCTAD) fu coniato lo slogan
"Trade not aid" (Commercio non aiuti), per spiegare il nuovo orientamento
strategico delle politiche di sviluppo, finalizzate a un maggior
equilibrio nella distribuzione delle ricchezze, tramite il miglioramento
delle condizioni di vita nei Paesi Economicamente Meno Sviluppati
(PEMS). Fino ad allora le nazioni più ricche avevano ignorato
il problema dell'accesso al mercato di questi paesi, offrendo
solo prestiti. Nel 1968 la stessa conferenza si concluse ribadendo
che questo sarebbe stato il metodo migliore per la cooperazione
allo sviluppo dei PEMS. Ma la proposta delle Nazioni Unite "Commercio
non aiuti" rimase inascoltata per mancanza di volontà politica,
ma in quegli anni in Olanda, alcuni gruppi attenti alle problematiche
dello sviluppo, avevano cominciato a manifestare degli obiettivi
politici attraverso la vendita dello zucchero di canna con la
campagna: "Comprando lo zucchero di canna, puoi aumentare la pressione
sui governi dei paesi ricchi, perché anche i paesi poveri abbiano
un posto al sole della prosperità". L'evoluzione di questi gruppi
portò all'apertura delle prime "Botteghe del Mondo" che vendevano,
oltre alla canna da zucchero, anche artigianato importato da SOS
Wereldhandel, divenuta poi Fair Trade Organisatie. Questa organizzazione
che già da anni importava alcuni prodotti da paesi in via di sviluppo,
fondata da diversi gruppi missionari cattolici olandesi, aveva
iniziato la propria attività con una campagna per portare latte
in polvere in Sicilia (anche l'Italia, all'epoca, era un paese
in via di sviluppo). In seguito finanziò la creazione di laboratori
artigianali in vari paesi del Sud del mondo, ma questo pose il
problema della commercializzazione di tali prodotti, che non venivano
adeguatamente assorbiti dal mercato locale. Si iniziò così a venderli
attraverso gruppi di Solidarietà e nelle prime Botteghe del Mondo.
In questo modo, alla fine degli anni 60, si svilupparono le prime
idee di quello che poi sarà chiamato "Fair Trade". Negli anni
successivi si assiste alla diffusione del Commercio Equo in altri
paesi europei. Organizzazioni per il commercio alternativo importavano
prodotti da vendere attraverso le botteghe, per posta, nelle fiere
e nei mercatini missionari. In quel periodo i Paesi in Via di
Sviluppo, chiesero un Nuovo Ordine Economico Internazionale che
portasse al miglioramento delle loro condizioni di vita. In risposta
a queste richieste, i grandi organismi finanziari internazionali
(Fondo Monetario Internazionale - Banca Mondiale), sotto la spinta
delle imprese multinazionali, iniziarono a condizionare i loro
aiuti ad aggiustamenti in senso liberista delle politiche economiche
e sociali di un paese. Iniziò inoltre a delinearsi un'opposizione
al sistema di accordi internazionali sulle tariffe protette dei
beni commerciali, ritenute dagli economisti un ostacolo allo sviluppo
e quindi da abolire. La conseguenza fu il crollo, agli inizi degli
anni '80, dei prezzi delle materie prime, incluse quelle alimentari,
quindi la rovina dei piccoli produttori del Sud. Molti di questi,
infatti, dipendevano da un solo prodotto, per esempio cacao, caffè
o zucchero, conseguenza delle politiche nazionali di incentivo
alla produzione di beni esportabili. La caduta dei prezzi portò
ad un aumento della povertà e del divario fra paesi economicamente
ricchi e paesi economicamente poveri, e di conseguenza alla fine
del decennio, il numero di Paesi in Via di Sviluppo era aumentato
invece di diminuire, così come il numero di persone al di sotto
della soglia di povertà fissata dalle Nazioni Unite. I produttori
necessitavano di prezzi equi per i loro prodotti, di rapporti
a lungo termine, di investimenti e di nuovi mercati. Le organizzazioni
di commercio alternativo non riuscivano a coprire la domanda crescente
ed era necessario il coinvolgimento del settore commerciale tradizionale
in una politica etica. Nacque quindi la seconda generazione di
organizzazioni solidali, che si caratterizzarono come Organizzazioni
di Marchio di Garanzia. Tra queste la Max Havelaar in Olanda e
in Europa imprese commerciali profit, specificatamente dedicate
al commercio equo. Il nuovo obiettivo fu quello di rivolgersi
ad un pubblico sempre più vasto, raggiungendo il consumatore nei
suoi luoghi di acquisto, e non costringendolo a cercare le Botteghe
del Mondo, spesso decentrate e poco visibili. Iniziò così a delinearsi
anche una nuova forma di comunicazione, basata sul concetto di
"salario giusto", pagato ai produttori per migliorare le loro
condizioni di lavoro, promuovere l'autosviluppo e garantire i
diritti basilari. Criteri già elaborati in precedenza, ma mai
esplicitati. All'inizio degli anni '90 si svilupparono progetti
di assistenza ai produttori in senso commerciale: design dei prodotti
artigianali, miglioramento delle proprietà organolettiche dei
prodotti alimentari, microcredito, studio di nuovi prodotti, uso
di materie prime per prodotti trasformati in Europa. Il Commercio
Equo diventa più attento al "marketing", alla qualità dei prodotti,
ad aumentare la capacità dei produttori di "stare sul mercato".
In Italia nasce un nuovo marchio di garanzia, TransFrair (1994),
e in Europa un coordinamento internazionale chiamato FLO (FairTrade
Label Organisation). Contemporaneamente anche l'informazione si
fa più approfondita e si differenzia fra informazione sui prodotti
e informazione generale, concentrata sempre più suoi produttori,
sui principi di base e sulla promozione del Commercio Equo nell'ambito
di un più generale consumo responsabile.
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