Alcune
recenti pubblicazioni hanno riaperto la discussione sul futuro
del cattolicesimo in Italia. Da un po' non se ne parlava, almeno
a certi livelli, e onestamente non ne sentivamo il bisogno. Ma
tant'è! Dopo lo spauracchio del materialismo ateo, incarnato
dal comunismo, e della secolarizzazione liberale, è ora
la volta delle grandi religioni - l'Islam in testa - che, avanzando
sulla scia delle migrazioni dei loro fedeli in cerca di lavoro,
e in concomitanza con un forte calo demografico tra le popolazioni
indigene (noi), preoccupano sempre più i paladini della
cattolicità. La questione è certamente interessante
da un punto di vista sociologico e perciò culturale e politico,
e potrebbe essere addirittura entusiasmante da quello religioso,
se solo fosse affrontata con ben altro respiro. La preoccupazione
- se non il vero e proprio allarme - che invece l'accompagna,
mi sembra alquanto esagerata e tradisce un atteggiamento che definirei
poco cristiano; ancor più fastidioso quando viene assunto
da persone che, per il loro ministero, dovrebbero piuttosto aiutare
i fratelli a leggere la storia che stiamo vivendo, alla luce della
Parola di Dio. Prendiamo per buono l'assunto di partenza: i seguaci
di Gesù stanno diminuendo. Non è la prima volta.
Il Vangelo di Giovanni ci testimonia che, dopo l'entusiasmo iniziale
della cosiddetta "primavera galilaica", dovuto principalmente
al potere di Gesù di fare miracoli e alla sua capacità
di parlare al cuore dei semplici, molti discepoli abbandonarono
il Maestro: "Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono
indietro e non andavano più con lui" (Gv 6, 66). Cosa
fece allora Gesù? Non suonò la riscossa, non si
mise a lanciare maledizioni o interdetti, non escogitò
contromisure per "salvare il salvabile", ma semplicemente
chiese agli apostoli: "Forse anche voi volete andarvene?"
Non è sorprendente la reazione di Gesù? Non solo
non cedette allo sconforto, ma invitò i pochi rimasti a
valutare la stessa possibilità. Non certo per disinteresse
nei loro confronti o della missione, ma perché puntava
all'autenticità, all'adesione totale e motivata dei discepoli.
Gesù dimostra di non fidarsi delle apparenze, di non amare
i bagni di folla fine a se stessi. Evidentemente non si era fatto
illusioni sulla folla, perché sapeva cosa volevano da lui:
un forte trasporto emotivo, una guida in tempi incerti (volevano
infatti "farlo re" Gv 6,15), qualcuno che facesse miracoli:
insomma l'uomo della provvidenza; ma la loro adesione restava
poco più che formale. Così Gesù non cade
in panico di fronte all'abbandono, perché sa bene che nulla
è cambiato: si è solo rivelata l'inconsistenza della
loro appartenenza, si è dissipato il fumo dell'apparenza.
Piuttosto invita i discepoli a verificare la consistenza delle
proprie scelte, a mettere a nudo la loro verità. E' questo
l'atteggiamento che dovremmo imparare da Lui, per chiederci se
quanto stiamo perdendo in questo momento cruciale nella storia
del nostro paese e dell'Europa intera, non sia solo una religiosità
fatta di apparenza e convenzioni, di abitudini e di numeri che
offrono certezze soltanto effimere, a cui gli uomini e le donne
del nostro tempo non possono credere ancora, perché - fortunatamente!
- cercano qualche cosa di più: perché hanno fame
e sete di giustizia, di verità, di parole di vita. Scopriremmo
allora che non è l'essenza del cristianesimo ad essere
rifiutata, ma i suoi surrogati, e come la risposta di Pietro:
"Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna"
(Gv 6,68) interpreta meglio di qualsiasi altra le aspirazioni
più autentiche degli uomini d'oggi. Pietro conosceva la
fatica di vivere e di credere in Dio anche quando la rete, rimasta
vuota, non ti permette di provvedere dignitosamente alla famiglia.
Per questo non concedeva sconti a nessuno: i ciarlatani li fiutava
a distanza e non si era sbagliato riconoscendo l'autenticità
della proposta di Gesù. Il prezzo del discepolato, per
quanto alto, valeva la pena di essere pagato, perché Gesù
sa rispondere ai bisogni più profondi e offrire un senso
alla vita. Su questo dovremmo interrogarci: non su quali strategie
escogitare per arginare gli agenti esterni, ritenuti pericolosi
- a torto o a ragione - per le nostre tradizioni, ma su quanto
le nostre parole siano parole di vita e siano o no comprensibili
per gli uomini del nostro tempo. Spesso ci assolviamo, rifiutando
di metterci in discussione, perché abbiamo stabilito a
priori che la verità sia nelle nostre mani e riteniamo
colpevoli coloro che non l'accettano. Gesù al contrario
ci mette in discussione, ci chiede di esaminare noi stessi, perché
solo così potremo rivolgerci agli altri, senza la diffidenza
di coloro che hanno qualche cosa da difendere, ma con l'umiltà
di chi sa che quanto possiede lo ha ricevuto e non gli appartiene,
se non nel momento in cui lo condivide. Questa libertà
ci viene solo dalla consapevolezza che la storia è nelle
mani di un Altro e sarà Lui a portarla a compimento. Che
Lui è il solo pastore di tutte pecore, sparse in diversi
ovili, e tutte conduce, perché arrivino (quando? certamente
nella casa del Padre) ad essere "un solo gregge e un solo
pastore" (cfr. Gv 10,16), ma questo, fortunatamente, non
dipende da noi. Piuttosto, spronati dal Concilio Vaticano II e
guidati dal magistero e l'esempio degli ultimi papi, è
giunto per noi il tempo di riflettere sul ruolo che le diverse
tradizioni religiose hanno nell'unico piano di Dio; su come siano
chiamate, non solo a cessare ogni secolare ostilità, ma
ad incontrarsi per lavorare unite nel costruire la pace, secondo
l'invito che Giovanni Paolo II, ha rivolto a tutti i credenti,
domenica 6 maggio 2001, dalla Sinagoga di Damasco; a chiederci
cosa Dio si aspetti da tutti noi credenti, che lo invochiamo con
nomi diversi, all'inizio di questo nuovo millennio. Segni dei
tempi, segni dello Spirito, segni che mettono in discussione e
suscitano domande. Ma domande grandi, vere, quelle che, anziché
opprimere, aprono il cuore e allargano il respiro al vento nuovo
della fiducia, che lo Spirito fa soffiare su tutte le religioni
e i popoli.
Alberto
Vitali
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