Divorziati e partecipazione
ai sacramenti



Le crisi matrimoniali di coppie credenti che giungono alla rottura definitiva, mediante il divorzio, e la conseguente decisione di cercarsi nuovi compagni, sono passate, negli ultimi decenni, dall'essere un fatto prevalentemente personale e giuridico ad un problema "ecclesiale", avvertito e mal vissuto all'interno delle comunità. Non intendo affrontare la questione in termini canonici: la posizione ufficiale della Chiesa è chiara al riguardo e al momento non sembrano esserci possibilità di discussione. Le argomentazioni teologiche sono altrettanto chiare e in parte comprensibili. Vorrei invece riflettere a partire dall'esperienza - "dal basso" - dal vissuto, diffidando però subito gli "addetti ai lavori", i dottori di turno, a snobbare questo tipo di approccio, considerandolo un atteggiamento da serie B, indegno di una teologia matura e sistematica, con l'aria di chi da duemila anni va ripetendo: "…questa gente che non conosce la Legge è maledetta" (Gv 7,49). Se non altro, perché questo è il metodo usato da Gesù di Nazareth, il quale non si è mai seduto in cattedra ad insegnare in modo astratto e sistematico, ma ha rivelato i misteri di Dio strada facendo, inciampando nelle diverse situazioni umane. Ed è inevitabile che sia proprio Lui, nella nostra esperienza credente e - manco a dirlo - nel nostro essere pastori, il punto di partenza e di costante riferimento del nostro discernimento. Lui, con la sua parola e con la sua prassi. Lui che, come nessun altro - e certamente molto più di Mosè - è stato radicale nelle esigenze morali che ha proposto ai discepoli di ogni tempo. "Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore" (Mt 5, 27-28). Scusate se è poco…! Ma, al tempo stesso, sono note la misericordia, la tenerezza e la compassione, fino alla condivisione (lasciandosi toccare e perciò contaminare, secondo la mentalità giudaica del tempo…) che Gesù mostrava nei confronti dei grandi peccatori e gli valsero sdegno e ostilità da parte dei farisei, dei dottori e dei sommi sacerdoti. Alla donna samaritana, cinque volte divorziata e concubina, Gesù non chiede di regolarizzare la sua situazione, piuttosto la invita ad entrare subito in una comunione più vera con Dio: "Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre… Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori" (Gv 4,21-23). Di fronte all'adultera (Gv 8, 3-11) Gesù si comporta in modo ancor più riprovevole, secondo le convenzioni sociali ed ecclesiali. La donna, colta in flagrante adulterio, non ha attenuanti, e, volendo salvarla, Gesù squalifica i giudici: "Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei". Il caso è davvero singolare: in questione non era la loro posizione morale, e la legge vale certamente a prescindere dalla moralità di chi è costituito a garantirla: questo intervento di Gesù apre lo spiraglio ad un pericoloso relativismo morale… Di questo passo nessuno sarebbe più condannabile, se non da Dio in persona. Tutt'al più, avremmo - parlo anche di noi - potuto accettare una chiara esposizione della dottrina morale ed il conseguente giudizio di condanna nei confronti della donna, solo successivamente mitigato da un atto di clemenza, perché - si sa - Dio è ostinatamente misericordioso e nessuno può fargli cambiare idea. Ma che almeno le cose fossero chiare!… Invece no, Gesù scrive per terra, con l'aria sorniona e delusa di chi è stanco di dover sopportare gente dal cuore indurito. Eppure fu Lui ad inasprire i comandi di Mosè. Contraddizione la sua o fariseismo il nostro? I farisei, è bene ricordarlo, non erano mostri che giravano con coda e corna, ma pii giudei che, per un'eccessiva mania di purezza e per la spasmodica paura di perdere la propria identità culturale e religiosa, avevano completamente dimenticato lo spirito della legge ed il suo rapporto con la vita. La legge, fin dal tempo di Mosè, era stata concepita da Dio, e recepita dal popolo, come un dono prezioso per salvaguardare la vita dei singoli e della collettività. Israele festeggiava da secoli il dono della Legge; i profeti ne avevano più volte richiamato lo spirito con toni drammatici; la Sapienza la descriveva come la fonte nell'oasi del deserto; Gesù l'aveva spiegata coi gesti più ancora che con le parole. Ma loro si ostinavano a non capire. E quando la Legge non è più a servizio della vita, del bene dell'uomo e della donna, ma diventa strumento di oppressione, esclusione o morte ha perso il suo scopo e anch'essa "a null'altro serve che ad essere gettata via e calpestata dagli uomini" (cfr. Mt 5,13). "E diceva loro: "Il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato! Perciò il Figlio dell'uomo è signore anche del sabato"" (Mc 2,27-28). Dio non ama la Legge - che è un mero strumento -, ma l'uomo e la donna e vuole il loro bene. Parafrasando S. Ireneo, padre del secondo secolo, possiamo dire: "la gloria di Dio non è la Legge osservata, ma l'uomo vivente". La legge resta la strada proposta per raggiungere l'ideale, l'indicazione migliore per la vita, ma quando l'uomo non riesce a percorrerla Dio gli offre altre e sempre nuove possibilità. Così anche noi, dopo aver proposto con convinzione l'ideale, quello di un amore fedele per la vita, capace di oblazione e sacrificio, che in quanto tale diventa sacramento - per volere di Dio - della Sua fedeltà nei confronti dell'uomo, dobbiamo, come Gesù, fare i conti con l'esistenza, con le situazioni concrete; prenderci cura, come Lui ha fatto, delle persone e della loro storia. Da quando sono prete, il momento più difficile per me, nel corso dell'anno liturgico, è sempre stato quello della Messa di Iª Comunione dei nostri bambini. Perché dopo due anni passati a spiegargli in tutti i modi l'importanza di ricevere il perdono di Dio nel sacramento della Riconciliazione e, ancor più, di ricevere Gesù nel sacramento dell'Eucaristia - il dono più bello e prezioso che Dio ha fatto a ciascuno di noi - nella particolarità di un contesto sociale che certo non gli riconosce il valore dovuto, mi sono sempre trovato nella difficoltà, ancora più grande, di dovere spiegare ad alcuni di loro perché al papà e alla mamma questo dono venisse ormai irreparabilmente negato. E avete voglia di addentrarvi nelle sottigliezze teologiche, nei distinguo tra comunione sacramentale e comunione ecclesiale - che invece non viene completamente a mancare - di fronte agli occhi sgranati di un bimbo che non capisce, che non può capire, e senza saperlo ti riflette il monito di Gesù: "Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno (Mt 5,37). Quante volte ho avvertito che stavamo caricando un altro peso sulle spalle di un bambino che già soffriva la separazione dei genitori! Quante volte mi sono chiesto che ripercussioni avrebbe avuto sulla sua psicologia e anche sulla sua fede! Come ho sentito vere le parole del mio parroco, don Angelo Casati, che, riportando un'esperienza analoga, scriveva alla nostra comunità: "…penso di non esagerare dicendo che il suo viso e i suoi occhi accompagneranno d'ora in poi, indimenticabili, gli anni o i giorni di ministero che mi rimarranno… E la sua voce: "… don Angelo, ho una cosa da dirti, ma come faccio a dirtela?". Il silenzio, l'incrociarsi complice degli occhi. E poi, come uno che si toglie il peso: "Lo sai, don Angelo? Il mio papà… la chiesa non lo accetta!". Vorrei difenderla, ma la ferita, il peso sono già dentro. Hanno scavato nel suo cuore di carne di nove anni. Sento nel cuore l'indignazione, l'indignazione delle parole di Gesù: "Guai a voi che caricate gli uomini di pesi insopportabili" (Lc 11,46). Portare a nove anni il peso dell'esclusione, peso insopportabile per deboli, piccole spalle"… Correva l'Anno di grazia 2000, anno del Grande Giubileo, per chi sa cosa questo significhi! Non nascondiamoci neanche la pericolosità di squalificare in questo modo un genitore - o la fede - agli occhi di un figlio, quando poi moltiplichiamo all'infinito i richiami al compito indelegabile dell'educazione da parte dei genitori. Non possiamo sempre dividere tutto in comparti stagni: oggi parliamo di morale, oggi invece di educazione…
Da parte mia non dimenticherò quelle strane esperienze di confessionale con un amico, un uomo semplice, incolto ma saggio, che mi ripeteva: "se anche non posso ricevere la assoluzione, sono pur sempre un peccatore ed è giusto che confessi i miei peccati davanti a Dio". Confessioni senza "guadagno", in un certo senso; confessioni non sacramentali, ma non per questo surrogati da psicoanalisi. E se è vero che non si dovrebbe fare confronti… beh, scusate, non ci sono riuscito; non ho potuto fare a meno di pensare a quelle altre confessioni, molto più "regolari", sacramentali, che spesso iniziano così: "padre, non saprei cosa dirle, perché non ho peccati particolari…" e poi via il festival delle banalità, tirate fuori a fatica, per avere "materia" che giustifichi il sacramento. Quante volte mi è sembrato di sentire il buon Dio lamentarsi: "ma per chi mi avete preso?". E alla domenica, tutte le sacrosante domeniche, l'ho visto con gli occhiali scuri (anche d'inverno) per nascondere le lacrime - vere - al momento in cui gli altri si mettevano in fila per ricevere la comunione. Quante volte ho pensato che io ne ero più indegno di lui; che se lui non aveva avuto il coraggio di un amore eroico, io non avevo avuto quello di una profezia eroica, della parresia (anche dentro la Chiesa), della misericordia; quante volte ho pensato alla verità delle parole di Alex Zanotelli, missionario comboniano che spesso ripete: "ad una donna che prende la pillola non possiamo dare la comunione, ma possiamo, anzi dobbiamo, darla a chi investe i risparmi nelle azioni di quelle ditte che fabbricano armi e mine su cui saltano i bambini in tutto il mondo!". E Dio di nuovo crocefisso, dato e non dato, secondo i nostri criteri… Ancora, uno dei motivi per cui è fatto divieto di dare la comunione alle persone divorziate e risposate è quello di non recare scandalo alla comunità. Ma allora chiediamoci di quale comunità stiamo parlando. Quella dei nostri sogni o quella reale? Quella di pochi bigotti o quella che dalle fatiche della vita si è lasciata educare e allargare il cuore? Davvero oggigiorno mi sembra che scandalizzi di più il rifiuto che l'accoglienza, e in una situazione in cui è sempre più difficile spiegare il valore dei sacramenti, questo atteggiamento mi sembra un pericoloso boomerang. Per questo molti chiedono nuove risposte alla Chiesa, e se da un lato fu agghiacciante il silenzio (o peggio la critica) seguito alla richiesta del Card. Martini, durante il Sinodo per l'Europa a Roma, il 7 ottobre 1999, di poter "ripetere una esperienza di confronto universale tra i Vescovi che valga a sciogliere qualcuno di quei nodi disciplinari e dottrinali che forse sono stati evocati poco in questi giorni, ma che riappaiono periodicamente come punti caldi sul cammino delle Chiese europee e non solo europee. Penso in generale… Penso ad alcuni temi riguardanti la posizione della donna nella società e nella Chiesa (IL 48), la partecipazione dei laici ad alcune responsabilità ministeriali (IL 49), la sessualità, la disciplina del matrimonio, la prassi penitenziale…", dall'altro questo stesso intervento fu pur sempre un segno incoraggiante, che rivela come lo Spirito stia lavorando - "sotto la brace" - sebbene i tempi non siano ancora maturi.
Incoraggiante, perché anche nella Chiesa le posizioni non sono eterne; con buona pace di chi, ogni volta, crede che "siamo giunti alla fine della storia" e non siano possibili sviluppi ulteriori. Giovanni Paolo II ha mirabilmente fatto del tema dei diritti umani uno dei lait motif del suo pontificato, mentre per secoli, dall'Illuminismo fin quasi al Concilio Vaticano II, la Chiesa li aveva rifiutati come fossero alternativi ai diritti di Dio. In campo più specificamente dottrinale, per quanto riguarda il nesso tra la comunione dei singoli con la Chiesa e la loro salvezza, il Concilio di Firenze del 1442 aveva impegnato la propria autorità morale nell'assioma di origine patristica "Extra Ecclesiam nulla salus" (Fuori della Chiesa non c'è salvezza), mentre nel 1949, sotto il pontificato di Pio XII, il Sant'Uffizio condannava il padre gesuita Leonard Feeney, che si atteneva all'assioma nella sua forma più rigida. Dal Vaticano II (Dignitatis Humanae), e l'attuale pontefice lo ha appena ribadito, la Chiesa professa invece che chiunque agisce in retta coscienza può ottenere la salvezza a qualunque confessione o religione appartenga. Questo non significa necessariamente rimangiarsi il passato o contraddirsi, ma permettere allo Spirito di aprire nuovi cammini di comprensione, mentre la Chiesa avanza verso il giorno del Signore. Però intanto bisogna vivere… e credo che la fedeltà, sofferta ma franca, sia il modo migliore per aiutare la Chiesa a viaggiare più spedita. Da S. Francesco a Mons. Romero, passando per Caterina da Siena e…, quelli che hanno davvero cambiato le cose sono coloro che hanno avuto il coraggio di non sbattere la porta, ma di obbedire senza per questo tacere, soffrire senza smettere di amare, abbracciare anziché rifiutare. Ai nostri fratelli divorziati vorrei dire che la loro sofferenza è anche la nostra, la mia. Non solo per una questione di solidarietà, ma perché mi riguarda e coinvolge personalmente, come cristiano e come prete. Come confessore, perché ogni volta che non posso assolverli, ciò mi mette in discussione nell'intimo, come ministro di Dio: perché per essere ministro - e non funzionario - della Chiesa, devo anzitutto essere ministro di Dio, ma troppo spesso "le nostre vie non sono le sue vie" (Is 55,8). Come sacerdote, perché la loro esclusione dalla comunione sacramentale, mi fa pensare sempre più alla mia indegnità e a quella di tutta la comunità… Alla fine della vita, dopo aver inutilmente tentato di convincere gli uomini che per essere salvati, cioè per vivere in comunione con Dio, non erano necessarie altre vittime, Gesù ha offerto se stesso. Come a dire: "se proprio deve esserci una vittima, quella sarò io". Così sia anche per noi: se proprio deve esserci una sofferenza, soffriamola insieme. Questa è già comunione, una comunione che riscatta tutti, anche la Chiesa e la farà camminare più spedita, su strade di fedeltà al Signore di tutti.

Alberto Vitali



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