Un
brivido aveva scosso gli "amanti della Pace" nel corso
della seconda settimana di dicembre: il tema attribuito dal Papa
alla tradizionale Giornata mondiale di preghiera per la Pace (1°
gennaio), già annunciato come ogni anno nel corso dell’estate
precedente, per dare tempo alle diocesi e ai diversi soggetti
impegnati nel settore di preparare riflessioni, materiale e le
più diverse iniziative, era stato cambiato. Mai era successo
nei precedenti 37 anni, da quando cioè papa Paolo VI aveva
istituito questa celebrazione nel capodanno del 1968. Al di là
di alcuni inconvenienti pratici e persino ridicoli – in tutte
le chiese e le cattedrali del mondo, bellissimi manifesti e striscioni
annunciavano, in tutte le lingue, un tema diverso da quello ufficiale
– la preoccupazione era reale: cosa stava succedendo? E non era
certo necessario fare della "dietrologia" per capire
che qualche cosa di poco chiaro stava bollendo nel pentolone
vaticano. La preoccupazione era inoltre accompagnata da un sincero
rincrescimento perché il tema cancellato (perché?
da chi? Wojtyla non è certo uomo da facili ripensamenti…)
era alquanto significativo: "Il Diritto internazionale, una
via alla Pace". Quello nuovo: "Un impegno sempre attuale:
educare alla Pace", appariva al contrario piuttosto generico.
La pubblicazione del messaggio ha poi finalmente dissipato molte
preoccupazione - sebbene non tutti gli interrogativi – perché,
ancora una volta, il testo firmato dal Papa si è rivelato
alquanto stimolante… fin dagli inizi. I destinatari, infatti,
non sono esclusivamente gli educatori o gli uomini e le donne
di buona volontà, ma nello specifico i Capi delle Nazioni,
cui spetta "il dovere di promuovere la Pace"; i Giuristi,
"impegnati a tracciare cammini di pacifica intesa, predisponendo
convenzioni e trattati che rafforzano la legalità internazionale";
e - sorpresa delle sorprese! – coloro che sono "tentati di
ricorrere all’inaccettabile strumento del terrorismo". Non
limitandosi a parlarne in terza persona, né dipingendoli
come mostri, ma riconoscendoli nella loro dignità di "uomini
e donne", il Papa si rivolge loro come ad interlocutori possibili.
Di più, ammonendoli che così facendo compromettono
"alla radice la causa per la quale combattete", riconosce,
di fatto, l’esistenza di una ragione ultima, di una "causa"
razionale, di per sé legittima (per quanto evidentemente
il fine non possa giustificarne i mezzi), ben lungi dall’immaginario
collettivo che i media del sistema stanno fomentando negli ultimi
anni. Su questo punto il Papa tornerà nel corso della lettera
ammonendo che l’impegno contro il terrorismo deve esprimersi anche
"rimuovendo le cause che stanno all’origine di situazioni
di ingiustizia, dalle quali scaturiscono sovente le spinte agli
atti più disperati e sanguinosi"… Non è cosa
da poco: è una semplice, ma chiara analisi della situazione
internazionale, con relativa presa di posizione nella direzione
esattamente contraria a quella assunta fino ad oggi dalla maggior
parte dei leader occidentali. Alla base degli "atti più
sanguinari" che sconvolgono il nostro tempo, non ci sarebbe
esclusivamente una banale "invidia per la nostra libertà
e democrazia" (Bush) o uno smodato desiderio di dominio da
parte di alcune migliaia di fondamentalisti islamici e neppure
il solo delirio di onnipotenza di qualche mostruoso criminale,
che appena qualche anno veniva ancora considerato "nostro"
prezioso alleato (non dimentichiamo certo a chi era destinato
il super cannone scoperto nel porto di Genova… mentre un solo
quotidiano italiano ha avuto l’onestà di pubblicare una
foto dell’attuale capo del Pentagono, Rumsfeld e di Saddam Hussein
che, sorridenti, si stringevano la mano, al tempo in cui, da buoni
amici, condividevano gli affari). No, secondo il Papa, ci sono
"cause che stanno all’origine di situazioni di ingiustizia",
che andrebbero indagate a partire da "una coraggiosa e lucida
analisi delle motivazioni soggiacenti agli attacchi terroristici".
Riconoscerle, non solo ridisegnerebbe il quadro delle responsabilità,
ma faciliterebbe la ricerca di soluzioni incruente e durature.
Questo però è un passo che i padroni delle democrazie
occidentali non sono disposti a compiere, perché impedirebbe
loro di continuare a spogliare il mondo a vantaggio dei propri
interessi e romperebbe l’incantesimo della disinformazione sistematica,
tanto necessaria al consenso, perché solo fino a quando
i popoli saranno mantenuti nella confusione più totale,
il senso di impotenza e la paura irrazionale che ne derivano li
indurranno a "digerire" ogni sciagurata avventura bellica.
Ma il Papa non ci sta. Prende atto di questa situazione e la denuncia:
"gli uomini, di fronte alle tragedie che continuano ad affliggere
l’umanità, sono tentati di cedere al fatalismo, quasi che
la Pace sia un’ideale irraggiungibile". E rilancia con convinzione
incrollabile: "la Pace resta possibile. E se possibile, la
Pace è anche doverosa!". Ripercorrendo quindi le tappe
di questi 37 anni, individua, prima nei messaggi di Paolo VI e
poi nei suoi, "i vari capitoli di una vera e propria scienza
della Pace", che "ormai abbondantemente illustrati…
non rimane che operare". E se questo è un dovere per
tutti, lo è in particolare "per il cristiano, infatti,
proclamare la Pace è annunziare Cristo che è "la
nostra Pace" (Ef 2,14), è annunziare il suo Vangelo,
che è "Vangelo della Pace" (Ef 6,15), è
chiamare tutti alla beatitudine di essere "artefici di Pace"
(cfr. Mt 5,9)". Artefici, non generici assertori di principi
astratti, chiamati, ancora una volta, ad edificare i quattro pilastri
indicati da Giovanni XXIII nella Pacem in terris: la verità,
la giustizia, l’amore e la libertà. A questi ideali, continua
il Papa, vanno educate le nuove generazioni, ma al contempo, dobbiamo
"ri-educarci" tutti al valore della legalità,
al rispetto dell’ordine internazionale e degli impegni assunti
dalle legittime Autorità: "la Pace ed il diritto internazionale
sono intimamente legati fra loro: il diritto favorisce la Pace".
Qui Giovanni Paolo II arriva a toccare uno dei nervi scoperti
del nostro tempo, se non il più delicato ed importante.
Era peraltro il fulcro su cui ruotava il tema soppresso e che,
fortunatamente, torna così a fare capolino. Al contempo
è triste e allarmante constatare come su tale argomento
la voce del Papa rimanga pressoché isolata e, a fronte
di tante parole rovesciate dai media, siano veramente in pochi
a darsi da fare per aiutare l’opinione pubblica a prendere coscienza
dell’importanza che, oggi più che mai, la questione del
diritto internazionale riveste per il futuro stesso dell’umanità.
Così, indisturbati, anzi addirittura protetti dalla generale
noncuranza, c’è chi lavora, nel segreto della cancellerie
di alcuni paesi tra i più sviluppati, per vanificare tale
ordinamento, in nome di interessi di parte (nemmeno più
nazionali), che tradiscono non solo assurdi egoismi, ma anche
una totale incapacità di lungimiranza storica. Vale a dire:
se "fin dagli albori della civiltà i raggruppamenti
umani che venivano formandosi ebbero cura di stabilire tra loro
intese e patti che evitassero l’arbitrario uso della forza e consentissero
il tentativo di una soluzione pacifica delle controversie via
via insorgenti" oggi, da parte di alcuni stati che vantano
una supremazia militare, c’è il tentativo di approfittare
della nuova situazione internazionale, creatasi con l’insorgere
del terrorismo, per vanificare quelle norme che reputano un ostacolo
al conseguimento smisurato dei propri interessi. Così è
stato nel caso dell’ultima aggressione all’Iraq. Sebbene nel 1945
gli Stati Uniti furono tra i principali artefici della creazione
dell’ONU, in questa occasione non si sono fatti scrupoli ad attaccare
senza aver ricevuto il benché minimo mandato; anzi, dopo
essersi visti negare la risoluzione richiesta e in aperta violazione
di ogni accordo liberamente – ma poco seriamente - sancito in
precedenza. La motivazione addotta è fin troppo semplice
e, forse anche per questo, ripetuta alla noia dallo stuolo dei
lacchè che si offrono, quali ideologi del sistema, in tutti
i salotti che fanno tendenza: siamo in presenza di una situazione
eccezionale, perciò non valgono le regole abituali. Chiaro…
ma a me verrebbe voglia di chiedere quando secondo loro la guerra
sarebbe definibile una situazione "normale" – e già
mi spaventa la sicura risposta - e soprattutto chi avrebbe il
diritto di dichiarare l’eccezionalità della situazione?
Forse le parti in causa? Magari chi ha un interesse immediato
da soddisfare o non piuttosto un’autorità superiore e potenzialmente
imparziale? Non è chi non veda cosa bolla in pentola. Del
resto gli USA ci avevano già avvertiti, offrendoci un saggio
del loro "nuovo modo di fare" quando nell’ottobre 2001,
nell’imminenza dell’attacco all’Afghanistan, prendendo le distanze
dal semplicismo di noi europei che un po’ ingenuamente parlavamo
ancora di guerra, si ostinavano a definire il nuovo intervento
come "lotta al terrorismo". Il perché fu subito
chiaro, almeno a soliti "addetti ai lavori": la guerra
è regolata ormai da tempo da convenzioni internazionali,
che tendono a limitare la brutalità delle aggressioni e
vorrebbero garantire il rispetto dei diritti umani nel trattamento
dei prigionieri. Non chiamarla formalmente "guerra"
significava per loro arrogarsi il diritto di sottrarsi a qualsiasi
regola sottoscritta; così come il non voler riconoscere
ai prigionieri lo status di "prigionieri di guerra"
significava - a loro esclusivo giudizio - potersi accanire a piacimento
sui vinti. Oggi, le barbare condizioni in cui, da quasi due anni,
vengono tenuti i prigionieri afghani nelle gabbie di Guantanamo
(che oltre alla denuncia delle più autorevoli organizzazioni
per la difesa dei Diritti Umani, hanno suscitato l’attenzione
della stessa magistratura statunitense) ne sono una triste conferma.
Tutto ciò, già di per sé intollerabile, potrebbe
essere solo l’inizio di una dilagante "cultura" dell’illegalità
che se non venisse fermata avrebbe conseguenze certamente devastanti.
Vale a dire: gli Stati Uniti ed i loro alleati hanno "dato
il cattivo esempio", calpestando il diritto internazionale
e cedendo alla "tentazione di fare appello al diritto della
forza piuttosto che alla forza del diritto". E quasi senza
che ce ne accorgessimo (anche se la nostra è una disattenzione
colpevole) hanno riportato indietro le lancette della storia,
dall’epoca in cui Nazioni moderne, ferite dalla tragedia della
seconda guerra mondiale si erano unite per "salvare le generazioni
future dal flagello della guerra" (art. 1 Carta dell’ONU)
al tempo del far west in cui ancora e sempre vige la legge del
più forte… ma questo ormai sarebbe un far west planetario!
Varcata questa soglia tutto diventerebbe possibile: già
da ora, con l’alibi della sicurezza, viene sempre più violato
il diritto alla privacy. Solo pochi mesi fa insorgevamo con sdegno
contro la pretesa di qualche politico nostrano che esigeva il
rilevamento delle impronte digitali agli stranieri che venivano
in Italia; oggi gli USA pretendono da noi (anche per una semplice
coincidenza nell’area internazionale/extraterritoriale degli aeroporti)
il passaporto a lettura ottica, attraverso il quale hanno accesso
non soltanto alle nostre dita, ma ad una lunga serie di informazioni,
legalmente ed illegalmente raccolte su di noi, e immagazzinate
in banche dati, pronte per essere vendute e comprate… da chi non
lo sapremo mai! E se oggi a fare le spese di questa "giustizia
sommaria", a pagare il prezzo più alto della cosiddetta
libertà duratura (enduring freedom) sono solo i poveri
dell’Afghanistan e dell’Iraq, cosa ne sarebbe del mondo intero
se, dopo aver ridotto a carta straccia ogni dichiarazioni e tutte
le convenzioni, ed aver svilito anziché rafforzato l’autorità
superiore dell’ONU, dovessero equipararsi i rapporti di forza?
Perciò, contro questa riesumata logica da far west, il
Papa non si stanca di ammonire: "pacta servanda sunt: gli
accordi liberamente sottoscritti devono essere onorati";
e auspica "una riforma che metta l’Organizzazione delle Nazioni
Unite in grado di funzionare efficacemente per il conseguimento
dei propri fini statutari, ricordando che "quale cardine
del sistema venne posto il divieto del ricorso alla forza".
Sarà un caso, ma le uniche due eccezioni previste dal cap.
VII della Carta delle Nazioni Unite, espressamente citate dal
Papa: la legittima difesa, da esercitarsi secondo le modalità
previste e nell’ambito delle Nazioni Unite (dentro i tradizionali
limiti di necessità e proporzionalità); ed il sistema
di sicurezza collettiva, che attribuisce competenze e responsabilità
in materia di pace al Consiglio di Sicurezza, non fanno che evidenziare
la totale illegalità degli ultimi due conflitti. Infine
il Papa rivolge la sua attenzione alla "piaga funesta del
terrorismo". Anche lui, come molti giuristi e analisti, riconosce
che "un ordinamento giuridico costituito da norme elaborate
nei secoli per disciplinare i rapporti tra Stati sovrani si trova
in difficoltà a fronteggiare conflitti in cui agiscono
anche enti non riconducibili ai tradizionali caratteri della statualità",
ma a differenza di altri non ne deduce l’opportunità di
affossare tout court tale ordinamento, per dare il via libera
ad una sorta di anarchia planetaria; al contrario, vede in questo
moderno limite un’ulteriore conferma della necessità di
rafforzare l’ordinamento internazionale ed i suoi attori. Entrando
poi nello specifico delle contromisure il messaggio recita testualmente:
"è essenziale che il pur necessario ricorso alla forza…".
Questo è a mio avviso il punto più delicato dell’intero
documento e sarà probabilmente quello più dibattuto.
Delicato perché è appena accennato, il Papa non
lo approfondisce, dandogli appena lo spazio di una subordinata.
Ed è prevedibile che ciascuno vorrà interpretarlo
cercando di "portare l’acqua al proprio mulino": dalle
posizioni più minimaliste alle più guerrafondaie.
Credo perciò sia utile, oltre che onesto e doveroso, cercare
il giusto contesto interpretativo di queste parole e tale non
potrà che essere l’insieme dei pronunciamenti del Papa
sulla Pace, nei venticinque anni del suo pontificato ed in particolare
negli ultimi due, dando per scontati e indiscutibili il rigore
e l’assoluta coerenza di Giovanni Paolo II su tale questione.
Cosa intendere dunque per "ricorso alla forza"? Certamente
non "ricorso alla guerra", da lui definita "un’avventura
senza ritorno", in occasione della guerra del Golfo, del
’91, e contro cui si è pronunciato un numero imprecisato
di volte nel corso dell’ultimo biennio. Come non ricordare il
drammatico appello all’Angelus di domenica 16 marzo 2003, in cui
battendo con straordinaria e ritrovata forza sul leggio disse:
"Io appartengo a quella generazione che ha vissuto la seconda
Guerra Mondiale ed è sopravvissuta. Ho il dovere di dire
a tutti i giovani, a quelli più giovani di me, che non
hanno avuto quest’esperienza: "Mai più la guerra!", come
disse Paolo VI nella sua prima visita alle Nazioni Unite".
Vanno dunque deplorate tutte le speculazioni, soprattutto in ambito
cattolico, che a partire da questa espressione vorrebbero giustificare
gli atroci crimini che ogni giorno vengono commessi contro i più
indifesi e gli innocenti, come se "anche il Papa ha detto
che era necessario". Esclusa l’ipotesi della guerra, mi sembra
che la più attendibile possa essere quella di una vera
e propria forma di polizia internazionale. E anche qui, solitamente,
le speculazioni non mancano. Forse è bene ricordare ai
cultori dei vari Rambo e ai lacchè del sistema che
nei paesi democratici e civili "di solito" la polizia
non bombarda la popolazione civile, né stringe d’assedio,
prendendole per fame, sete e malattia, intere città. Solitamente
impiega piuttosto mesi e strumenti sofisticatissimi di indagine
per colpire "solo" nel segno, tant’è che la percentuale
delle vittime registrata negli attuali conflitti (93 civili per
7 militari) non si addice evidentemente a quelle che comunemente
chiamiamo operazioni di polizia. E comunque la si pensi circa
l’uso della forza il Papa conclude: "In ogni caso, i Governi
democratici ben sanno che l’uso della forza contro i terroristi
non può giustificare la rinuncia ai principi di uno Stato
di diritto. Sarebbero scelte politiche inaccettabili quelle che
ricercassero il successo senza tener conto dei fondamentali diritti
dell’uomo: il fine non giustifica mai i mezzi!". Certo lo
sanno, ad ogni modo ha pensato bene di ricordarglielo. La lettera
volge quindi al termine con uno splendido esempio di fusione tra
il piano della mistica e quello del diritto. Il Papa indica come
la promessa rivolta indistintamente a tutti gli operatori di Pace
di essere un giorno chiamati "figli di Dio" (Mt 5,9)
trova così intense risonanze nel cuore umano perché
risponde ad un anelito e ad una speranza che vivono in noi indistruttibili.
E che saranno chiamati figli di Dio "perché Egli per
natura è il Dio della Pace". Da ciò ne deriva
che "nell’annuncio di salvezza che la Chiesa diffonde nel
mondo, vi sono elementi dottrinali di fondamentale importanza
per l’elaborazione dei principi necessari ad una pacifica convivenza
tra le Nazioni". Tra questi il Papa indica una doppia necessità:
quella di integrare la giustizia con l’amore, in vista dell’edificazione
di una "civiltà dell’amore" e quella "del
perdono per risolvere i problemi sia dei singoli che dei popoli.
Non c’è Pace senza perdono!". A questo punto, sembrerebbe
che abbia davvero sconfinato nell’Utopia, ma sarà proprio
l’Utopia a salvare il mondo.
Alberto
Vitali
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