Sono
seduto alla scrivania, ma è come se fossi inginocchiato ai piedi
di una grande croce, al capezzale di un malato o nel parlatorio
di un carcere, perché di certe cose si può parlare solo tenendo
fisso lo sguardo sulle piaghe del Crocifisso. Diversamente si
perde di vista l'essenziale… come purtroppo sta avvenendo, ancora
una volta, in questi giorni. Un banale episodio di cronaca ha
infatti riaperto la controversia sulla presenza del crocifisso
nelle aule scolastiche: nuovo l'episodio, non la questione e nemmeno
i soggetti. Da un lato il signor Adel Smith, mussulmano, più volte
ospite dei migliori salotti televisivi, dove viene ostinatamente
presentato quale rappresentante del mondo mussulmano, sebbene
l'Unione delle Comunità ed Organizzazioni Islamiche in Italia
ne abbia pubblicamente preso le distanze e invitato "tutti i fratelli
e le sorelle ad informarsi bene su chi sia Adel Smith e sui suoi
atteggiamenti". Con lui pochi rappresentanti di una certa cultura
laica, desiderosi di prendersi finalmente una rivincita - in nome
del pluralismo religioso! - dopo tante battaglie perse in nome
della "laicità dello stato", qualche decennio fa. Sul versante
opposto, eminenti rappresentanti della gerarchia cattolica, diversi
politici di entrambi gli schieramenti e non pochi "ferventi" opportunisti,
autoproclamatisi "defensores fidei", sebbene gli obiettivi che
perseguono appaiano del tutto in contrasto con i più elementari
principi evangelici. Intenzionati a non lasciarsi sfuggire una
così ghiotta occasione di portare acqua al mulino dei propri interessi,
ce li ritroviamo (quando meno avremmo pensato) "seduti sulla cattedra
di Mosé"… fin qui la cronaca. Contrariamente a quanto potrebbe
sembrare, non è la controversia in sé a preoccuparmi: credo anzi
che, da cristiani, tale questione non dovrebbe affatto preoccuparci.
A ciascuno il suo: non mancano fior di giuristi, politici, ministri…
cui spetta il compito di decidere se sia o no costituzionale lasciare
il crocifisso nelle scuole. Noi, da discepoli di Gesù, faremmo
meglio a preoccuparci di altre cose, decisamente più gravi e urgenti.
Anzitutto della ricaduta che questa vicenda potrebbe avere sul
rapporto coi fratelli e le sorelle di altre tradizioni religiose,
in particolare con i mussulmani: celebrare il 25° di pontificato
del primo Papa entrato in una Moschea, che per due volte ha invitato
i rappresentanti di tutte le grandi religioni a momenti comuni
di preghiera, vorrà bene significare qualche cosa!… Se non altro,
che dovremmo impegnarci di più per "celebrare un culto gradito
a Dio" (Eb 12,28), non a noi stessi; un culto che sia veramente
"ad maiorem Dei gloria", non a nostro uso e consumo. E soprattutto
dovremmo preoccuparci dell'uso strumentale che, ormai ogni giorno,
viene fatto della croce, fuori e dentro la Chiesa. Di più, dovremmo
preoccuparci di non smarrire - noi per primi - il significato
intrinseco della croce, dal momento che in questi tempi non traspare,
neanche in filigrana, non soltanto nel dibattito pubblico, ma
nemmeno nei discorsi dei più autorevoli "addetti ai lavori". Non
sarà dunque tempo perso quello passato in ginocchio, rivolti con
sguardo contemplativo al mistero di questa sofferenza e la mente
ed il cuore affondati nelle pagine dei Vangeli, a chiederci: cos'è
la croce di Cristo? Cos'è o meglio chi è il Crocefisso? Già a
livello letterale ci accorgeremmo di qualche distorsione… Comunemente,
infatti, con questa parola intendiamo un oggetto: certamente sacro,
ma niente più che un simbolo da appendere alla parete o portare
al collo. Al contrario, non ci viene istintivo pensare che la
parola "Crocifisso" sia anzitutto un participio passato, riferito
a "Colui che è stato inchiodato alla croce" e perciò - quale sostantivo
maschile - indichi Gesù stesso. Potrebbe sembrare una questione
di lana caprina, ma non lo è: l'analisi del linguaggio è molto
importante per comprendere la nostra mentalità ed il significato
che diamo alle cose; i nostri veri interessi e le azioni conseguenti.
Aver spostato l'accento da ciò che il Crocifisso è "in sé" a ciò
che è "per noi", è la conseguenza più immediata dell'aver sostituito
il significato dato da Gesù alla sua Croce con quello che vogliamo
dargli noi. In altre parole, passare dalla sua intenzionalità,
che coincide con quella del Padre, alla nostra, che coincide coi
nostri tornaconti. Oltre questa soglia, si schiudono una miriade
di possibili (re)interpretazioni, tante quante sono gli interessi
di ciascuno; ma anche un vortice, pronto a risucchiarci, senza
alcuna possibilità di salvezza, perché in esso tutto viene trasformato,
finanche nel suo contrario. Così la croce, impugnata per il lato
più corto (anziché abbracciata per quelli trasversali), diventa
uno strumento di esclusione anziché di accoglienza, di contrapposizione
anziché di comunione, di violenza anziché di pace, di morte anziché
"fonte della vita". Già è successo… e qualcuno ci sta riprovando:
per fortuna la voce forte del Papa ha negato autorevolmente ogni
possibile legittimazione. Perciò è urgente che noi cristiani riprendiamo,
in fretta, il nostro posto "dietro" a Gesù, superando una volta
per tutte la ricorrente tentazione di Pietro che, udito l'annuncio
della passione, tentò di distogliere il Maestro dalla sua missione:
"questo non ti accadrà mai!". E Gesù a lui: "rimettiti dietro"
(cioè al posto del discepolo, di colui che segue il Maestro ovunque
vada, anche quando la strada si fa scomoda e pericolosa, perché
all'orizzonte si intravede la croce). E poi "satana: tu non pensi
secondo Dio, ma secondo gli uomini" (Mc 8,33). Questo è il punto:
pensare la croce secondo Dio o secondo gli uomini! Per Gesù la
croce non fu soltanto l'epilogo della sua esperienza terrena (tre
ore d'agonia sul Calvario), ma la logica e lo stile di tutta la
missione che il Padre gli aveva affidato. Quella missione che
poi, a sua volta, affiderà ai discepoli, la sera di Pasqua. E
certamente, per Lui, la croce non poteva essere il segno distintivo
di una particolare cultura, giacché la Buona Notizia era destinata
a gente "di ogni nazione, razza, popolo e lingua" (Ap 7,9). La
croce fu invece l'atteggiamento costante di ogni suo gesto e parola;
fu il compimento della sua kenosi (l'umiliazione): "Cristo Gesù…
pur essendo di natura divina… spogliò se stesso, assumendo la
condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in
forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte
e alla morte di croce…" (Fil 2,5-8). Solo nel contesto di questa
logica si posso comprendere gli insegnamenti di Gesù ai discepoli;
insegnamenti che hanno, evidentemente, un forte carattere autobiografico.
"Allora Gesù disse ai suoi discepoli: "Se qualcuno vuol venire
dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua""
(Mt 16,24). Che tradotto nei gesti concreti della quotidianità
significa: "Per voi però non sia così; ma chi è il più grande
tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che
serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve?
Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi
come colui che serve" (Lc 22,26-27). Così, durante l'Ultima Cena,
Gesù compì un gesto simbolico, che bene esplicitava il carattere
della sua missione, per indicare ai discepoli lo stile con cui
dovevano restare nel mondo, senza essere del mondo: "cominciò
a lavare i piedi dei discepoli" (Gv 13,5). Poi dimostrò con il
sacrificio della vita che non fu una semplice "dichiarazione di
principio" il monito contro la violenza: "A chi ti percuote sulla
guancia, porgi anche l'altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare
la tunica" (Lc 6,29). A Pietro, che tentò di difenderlo nell'orto
degli ulivi, Gesù ordinò infatti: "Rimetti la spada nel fodero,
perché tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada"
(Mt 26,52) e, durante la passione, si lasciò togliere il mantello
e la tunica dai soldati. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi:
basta leggere i Vangeli. Riassuntivo di tutti è però il comandamento
conosciuto come "la regola d'oro", che Gesù pronunciò a coronamento
del discorso della montagna: "Tutto quanto volete che gli uomini
facciano a voi, anche voi fatelo a loro" (Mt 7,12). "Tutto" quanto
"volete", non "solo" quanto "vi faranno" o "vi permettono di fare"…
e questo dovrebbe risolvere, già di per sé, una quantità non indifferente
di questioni, tra cui la pretestuosa diatriba sul numero di moschee
e di chiese, da costruire rispettivamente in occidente e nei paesi
mussulmani. Il condizionale però è d'obbligo, dal momento che
le pagine del Vangelo sono palesemente considerate carta straccia
da molti moderni farisei, che ritenendole forse poco "praticabili",
preferiscono ritagliarsi un cristo a propria immagine e somiglianza.
Un cristo "capace di stare al mondo" e certamente più "accettabile"
del Nazareno: per quanto triste, non è una novità. Fin dagli albori
della predicazione "Cristo crocifisso è scandalo per i Giudei
e stoltezza per i pagani" (1Cor 1,23): la novità inquietante è
che ora lo sia diventato anche per alcuni cristiani! Rinunciare
a qualche diritto, spogliarsi delle proprie prerogative, ripudiare
la legge del taglione, rispondere al male col bene, offrire anche
ciò che non ci viene offerto, fare "spazio" per accogliere e servire…
"siamo matti?". Ecco il baratro che ci separa dall'Uomo della
Croce! Con ragione i vescovi si dicono preoccupati per lo stato
della fede in occidente, ma non basterà il preambolo di una Costituzione
- per quanto importante come quella europea - a sanarla. E' questione
di conversione, non di leggi: cercare di imboccare la scorciatoia
(spesso tentata) di "salvare il salvabile" con la forza dell'imposizione,
non fa che confermare la natura profonda di questo male. Se anche
noi abbiamo una fede così debole nella forza del Crocifisso che,
risorto, opera nella storia mediante il suo Spirito … se anche
a noi sembra poco efficace la logica della croce, tanto da cercare
la protezione dei potenti e delle loro istituzioni, e siamo perciò
disposti a ridurre il Crocefisso a semplice "simbolo della nostra
cultura" (non più sasso di inciampo, ma sigillo del sistema) allora,
sì, è veramente un guaio! Non è il signor Adel Smith a preoccuparmi,
né quelli come lui; non è il giudice che gli ha dato ragione e
nemmeno i giornali che stanno cavalcando la tigre. Siamo noi cristiani,
quando ci riveliamo incapaci di rispondere secondo la logica della
croce. E' l'atteggiamento con cui tanti di noi affrontano ogni
giorno il fenomeno dell'immigrazione, senza avvertire - neanche
da lontano - il divario che esiste ormai tra il proprio modo di
pensare, di parlare, di agire e il messaggio del Crocifisso. Così
facendo, il crocifisso resterà forse appeso nelle nostre scuole
e nelle aule dei tribunali… ma ridotto a semplice arredo. Del
resto, per quanti anni non ci siamo nemmeno accorti che fosse
lì, magari "in castigo" dietro la lavagna o coperto dalla carte
geografiche? E se cadeva, si rompeva e non veniva sostituito,
perché nessuno ci pensava, chi mai se l'è presa?… Così come ora
non ce la prendiamo se continua a cadere e a rompersi, nelle nostre
strade o nel "nostro mare". Mi preoccupa il fatto che di fronte
ai fratelli mussulmani o a chiunque la pensa in maniera diversa
da noi, siamo più preoccupati di far valere i nostri diritti (di
tenere stretta la tunica ed il mantello), che di annunciare la
logica della croce, quale unica possibilità di salvezza per tutti;
e ciò non gioverà né a noi, né alla Causa di Gesù. Ci piaccia
o no, siamo entrati nell'era della globalizzazione: lo spazio
si è fatto stretto e il tempo breve. Questo impone nuove sfide
all'umanità, prima fra tutte quella di saper convivere. In un
mondo che barcolla ogni giorno sul crinale dell'autodistruzione,
della guerra e del terrorismo, solo la logica di servizio, di
abnegazione, di accoglienza, di sacrificio, del dono disinteressato
che viene dalla croce può salvarci. Non solo in senso escatologico
(per la vita eterna), ma - mai come ora - anche in quello storico:
per salvarci adesso! Dovremmo perciò preoccuparci non tanto di
appendere croci, ma di annunciare con la forza di una testimonianza
vissuta che soltanto nella logica del Crocifisso c'è salvezza
per tutti... Da cristiani, potremo allora ritrovarci ai piedi
di questo antico, terribile e salvifico simbolo, per cantare,
in piena consapevolezza e verità, l'antica acclamazione liturgica:
"Ave Croce, unica speranza".
Alberto
Vitali
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