Il
discorso che il papa ha rivolto ai membri del tribunale della
Rota romana, lo scorso 28 gennaio, ha riproposto all'opinione
pubblica italiana la questione dei fedeli "divorziati e risposati"
nella Chiesa cattolica. A dire il vero più che il discorso
del papa, lo hanno riproposto i giornali nazionali che, raramente
come in questo caso, si sono esercitati in un'operazione di mala
informazione. Se infatti è più che lecito leggere
criticamente, dalla propria prospettiva culturale e ideologica,
qualsiasi avvenimento o intervento di chicchessia, non dovrebbe
però mancare mai quella serietà intellettuale che
sola può garantire ai lettori l'esatta comprensione dell'oggetto
in discussione. Scorrendo invece le colonne delle maggiori testate
italiane, nei giorni successivi all'inaugurazione dell'anno giudiziario
vaticano, si aveva l'impressione che il papa avesse lanciato una
feroce campagna anti-divorzista - o peggio anti-divorziati - con
tanto di caccia alle streghe. In realtà il discorso del
papa, breve e conciso, fu piuttosto una riproposizione, certamente
accorata e preoccupata, della dottrina cristiana sul matrimonio:
le sue proprietà essenziali (unità e indissolubilità
- Codice di Diritto Canonico, can 1056), il carattere sacramentale,
il suo fondamento che "poggia sul diritto naturale",
ed un richiamo a tutti gli attori delle cause di separazione perché
agiscano in questo campo con la massima prudenza. Cos'altro avrebbe
potuto dire? La Rota è infatti l'ultimo grado dei tribunali
ecclesiastici, chiamati a verificare che un matrimonio, formalmente
celebrato, sia però invalido per vizio di consenso (quando
ad esempio i contraenti lo hanno celebrato non escludendo la possibilità
di ricorrere in futuro al divorzio civile, o per costrizione,
inganno
o ancora con il proposito di non avere figli) o
per altri impedimenti (ad esempio gravi problemi fisici o sessuali
celati al partner)
Il papa si è dunque mosso sul
piano dei principi mentre non ha minimamente accennato all'atteggiamento
da tenere nei confronti di coloro che sono già divorziati
e risposati. Non ha quindi formulato giudizi contro le persone,
né lanciato anatemi. Questa precisazione mi sembra di estrema
importanza - e avrebbero fatto bene a sottolinearla tutti coloro
che sono intervenuti sulla questione - non tanto per difendere
l'intervento papale, quanto piuttosto per evitare ulteriori sofferenze
a persone già seriamente provate. Per altro le preoccupazioni
del papa mi sembrano condivisibili anche sul piano più
strettamente pastorale: in Italia vengono inoltrate poco più
di 3 mila cause l'anno, negli USA (con lo stesso numero di cattolici)
50 mila; ma soprattutto su 100 matrimoni giudicati dalla Rota
ben 95 sono considerati invalidi, di cui l'85% per vizio di consenso.
E' bene ricordarlo: la Rota non "annulla" un matrimonio
validamente celebrato (essendo un sacramento neanche il papa avrebbe
questo potere), ma verifica le cause che fin dall'inizio l'avrebbero
invalidato, e perciò non sarebbe mai esistito. Si tratta
quindi di matrimoni invalidi da sempre per superficialità
(imbroglio?) dei contraenti o dei sacerdoti che li hanno benedetti,
per non aver verificato tutte le cause di sussistenza. Di più:
in una società in cui - come lamenta il papa - il divorzio
"sembra essere talmente radicato
che quasi non valga
la pena di continuare a combatterlo", quanti saranno - tra
le migliaia che celebriamo ogni anno - i matrimoni effettivamente
"validi", se per esserlo i contraenti devono escludere
categoricamente l'eventualità del divorzio? E non è
forse una palese contraddizione la stessa domanda che al termine
del rito religioso "concordatario" (con effetti civili)
noi sacerdoti "dobbiamo" rivolgere agli sposi perché
dichiarino la loro intenzione circa la "comunione o separazione
dei beni"? Chi si sposa nel Signore non dovrebbe condividere
tutto? E non è pura ipocrisia fingere di non sapere che
- tranne pochi, particolari casi - la separazione dei beni è
finalizzata a semplificare le pratiche di un'eventuale divorzio?
Davvero il richiamo del papa ad una maggiore presa di coscienza
del valore sacramentale ed umano del matrimonio e ad una più
attenta cura pastorale appare tutt'altro che infondato. Questione
assai diversa e non affrontata nel discorso in questione è
la partecipazione dei fedeli "divorziati e risposati"
alla vita della Chiesa ed in particolare la loro ammissione ai
sacramenti. Questo è certamente uno degli aspetti più
dolorosi, non solo per i diretti interessati, ma anche per tanti
preti e vescovi che non concepiscono il loro ministero quale mera
esposizione e applicazione di leggi ecclesiastiche. Il problema
è certamente grave e di non facile soluzione: su questo
siamo tutti d'accordo; ma essendo altrettanto convinti dell'insostituibilità
dell'Eucaristia - non solo per la vita della Chiesa, ma anche
per quella dei singoli credenti - la ricerca di una soluzione
adeguata costituisce ormai un'autentica priorità pastorale.
Così negli ultimi decenni, da quando è cresciuto
sensibilmente il numero dei fedeli che si trovano in questa situazione
- soprattutto in Europa e nel Nord America - alcuni tra i vescovi
più sensibili hanno iniziato ad affrontarlo, chiedendo
di poterlo discutere anche ai più alti livelli delle istituzioni
ecclesiali; mentre molti sacerdoti hanno iniziato a sperimentare
"in proprio" alcuni percorsi di accompagnamento, viste
le urgenza della vita quotidiana. Tutto questo lasciava ben sperare,
ma il 6 luglio 2000, nel bel mezzo del grande Anno Santo che ha
visto aprirsi le porte e le braccia del Vaticano anche agli eserciti
di tutto il mondo - alcuni dei quali con un passato/presente stragista
- per la celebrazione del giubileo dei militari e la loro riconciliazione
con Dio e con la Chiesa, un documento del Pontificio Consiglio
per i Testi legislativi ha gelato il sangue a quanti coltivavano
qualche speranza di una prossima soluzione. Con linguaggio burocratico
e risentito, più adatto a contese giuridiche tra antichi
rivali che alla passione materna di una Chiesa che è Mater
et Magistra, il testo ribadisce dal suo esordio l'assoluto divieto
fatto ai fedeli divorziati e risposati di accedere ai sacramenti:
"Il Codice di Diritto Canonico stabilisce che: "Non
siano ammessi alla sacra Comunione gli scomunicati e gli interdetti,
dopo l'irrogazione o la dichiarazione della pena e gli altri che
ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto"
".
La Dichiarazione termina poi ribadendo che "Quanto esposto
in questa Dichiarazione non è in contraddizione con il
grande desiderio di favorire la partecipazione di quei figli alla
vita ecclesiale, che si può già esprimere in molte
forme compatibili con la loro situazione", delle quali però
non si intravede nemmeno l'ombra. Ora è evidente che -
piaccia o non piaccia - trattandosi di un documento ufficiale
è normativo per tutti: laici, preti e vescovi. Non si può
dunque disobbedire, ma nemmeno fingere di ignorare alcune perplessità,
come quelle suggerite dallo stesso passo scritturistico a cui
il documento espressamente si ispira, la prima lettera ai Corinzi
di S. Paolo: "Perciò chiunque in modo indegno mangia
il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo
e del sangue del Signore. Ciascuno, pertanto, esamini se stesso
e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché
chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia
e beve la propria condanna" (1 Cor 11, 27-29). Il problema
è dunque l'indegnità, ma è evidente a chiunque
che esistono motivi diversi per cui si possa essere indegni di
ricevere il Corpo di Cristo. Anzitutto quello a cui Paolo si riferiva
concretamente in quella situazione: la mancanza di carità
e condivisione nei confronti dei fratelli bisognosi! Eppure oggi,
in tempo di globalizzazione neoliberale, non solo all'interno
della Chiesa non esistono più né la comunione dei
beni, caratteristica della comunità primitiva (At 2), né
questa attenzione ai bisogni del "fratello di panca"
- spesso un emerito sconosciuto - per cui Paolo rimprovera tanto
severamente i corinzi, ma addirittura molti che si professano
cristiani sono azionisti e/o dirigenti proprio di quelle aziende
e multinazionali accusate di essere le maggiori responsabili degli
squilibri economici mondiali, e perciò dello sfruttamento,
della fame e della morte di migliaia di persone tutti i giorni.
Ciononostante nessuno ha mai pensato di negare a costoro i sacramenti.
Inoltre, oggigiorno la compravendita delle armi rappresenta il
30% del commercio mondiale e la cattolicissima Italia è
tra i leader indiscussi del settore: di recente a Brescia si è
svolta l'Exa 2002, la mostra internazionale delle armi. Ebbene
neanche agli azionisti e ai trafficanti di tali strumenti di morte
è fatto alcun divieto circa la partecipazione ai sacramenti,
nonostante che le nefaste conseguenze della loro opera siano sotto
gli occhi di tutti e a tutti diano scandalo. Come spiegare tale
disparità di trattamento?
Eppure se dovessimo stilare
un'improbabile hit parade dei comandamenti, il quinto, per valore,
non verrebbe certamente dopo il sesto! Perciò, lo confesso,
spesso andiamo in crisi e parlo al plurale con cognizione di causa!
La Chiesa cattolica non è la sola ad attribuire al matrimonio
così grande dignità, e la Chiesa Ortodossa d'oriente
le riconosce lo stesso valore sacramentale. E' dunque interessante
dare una "sbirciatina" in giro, per vedere come i fratelli
delle altre confessioni cristiane affrontano la questione. I più
vicini a noi, per mille motivi (successione apostolica, sacramenti
),
sono proprio i fratelli ortodossi. Fin dai primi secoli dell'era
cristiana, la Chiesa ortodossa ha sottolineato l'ideale monogamia
del matrimonio cristiano: caratteristica che non doveva venire
meno per la morte di uno dei coniugi. Per questo principio venivano
sconsigliate al vedovo e alla vedova nuove nozze; anzi, le vedove
erano inquadrate in una sorta di ordine religioso, l'Ordo viduarum,
dedito alle opere di assistenza agli infermi, agli orfani, ai
poveri (cfr. 1Tim 5,9-10). La prassi pastorale della Chiesa ortodossa
prevede però alcuni casi in cui il matrimonio validamente
celebrato possa venire sciolto: è la cosiddetta pratica
dell'oikonomia. Con ciò si viene a mettere in evidenza
che "il matrimonio, come dono proposto alla libertà
umana, conferisce la grazia... Ma la libertà umana può
rifiutare la grazia del sacramento: il riconoscimento da parte
della Chiesa di questo rifiuto è il divorzio..." (J.
Meyendorf, Il matrimonio e l'eucaristia, in Russia cristiana XII,
119 (1971). Che le seconde nozze dei divorziati siano solo una
tolleranza è generalmente sottolineato mediante l'imposizione
di un tempo penitenziale prima della cerimonia religiosa. Inoltre,
in caso di vedovanza come di divorzio, il terzo matrimonio è
concesso con molte condizioni e il quarto completamente escluso.
La Chiesa ortodossa proclama, quindi, la santità e l'unicità
del matrimonio cristiano, tuttavia non pensa che si debba escludere
sistematicamente la compassione, senza comunque che questo orientamento
pastorale possa condurre a un lassismo istituzionalizzato. Nella
prospettiva protestante, il matrimonio è un'istituzione
fondamentale della società umana che serve da quadro di
vita alle relazioni privilegiate tra uomo e donna. La teologia
protestante ha più volte affermato che il matrimonio appartiene
all'ordine della creazione voluto da Dio e come tale deve essere
considerato dall'uomo con il massimo rispetto. Le chiese protestanti
non hanno però la concezione sacramentaria del matrimonio
comune al cattolicesimo e all'ortodossia, e questo rende meno
problematica l'accettazione di nuove nozze da parte dei fedeli:
per quanto non sia un fatto scontato, generalmente dopo una verifica
dell'impossibilità di risanare il rapporto precedente e
delle condizioni sufficienti per una separazione senza rancori
ed equa nei confronti del coniuge più debole, vengono accettate.
Addirittura la Chiesa valdese riconosce valide le nozze dei divorziati
celebrate presso l'autorità civile, perché è
la libertà del consenso che le rende tali e non il riconoscimento
della Chiesa. In ambito cattolico non sono però mancate
alcune iniziative interessanti, a volte favorite dagli stessi
vescovi, come l'esperienza della parrocchia di Sainte Marguerite,
a Marsiglia. Qui dal 1997, su invito del vescovo diocesano, il
parroco ha costituito un'équipe incaricata di elaborare
un progetto di accoglienza per le coppie che si presentano a chiedere
un segno della Chiesa in occasione del proprio nuovo matrimonio
civile. Il sacerdote indirizza i divorziati verso una coppia di
accoglienza. Nel primo incontro tra questa e coloro che stanno
per risposarsi civilmente viene valutata la richiesta, verificando
la motivazione del passo, chiedendo come giudicano questo momento
spirituale e fornendo informazioni su "la Chiesa e i divorziati".
Viene inoltre proposta la preghiera, indicandone le condizioni
- cioè spiegando che non ha nessun valore sacramentale
o affine - e il modo di preparazione. Si svolge quindi la riunione
di esame congiunto dell'équipe di accoglienza, cui segue
un momento di condivisione con le altre coppie accolte. La preghiera
viene elaborata durante altri due incontri col sacerdote e si
svolge in concomitanza con le nuove nozze civili. "La grandissima
maggioranza delle coppie accolte è felice di questo slancio
caloroso e fraterno che noi offriamo, nonostante la severità
che la Chiesa auspica" afferma Gérald Congui, uno
dei responsabili dell'équipe. Esistono già dunque
vie percorribili; il confronto ecumenico ci potrà inoltre
stimolare in quella "gara di condivisione e carità"
che l'apostolo Paolo ci ha indicato (Rm 12,10) e per quanto la
strada sarà lunga e faticosa siamo certi che la Chiesa,
come già agli inizi, saprà nuovamente inventare
e rispondere con "soluzioni sacramentali" alle sfide
della carità (At 6,1-7). Non ne dubitiamo, perché
se è evidentemente proibito disobbedire, è invece
lecito sperare.
di
Alberto Vitali
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