Quando
l'8 dicembre 1965 papa Paolo VI chiudeva solennemente il Concilio
Vaticano II, la mia generazione aveva altro a cui pensare. O forse
non pensava proprio a niente: eravamo impegnati a prendere le
misure del piccolissimo mondo che ci circondava e a muovere i
primi passi. Nati proprio in quegli anni, non abbiamo avuto evidentemente
la possibilità di vivere quella stagione "epocale" in cui la Chiesa,
nel breve spazio di quaranta mesi, percorse un cammino più lungo
di quanto non avesse fatto negli ultimi secoli. A noi (e ahi noi!)
sarebbe toccato invece di vivere il tempo del post-concilio, tempo
di beghe e delle rivalse dei "conservatori", che avendo avuto
la peggio, almeno nella prima parte della grande assise, si sono
successivamente impegnati a recuperare terreno, tanto sul piano
pastorale quanto su quello dell'interpretazione dell'evento e
dei suoi documenti… fino ai nostri giorni. Così nello scorso mese
di giugno, in occasione della presentazione di un nuovo volume
dal titolo quanto mai emblematico: "Il Concilio Ecumenico Vaticano
II. Contrappunto per la sua storia", scritto da Mons. Agostino
Marchetto (studioso di storia della Chiesa, poi in servizio diplomatico
per la Santa Sede e oggi segretario del pontificio consiglio per
i migranti e gli itineranti) il Card. Ruini ha avuto modo di polemizzare
sull'opera in cinque volumi "Storia del concilio Vaticano II"
diretta da Giuseppe Alberigo, paragonandola a quella scritta dal
servita Paolo Sarpi sul Concilio di Trento, nel 1619 e subito
messa all'indice dei libri proibiti. Nel frattempo però - è ovvio
- anche noi siamo cresciuti e abbiamo preso strade totalmente
diverse. Alcuni allontanandosi definitivamente dalla Chiesa: "certamente
a causa dell'imperante secolarizzazione e laicismo diffusi nella
società!" si direbbe, com'è ormai abituale in ambito ecclesiale…
ma forse, con un pizzico di sincerità in più, si potrebbe altrettanto
argomentare: "perché "i credenti… per aver trascurato di educare
la propria fede, o per una presentazione ingannevole della dottrina,
od anche per i difetti della propria vita religiosa, morale e
sociale… nascondono e non manifestano il genuino volto di Dio
e della religione"" (come invece recita la Gaudium et Spes al
n° 19). Altri, rimasti in seno alla Chiesa, del Concilio hanno
più o meno sentito parlare; altri ancora - come me - sono persino
diventati preti, ma - pur essendo passati per le sontuose aule
dei seminari e delle facoltà teologiche - non possono certo dire
di averne saputo molto di più. Ripensandoci ora, dopo quasi due
decenni di ministero, mi stupisco - e un po' mi scandalizzo -
nel constatare come la nostra formazione sacerdotale non contemplasse
alcun corso specifico sul Concilio e i suoi documenti, tanto meno
sul periodo storico ed ecclesiale in cui sono nati: ci si limitava
- parlo al passato, ma credo non sia cambiato nulla - a qualche
accenno quando se ne presentava l'occasione, in altre materie
curricolari. Non intendo perciò inoltrarmi in una analisi dettagliata
di cosa fu il Concilio o di quale ne sia l'interpretazione più
veritiera: non sono evidentemente la persona indicata, né abbiamo
lo spazio sufficiente per farlo; ma partendo dalla constatazione
- tanto ovvia da essere persino banale - che papa Giovanni non
ha certamente convocato un Concilio per limitarsi a ribadire cose
già dette e ridette - vorrei chiedermi cosa resta oggi, nella
Chiesa, di quella preoccupazione e di quel sogno che lo spinsero
ad intraprendere una così grande avventura: il desiderio cioè
di nuova Pentecoste, che permettesse finalmente alla Chiesa di
dialogare, andando dritta al cuore degli uomini e delle donne
del suo tempo, dopo secoli di arroccamento e monologhi. Beninteso:
papa Giovanni non fu un rivoluzionario, né un "teologo della liberazione";
fu piuttosto un uomo ben piantato nella tradizione (con la T maiuscola)…
ma altrettanto nel Vangelo e questo gli permise di comprendere
che, pur senza svalutare il "sabato", quello che da sempre interessa
a Dio è principalmente l'uomo. Vorrei perciò richiamare alcune
questioni che, per quanto ampiamente affrontate in sede conciliare,
mi sembra continuino ad essere assai problematiche o perlomeno
incompiute nella pratica pastorale.
La
Chiesa
La
prima riguarda intimamente la vita della Chiesa e perciò non può
che indurci a rileggere la Costituzione Lumen Gentium. Compiendo
una sorta di rivoluzione copernicana, il Concilio abbandona la
tradizionale descrizione della Chiesa in chiave gerarchica: la
definisce invece "popolo di Dio", al cui interno tutti hanno pari
dignità e corresponsabilità, pur nella singolarità dei diversi
ministeri. Se di gerarchia si può ancora parlare deve (o dovrebbe)
di conseguenza essere allora soltanto nell'ordine del servizio:
"il più grande diventi come il più piccolo e chi governa come
colui che serve" (Cfr. Lc 22,26). E ciò implicherebbe una coerente
rivalutazione del ruolo dei laici (Apostolicam actuositatem)…
Ma oggi - 40 anni dopo - possiamo affermare con buona coscienza,
che la Chiesa abbia smesso un'attitudine gerarchica e autoritaria,
per assumere uno stile fraterno e corresponsabile? Quale idea
di Chiesa offriamo quotidianamente, attraverso le nostre azioni
e prese di posizione, dalle piccole parrocchie di paese fino agli
interventi pubblici della Conferenza Episcopale, che i media non
tralasciano di amplificare? E non è forse vero che anche quelle
timide aperture, che di fatto sono avvenute, non di rado hanno
finito per clericalizzare persino molti laici, rendendoli un ostacolo
a coloro che timidamente si affacciano alle soglie delle nostre
comunità, spinti da un sincero spirito di ricerca? E che dire
del ruolo ancora negato alla donna? Nonostante un'infinità di
riconoscimenti, beatificazioni e persino una lettera apostolica
(Mulieris Dignitatem), non resta di fatto ai margini delle responsabilità
ecclesiali? Non penso solamente alla questione del sacerdozio
femminile - che per altro ritengo paradossale ipotizzarne un'esclusione
perpetua in un mondo, anche religioso, dove rischieremo di restare
l'unica istituzione a perpetrare questa forma di discriminazione
- ma a tutti quegli ambiti dai quali resta inspiegabilmente esclusa,
senza che per porvi rimedio sarebbe necessario sovvertire la tradizione.
Già alcuni vescovi e cardinali hanno suggerito di considerare
perlomeno il ripristino del diaconato femminile, come era nella
Chiesa primitiva; ma anche di coinvolgere le donne in ruoli di
corresponsabilità - diciamo così - di origine "storica", non sacramentale,
come la "dignità" del cardinalato. O perché - come già avviene
in situazioni di emergenza - non rendere più comune l'affidamento
della cura pastorale di alcune parrocchie (vale a dire in qualità
di parroco) ad un gruppo più cospicuo di laici: uomini e donne
che potrebbero così partecipare anche agli incontri di vicariato?
E' mai possibile che persino quando ci riuniamo a questo livello,
essenzialmente di base, di confronto e organizzazione, ne siano
comunque escluse le religiose che quotidianamente condividono
con noi il servizio pastorale?... Pena poi, per una sorta di contrappasso,
ritrovarci con alcune comunità dove le uniche a "comandare" sono
davvero le donne: mamme, sorelle o domestiche dei preti: ma questa
è un'altra storia…
La
liturgia
Una
seconda questione, di non poco conto, riguarda la liturgia che
è "veramente la voce della sposa che parla allo sposo, anzi è
la preghiera che Cristo unito al suo corpo eleva al Padre" (SC
84). La Costituzione Sacrosanctum Concilium è senza dubbio quella
che ha avuto una ripercussione più immediata sulla vita della
gente, facendo cogliere anche ai più semplici il carattere innovativo
del Concilio: da quel momento infatti la messa è stata finalmente
celebrata nelle diverse lingue nazionali, permettendo a tutti
di comprenderla meglio. Con buona pace di chi ha urlato allo scandalo
e alla profanazione, parlare allo "sposo" senza capire cosa gli
si dice e, ancor peggio, senza capire cosa lui dica a noi, non
sarebbe certamente un bel modo di celebrare e santificare tanto
mistero! Naturalmente il Concilio non si limitò a questo: l'altare
ed il sacerdote rivolti al popolo non solo aiutarono la partecipazione
dei fedeli, ma recuperano quella comprensione teologica del sacramento
che nei secoli si era affievolita. E poiché evidentemente non
era soltanto questione di lingua e di spalle, il Concilio suggerì
di "inculturare" il rito nelle diverse tradizioni locali. Di fatto
- credo - questa possibilità giunse ad essere realtà soltanto
per il rito zairese, istituito appena in tempo, prima che l'onda
del riflusso tornasse ad imporre come unico schema universale
quello "europeo". Che poi sia "europeo" nel senso d'essere davvero
adatto alla sensibilità odierna degli europei è cosa tutt'altro
che scontata. Quando - per esempio - l'orazione conclusiva dell'Eucaristia
da celebrare nel primo giorno dell'anno, secondo il messale ambrosiano,
ci fa recitare "tu non vuoi che i convitati alla tua mensa indulgano
alla orge sfrenate del demonio…" credo che persino gli angeli,
in cielo, sghignazzino maliziosamente! Ciò detto, le discussioni
non mancano: non già per chiedersi come rendere la liturgia ancora
più accessibile alla celebrazione del "popolo di Dio", così che
possa contribuire "in sommo grado a che i fedeli esprimano nella
loro vita e manifestino agli altri il mistero di Cristo e la genuina
natura della vera Chiesa" (SC 2), quanto piuttosto per rimpiangere
le "belle cerimonie in latino", con paramenti sontuosi, tanto
incenso e sopprimere, con gli eccessi che sicuramente non sono
mancati, anche tante espressioni creative di partecipazione, maturate
in questi decenni.
L'ecumenismo
E
che dire dell'ecumenismo, che non è semplicemente un modo per
rimettere insieme i cocci, ma il debito di (in)gratitudine più
grande verso il Cristo che ha immolato se stesso "perché tutti
fossero uno" (Gv 17,21)? Quante colombe abbiamo fatto volare,
quante candele acceso, quanto incenso bruciato, quante celebrazioni
ecumeniche… ma a livello teologico ed ecclesiale - con la beata
eccezione della Carta Ecumenica - quali reali passi abbiamo compiuto?
E non è forse vero che all'infuori della "settimana di preghiera
per l'unità dei cristiani", nelle nostre assemblee non vengono
mai menzionate le Chiese sorelle… che anzi a volte riesce persino
problematico chiamarle così? In un tempo in cui la storia ci ha
sopravanzato e la sfida dei segni dei tempi ci indurrebbe piuttosto
ad elaborare una vera teologia del pluralismo religioso, è mai
possibile che a livello ufficiale, non si possa andare oltre un
misero "dialogo tra le religioni"? Perché quanto a dialogare lo
fanno pure i nemici, quando non possono più farsi la guerra… se
non altro per convenienza! E possiamo davvero credere che Dio
si aspetti così poco da noi? Che possa accontentarsi di vederci
stringerci rispettosamente le mani, pur continuando a ritenerci,
gli uni gli altri, null'altro che appartenenti a tradizioni erronee,
unici depositari della verità, non già frammenti diversi di un
unico grande progetto?
Chiesa
e mondo
Infine
il rapporto della Chiesa con il mondo (Gaudium et Spes). Convocando
il Concilio in quel preciso momento, "a diciassette anni dalla
fine della seconda guerra mondiale", negli anni della costruzione
del muro di Berlino e della crisi dei missili a Cuba, al tempo
in cui i "segni" parlavano delle lotte di riscatto delle classi
lavoratrici, della dignità della donna e della decolonizzazione
(Pacem in terris), Giovanni XXIII seppe esprimere ottimismo sulla
storia, sul mondo e sugli uomini. Non era sintomo di ingenuità,
ma di fede: quella fede che, guidata dallo Spirito, sa leggere
oltre l'apparenza e non si lascia distorcere nel giudizio da interessi
di parte. Così il papa spiegava allora il Concilio, nel radiomessaggio
dell'11 settembre 1962, ad un mese esatto dall'inizio dei lavori:
"la sua ragion d'essere è la sua continuazione, o meglio è la
ripresa più energica della risposta del mondo intero, del mondo
moderno al testamento del Signore". Nessuna condanna, nessuna
lettura catastrofista: il mondo sta già rispondendo positivamente
a Cristo, va' solamente incoraggiato e fortificato perché: "Il
mondo ha i suoi problemi, dei quali cerca talora con angoscia
una soluzione" e se talvolta perde di vista la verità non è per
malafede, ma perché "va da sé che l'affannosa preoccupazione di
risolverli con tempestività, ma anche con rettitudine, può presentare
un ostacolo alla diffusione della verità tutta intera e della
grazia che santifica". E dunque lecito chiederci: cosa è rimasto
di questo approccio positivo e costruttivo nei confronti del mondo,
in ciò che trapela negli ultimi anni, mesi, giorni dagli interventi
ecclesiastici? Sembrerebbe molto poco, quasi che la sfiducia abbia
preso il sopravvento, sebbene tanti di quegli stessi valori di
cui oggi la Chiesa si fa paladina, li abbia imparati proprio dal
mondo; magari dopo averli a lungo osteggiati: pensiamo, tra gli
altri, alla difesa dei diritti umani, al valore della democrazia,
alla Pace. Quale lungo itinerario da Erasmo da Rotterdam ai pensatori
laici dell'800 e del primo '900; dalle sofferenze di don Milani
per arrivare a Giovanni XXIII, a Paolo VI, a Giovanni Paolo II!
E per quanto ancora dovremo sentire le lagne di chi urla alla
persecuzione ogni qualvolta si oda il benché minimo cenno di democratico
dissenso, anche in terre dove godiamo di indiscussi privilegi,
mentre come Chiesa non abbiamo saputo riconoscere e denunciare
la vera persecuzione là dove sono stati uccisi migliaia di cristiani,
catechisti, religiose, preti, vescovi? Il rischio oggi è forse
quello di voler salvaguardare il sabato, ma di non rendersi conto
che stiamo perdendo, per strada, l'uomo.
I
tempi di Dio
Una
consolazione, non da poco, ci viene comunque dalla sapienza antica,
biblica: i tempi di Dio non sono i nostri! I grandi concili della
storia hanno sempre fruttificato in tempi lunghi, a volte lunghissimi.
Dio non ha fretta e la storia, come la Chiesa, sono nelle sue
mani. Così, credo, verrà un tempo in cui - lungi dalle beghe attuali
- la Chiesa recupererà lo spirito del Concilio e di Giovanni XXIII
con più libertà e gratuità e soprattutto con la coscienza che
questo tesoro è e sarà sempre qualcosa di essenziale alla propria
sopravvivenza. Forse allora la mia generazione non ci sarà più:
poco male. Tra la generazione dei nostri padri, che ha piantato
quei semi e quelle future che ne godranno in pienezza i frutti…
noi ci accontentiamo di innaffiare il campo e gustare qualche
primizia. .
Alberto
Vitali
(articolo
apparso su Viator - dicembre 2005)
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