Oltre
i presunti "buoni propositi" cosa sta succedendo in
Bolivia e nella vicina Colombia a margine dei programmi di conversione
della coltivazione della coca?
Si
fa in fretta a parlare di riconversione delle coltivazioni di
cocaina e a trovarsi tutti d'accordo sulla necessità morale
di farlo, ma, se per comprendere a pieno il fenomeno del narcotraffico
è necessario andare alle motivazioni politiche e internazionali
che l'hanno favorito (senza stendere inutili quanto ipocriti veli
pietosi sulla presenza USA in quelle regioni), per riportare veramente
la pace in quelle terre è necessario considerare i costi
che a causa di questo la popolazione locale sta pagando, per promuovere
progetti che siano non soltanto risolutivi, ma anche socialmente
sostenibili. Lo scorso anno il governo boliviano preparava già
i festeggiamenti per l'estirpazione delle ultime piantagioni dei
31.000 ettari di coca che nel 1997 c'erano nella regione del Chapare.
Sembrava così che il "Plan Dignidad" stesse ottenendo
i primi successi e già ci si preparava per estenderlo ad
altre zone del paese, con tanto di messaggi pubblicitari, congratulazioni
internazionali
fino a quando i contadini, ex-produttori
di coca, decisero di fermare la festa, facendo conoscere al mondo
il costo da loro pagato per la sostituzione delle coltivazioni
con uno sciopero di trenta giorni, manifestazioni per le strade
e discorsi dei loro leader ai tavoli di negoziazione: tutto questo
fu purtroppo seguito, sull'altro versante, dallo scoppio di una
violenza inedita nella regione, da parte dei narcotrafficanti
con sequestri, torture e uccisioni. Il Chapare è una zona
di circa tre milioni di ettari, 410.000 dei quali coltivabili,
nel Dipartimento di Cochabamba, alla frontiera con quelli di Beni
e Santa Cruz. Il paesaggio è tropicale, circonda le montagne,
a circa 300 metri dal livello del mare con un clima caldo ma non
soffocante, e un'umidità del 90%. Lo abitano 203.000 famiglie,
44.000 delle quali occupate nella coltivazione della coca, ma
fuori dei centri rurali la regione presenta grandi estensioni
disabitate e parchi nazionali. E' un territorio su cui convergono
molteplici interessi, e la coca non è l'unico motivo delle
pressioni internazionali. Al sorgere del narcotraffico, durante
il governo del generale Luis García Meza, arrivarono nella
regione molti stranieri, in prevalenza colombiani, e nel 1985
i villaggi erano pieni di trafficanti della "pasta base".
All'epoca, la lotta ai narcotrafficanti ebbe degli esiti significativi,
ma evidentemente non si trattava solo di bande criminali che agivano
in proprio e in questi anni hanno potuto contare su grandi protezioni
e sull'appoggio dei contadini che solo dalla coltivazione della
coca vedono garantita la loro sopravvivenza. La situazione è
tanto più paradossale se si tiene conto che nel Chapare
si possono coltivare frutti tropicali, cereali, vegetali, grano,
palme. Ultimamente si parla anche di introdurre del bestiame.
Ci sarebbe la possibilità di praticare la caccia e la pesca.
Ci sono foreste. Un vero e proprio paradiso terrestre con la possibilità
di un economia legale. Ma in America latina "legale"
fa sempre rima con "feudale", o come si dice oggi "latifondo",
cioè tutta la proprietà e i guadagni restano in
mano a pochi e per la gente
è la fame. Non dimentichiamo
che tutta l'America Latina, strozzata dal cosiddetto "Debito
Estero", è prigioniera dei dettami del Fondo Monetario
Internazionale, la privatizzazione impazza in tutto il continente
e proprio la Bolivia, nello scorso mese di giugno, ha privatizzato
l'acqua potabile, condannando gran parte della popolazione a bere
acque inquinate. Per questo i contadini sono obbligati a volgersi
al passato. Una trasformazione che non metta in conto la sostenibilità
sociale non è possibile e perciò non è credibile.
Esiste a tutt'oggi un mercato legale, calcolato per la domanda
dell'utilizzo tradizionale della coca che occupa dai 12 ai 14
mila ettari di terreno, ma il circuito coca-cocaina forniva, secondo
dati governativi, tra i 300 e i 500 milioni di dollari all'economia
locale. Quando questa somma ha cessato di circolare sono finiti
immediatamente gli investimenti nelle costruzioni, le vendite
nei centri commerciali, le domande di servizi e molte altre attività
economiche in tutto il Cochabamba, tanto città come dipartimento.
Il governo boliviano ha tentato di sostituire l'economia della
coca con vari esperimenti agricoli, quasi tutti consigliati dall'Ambasciata
degli Stati Uniti e dagli organismi internazionali: banana, ananas,
maracuyá, pepe, fiori. In dieci anni si sono piantati circa
100 prodotti e alcune volte fu annunciato trionfalmente che le
palme o il pepe nero erano la soluzione. Ad un certo punto si
offrirono 2.500 dollari di indennizzo perché i contadini
iniziassero un nuovo raccolto. In quindici anni gli ettari di
coltivazioni alternative sono cresciuti di tre volte; nel 1999
il commercio ha prodotto 89 milioni di dollari, il 26% più
che nel 1998, ma i risultati sono di gran lunga insufficienti.
Anche in America Latina, non si può chiedere a chi ha fame
di aspettare che "l'erba cresca", e i prodotti alternativi
entrano nel vortice del commercio internazionale a tutto vantaggio
delle multinazionali e delle transnazionali, come sa bene chi
si occupa di Commercio Equo e Solidale. Così questi sforzi
restano nell'ambito dei buoni propositi. Negli ultimi tre anni
il governo del generale Hugo Banzer ha tentato di accelerare la
riconversione, ma l'investimento di 150 milioni di dollari e di
altri 100 milioni come indennizzo ha rimpiazzato, secondo i dati
del Ministero dell'Agricoltura, solo la terza parte dei proventi
della coca. Nessuno di questi investimenti è stato però
accompagnato da politiche pubbliche dentro e fuori dal Chapare.
Questo, in una regione dove la pioggia rende impraticabili le
strade, significa paralisi del commercio e i prodotti giunti a
destinazione hanno avuto difficoltà ad ottenere il controllo
sanitario che esigono il Brasile e l'Argentina, impedendone la
vendita. Le condizioni di lavoro dei contadini e degli operai
nei nuovi centri di lavoro sono tutt'altro che garantite e sicure.
Diversi segnali denunciano oggi il fallimento di queste politiche.
Gli Stati Uniti riconoscono gli sforzi del governo boliviano,
ma ora limitano gli aiuti economici. Si congratulano per la politica
antidroga, ma criticano duramente la gestione pubblica che lascia
senza la sicurezza giuridica sperata gli investitori statunitensi.
D'altra parte la mancanza di un piano organico da parte del governo,
la cattiva amministrazione pubblica e le gravi denunce di corruzione
hanno aggravato la già precaria situazione che è
esplosa nelle giornate di aprile e settembre. Sembra che la ribellione
dei contadini sia stata preparata da mesi; settembre è
un mese caldo ma non di pioggia, non è tempo di raccolto
e bisogna aspettare la pioggia per la semina: insomma il periodo
giusto in cui i contadini possono dedicare del tempo alle loro
proteste. Gli agrari si organizzarono in turni per controllare
le strade. Le massaie, che sono quelle che più soffrono
la mancanza di cibo nella pentola familiare, si armarono di pale
e picconi. Chiesero terreno per riprendere la coltivazione della
coca ma non l'ottennero. Chiesero l'industrializzazione di altre
colture, e ricevettero tre nuove caserme in un territorio già
militarizzato. Cinque morti, tre scomparsi (militari) e novanta
feriti è il saldo della protesta nella regione. E il bilancio
del "Plan Dignidad" è proprio la mancanza di
Dignità per le condizioni di vita della popolazione. In
Colombia si prepara una campagna simile con il "Plan Colombia",
del quale esistono addirittura tre versioni: quella presentata
al Parlamento Colombiano, quella per il Pentagono di Washington
e quella per l'Unione Europea, naturalmente confezionate ad hoc
per i rispettivi destinatari. Non è necessario essere grandi
analisti per prevedere che gli esiti qui saranno ancora più
disastrosi, viste le peggiori condizioni sociali della Colombia
e le maggiori proporzioni del fenomeno. E allora su tutto questo
torna prepotente la questione morale: è lecito pretendere
l'estirpazione delle coltivazioni di coca, che ridurrebbe certo
il traffico e quindi la criminalità internazionale, nonché
salverebbe (forse!) l'esistenza di molti giovani europei e nordamericani,
a costo, ancora una volta della vita di miglia di contadini? Aspettiamo
a risponderci di si, perché se la domanda può sembrare
provocatoria, la sola cosa che vuole provocare è una morale
da primo mondo, nella quale rischiano di cadere non solo le chiese
istituzionali e il sistema, ma anche tanti che si credono alternativi,
ma non fino al punto di leggere la situazione a partire dall'altro,
dal povero, dal campesino latinoamericano, dimenticando che non
c'è pace senza pane. Certamente la strada c'è, ed
è quella, lunga e faticosa, che passa "almeno"
attraverso una revisione radicale dell'attuale sistema sociale,
diversamente nessuna questione morale è sostenibile: qualsiasi
iniziativa, anche la più nobile, pagata con la fame e il
sangue dei poveri, qualsiasi lotta al narcotraffico nel sud del
mondo continuerà ad essere solo una nuova, raffinata, forma
di colonialismo.
Alberto
Vitali
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