Chiapas e Salvador: estate 2001



Ho avuto la fortuna di partire per l'America Latina poche settimana dopo i fatti di Genova e questo mi ha permesso di ripensare con un po' di tranquillità e distacco emotivo a quanto era successo, di risparmiarmi il tormentone delle discussioni da talk-show che ne sono seguite, e soprattutto di vedere l'aspetto concreto della globalizzazione neoliberista sui volti di coloro che la pagano con la propria vita. Prima tappa: lo stato del Chiapas in Messico. Era la terza volta che vi mettevo piede, ma, se possibile, l'interesse era maggiore delle precedenti. Dopo settant'anni di regime "priista", che ha represso in tutti i modi le popolazioni indigene, e dopo sette dall'insurrezione zapatista, il Chiapas, come l'intero Messico, sta entrando in una nuova fase della sua storia. Le elezioni politiche del luglio 2000 sono state vinte, tanto a livello statale che federale, da una formazione della destra democratica, che ha strappato sorprendentemente il potere ad un partito-stato, il PRI, difficilmente collocabile nelle nostre categorie: di stampo esso pure liberista, ma così poco illuminato e strozzato da meschini interessi di parte da perdere definitivamente la fiducia dei suoi più interessati sostenitori: gli imprenditori del paese. Il nuovo presidente, Vicente Fox, ex manager della Coca Cola, uomo gradito agli USA, ma guardato con disponibilità anche dagli insorti - per la logica del "meno peggio" - aveva inaugurato il suo mandato con proclami piuttosto demagogici, ma tuttavia accompagnati da qualche segno concreto. Così persino il Subcomandante Marcos si era deciso ad uscire dalla Selva Lacandona - dopo 17 anni - per spingersi fino a Città del Messico ad incontrare il Congresso dell'Unione. In me erano ancora forti le sensazioni ed i ricordi dello scorso anno, quando con una delegazione di osservatori dei diritti umani ci eravamo spinti fino nei villaggi più interni, facendoci largo quasi a gomitate tra i soldati che ci fermavano ogni duecento metri. Un Chiapas smilitarizzato, non osavo crederlo, ma al tempo stesso il desiderio di vederlo finalmente libero mi illudeva sempre più. Ci siamo invece scontrati con una delle più grandi operazioni di "lifting" collettivo della storia. I militari hanno rimosso i posti di blocco, è vero, ma, se riesci ad essere più veloce di loro, li vedi nascondersi - e tentare goffamente di nascondere i loro elefantiaci mezzi - non appena sentono odore di straniero. L'ordine è chiaro: ai turisti, e soprattutto a quella razza particolare di rompiscatole che sono gli osservatori internazionali, il territorio deve apparire completamente sgombro. La realtà è che non è stato ritirato nemmeno uno dei 70.000 soldati che presidiavano la regione, anzi… a detta dei locali pare siano stati rinforzati i contingenti, perché "ne arrivano tutti i giorni, ma non si vedono quelli che partono". Gli indigeni poi sono molti esplicativi: "non si fanno vedere da voi, ma da noi sì. Vengono a spaventarci, per farci capire che da non dobbiamo farci illusioni. Se vi fermate fino a sera, avremo un giorno di pace. Almeno per i bambini…" Già i bambini! Belli come sempre, ma se li guardi con attenzione puoi notare il tremore innaturale dei loro arti ed il sobbalzo ad ogni rumore sospetto; anche a quelli che io non avverto. Così decidiamo di non limitarci ad incontrare le comunità, ma ad intervistare tutti i gruppi possibili della società organizzata: dai politici alle organizzazioni ecclesiali, dai sostenitori degli insorti zapatisti al nuovo vescovo di San Cristobal, Mons. Felipe Arizmendi, successore di Mons. Ruiz, che abbiamo incontrato nella sua nuova casa, da dove, sebbene a distanza, segue gli sviluppi della situazione e ci ha offerto alcuni suggerimenti. L'analisi politico-sociale ed economica che ne emerge, conferma ampiamente il racconto dei nativi: il nuovo corso della storia in Messico galoppa per sentieri che scendono da molto lontano, dal profondo nord. Il presidente Fox, non ha di certo ricevuto solo gli auguri dal suo amico "George", che si è precipitato ad incontrarlo non appena eletto presidente degli USA, ma anche il fascicolo con le istruzioni per l'uso. Così l'antico progetto del "Plan Puebla-Panamá", di reaganiana memoria, rispunta vent'anni dopo come fosse un'idea originale ed inedita del presidente messicano. In cosa consista è presto spiegato: un'area "industriale" estesa dal Messico a Panamá - cioè tutto il centroamerica, il giardino degli USA - pullulante di "maquillas", fabbriche di assemblaggio che vedremo già operanti nel Salvador, dove donne e ragazzi sfruttati per 10-12 ore al giorno, senza garanzie sindacali, montano pezzi "roboticamente" costruiti nella parte meridionale degli USA. Il tutto sotto il controllo dei rispettivi governi. Il piano ha persino dei risvolti culturali ed urbanistici: per esso infatti non servono, anzi potrebbero costituire un problema, persone culturalmente preparate. Così nel solo Chiapas lo scorso anno su 1400 richieste per la scuola secondaria ne sono state respinte 1200 ed i 200 ragazzi accolti sono stati dirottati su studi tecnici. Logico: per il Plan Puebla Panamá non servono laureati ma operai! Inoltre durante le manifestazioni dei 1200 esclusi, 16 giovani sono stati arrestati e tuttora restano in prigione. Anche la regione sta per essere ridisegnata in funzione delle nuove esigenze: trovandosi sull'asse naturale tra gli USA ed il centroamerica, stanno per essere costruite moderne autostrade che la attraverseranno da nord a sud per il passaggio delle merci. Ciò significa non solo un danno ambientale e l'esproprio forzato delle terre di proprietà millenaria degli indigeni, ma anche l'impossibilità di dare compimento agli Accordi di S. Andres, che il governo precedente aveva firmato con gli insorti zapatisti già nel 1996. Costoro reclamavano infatti il rispetto dei diritti riconosciuti agli indigeni proprio dalla Costituzione messicana: il diritto all'autonomia, vale a dire a vivere secondo i propri usi e costumi, all'uso delle risorse naturali presenti nel loro territorio, alla proprietà collettiva. Per questo si era costituita una commissione parlamentare, la Cocopa, incaricata di predisporre una legge che desse attuazione alle norme costituzionali, predisponendo una "Ley indigena" che dopo cinque anni e numerosi tagli e rifacimenti ha finalmente superato l'esame del Congresso ed il 15 agosto u.s. è stato promulgata dal presidente Fox. Ma quale fu la sorpresa, soprattutto per noi europei ostinati cultori di ideali democratici? La nuova legislazione risolve il problema dell'incompatibilità tra il Plan Puebla Panamá e gli Accordi di S. Andres, semplicemente e spudoratamente, abrogando "per legge" proprio quegli articoli della Costituzione a cui doveva dare compimento. La cosa sarebbe impensabile in un qualsiasi ordinamento costituzionale europeo, ma nulla è impossibile nel continente americano. Per giunta, in una delle diverse interviste radiofoniche che si sono occupate della vicenda, un funzionario governativo spiegava che questo provvedimento è stato preso per difendere la dignità della donna, giacché secondo lui "uso e costume degli indigeni è violentare le donne". Ci sembrò davvero di essere in un altro mondo, ma era solo un piccolo assaggio di quella mistificazione della realtà in funzione delle esigenze del sistema, che in queste ore stiamo sperimentando a livello planetario. Così gli indigeni non saranno più "garantiti" ma "integrati" nella società messicana, che fuor di metafora significa "fatti sparire". Anche tale progetto non è una novità. Tiene poco conto però dei sostanziali fallimenti passati e sembra pure sottovalutare le nuove dinamiche solidali internazionali. Davvero appare troppo ingenua e miope come prospettiva politica, ma alcuni amici ci spiegavano: "Fox è un imprenditore, come tale ha fatto bene i suoi affari, ma manca di una visione politica globale". Ed io, non so come, a migliaia di chilometri di distanza sentivo aria di casa! La sensazione la riprovai in Salvador, a proposito del presidente di quest'altro paese: Francisco Flores. Aveva stupito tutti lo scorso 21 luglio, quando invitato a Genova al vertice dei "grandi", dichiarò solennemente: "In Salvador abbiamo vinto la povertà!". Ora sono i salvadoregni ad indignarsi: "Ma davvero ha detto così? Qui la situazione della gente peggiora di giorno in giorno… Forse voleva dire che lui e la sua famiglia, in Salvador, hanno vinto la povertà". Hanno ragione, ma forse, a suo modo, non ha nemmeno tutti i torti il presidente: in Salvador la povertà va progressivamente scomparendo, trasformandosi in miseria. Nel nostro immaginario collettivo e occidentale siamo soliti associare l'America Latina alle dittature, alla violenza degli squadroni della morte, ai desaparecidos o alla resistenza delle diverse guerriglie popolari, mentre riserviamo l'esclusiva della fame, quella nera che uccide, all'Africa sub-sahariana. Così è un Salvador inedito quello che ci si presenta. Potremmo essere tentati di dare la colpa al Mitch, al terremoto o alla siccità che ora sta flagellando la regione, ma le malattie croniche dei bimbi, che a dieci anni ne dimostrano quattro, sono lì a ricordarci che il grande male è altro e viene prima. Così decidiamo di andare a fondo e alterniamo le visite nei diversi pueblos con interviste alle più disparate organizzazioni e categorie sociali. La prima scoperta, tanto sconcertante quanto prevedibile, è che il terremoto non è stato una calamità per tutti. Per la classe dominante infatti si è rivelato un'autentica benedizione. Diversi scandali stanno scoppiando in questi giorni per la distribuzione "poco trasparente" degli aiuti internazionali, da parte del governo; mentre passano in assoluta sordina gli abusi "legali". Ad una popolazione che chiedeva pochi colon per restaurare le proprie casette, il governo ha distribuito lamiere per costruire baracche (autentici microonde, da cui sto scrivendo), costate allo stato tre volte più del loro valore, giacché i fornitori sono gli stessi imprenditori che stanno al potere. E mentre i giornali - di esclusiva proprietà della destra - sbandierano la distribuzione gratuita delle sementi, per rimediare, almeno in parte, alla perdita di due raccolti, i campesinos piangono perché non hanno i soldi necessari per coprire i costi che segretamente il governo ha fissato. Anche la costruzione di nuove strade (rigorosamente in cemento perché non si sono trovati politici che vendano catrame, ma solo imprenditori edili) diventerà una maledizione per questa gente: aumenterà infatti il valore dei terreni e di conseguenza le tasse e il costo dell'energia elettrica. Cosa c'entri quest'ultima non chiedetemelo: non l'ho capito neanch'io! Ma come dice la gente: questo è il paese delle meraviglie! E qui viene il bello: poco prima di andare a Genova, i leader economico-liberisti di questo paese si sono rubati perfino il… concime! Un intero bastimento, mandato dal Giappone perché i contadini potessero tentare di sanare la terra spaccata dal terremoto e bruciata dalla siccità… se lo sono "pappato"! Giorno dopo giorno, storia dopo storia, volto dopo volto mi chiedo quale sia il progetto a cui possa corrispondere tutto ciò. Me lo spiegano i medici del sindacato Simetrisss e quelli dell'Associazione nazionale: rendere ancor più insostenibile la situazione delle classi già disagiate nel paese, per spingere sempre più gente all'estero, certi peraltro che gli emigrati mandano dollari in patria. Intanto tra maggio e giugno si è registrata una fortissima impennata della mortalità infantile, per diarrea e complicazioni respiratorie. Il governo ha però assicurato che è normale in quella stagione ed il dott. Zapata conclude sdegnato: "ne parlano come se fossero manghi di fine stagione!". Con grande lucidità Gerson Martinez, parlamentare ed ex comandante del Fmln ci spiega: "Questo paese da secoli è affetto da due oppressioni: quella militare e quella economica. La prima l'abbiamo risolta con la guerra, ma l'altra peggiora di giorno in giorno". Queste sono le "democrazie" tanto appoggiate dai nostri "democratici" governi; elogiate perché in questo modo pongono in atto i dettami del Fondo monetario Internazionale e della Banca Mondiale; incoraggiate a continuare con sempre maggiore convinzione su questa strada. Per questo i poveri guardano con timore allo spettro degli accordi - o meglio delle promesse segrete - di Genova. Per questo anch'io tornato in Italia mi sento lo stesso eppure diverso. Diverso perché ora riesco a mantenere un certo distacco emotivo dalle parole calunniose del presidente del Consiglio che, dimostrando poca sensibilità umana e scarso rigore politico, paragona noi "no-global" (come si ostinano a chiamarci) ai terroristi che hanno compiuto il massacro di New York e Washington, strumentalizzando così una grossa tragedia a fini meschini di parte; diverso perché mi sforzo molto di più di andare al nocciolo delle questioni, guardandole con gli occhi di coloro che molte volte ho incontrato in questo mese. Forse riesco anche a gestire meglio i miei sentimenti: per piangere sinceramente con il popolo statunitense i suoi morti e puntare il dito, allo stesso tempo, sulle cause ultime dell'ingiustizia strutturale da cui nasce tanto odio. Davvero penso e grido che non basterà uccidere tutti i terroristi del mondo: fino a quando ci sarà qualcuno che avrà fame di pane o dignità non saremo sicuri e non avremo il diritto di esserlo. Ma proprio per questo sono ancora più antiliberista di prima: non per scelta ideologica, ma perché, dopo aver incrociato il volto di un povero, Dio puoi solo guardarlo con i suoi occhi. Il papa ce lo sta ripetendo in tutti i modi in queste ore: forse resterà voce inascoltata, perfino dentro la Chiesa... Ma ora mi appare più chiaro e ineludibile il monito di Gesù: "Non potete servire a Dio e a mammona". Non è solo una scelta morale: per me è ormai una questione di fede.

Alberto Vitali



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