Ho
avuto la fortuna di partire per l'America Latina poche settimana
dopo i fatti di Genova e questo mi ha permesso di ripensare con
un po' di tranquillità e distacco emotivo a quanto era
successo, di risparmiarmi il tormentone delle discussioni da talk-show
che ne sono seguite, e soprattutto di vedere l'aspetto concreto
della globalizzazione neoliberista sui volti di coloro che la
pagano con la propria vita. Prima tappa: lo stato del Chiapas
in Messico. Era la terza volta che vi mettevo piede, ma, se possibile,
l'interesse era maggiore delle precedenti. Dopo settant'anni di
regime "priista", che ha represso in tutti i modi le
popolazioni indigene, e dopo sette dall'insurrezione zapatista,
il Chiapas, come l'intero Messico, sta entrando in una nuova fase
della sua storia. Le elezioni politiche del luglio 2000 sono state
vinte, tanto a livello statale che federale, da una formazione
della destra democratica, che ha strappato sorprendentemente il
potere ad un partito-stato, il PRI, difficilmente collocabile
nelle nostre categorie: di stampo esso pure liberista, ma così
poco illuminato e strozzato da meschini interessi di parte da
perdere definitivamente la fiducia dei suoi più interessati
sostenitori: gli imprenditori del paese. Il nuovo presidente,
Vicente Fox, ex manager della Coca Cola, uomo gradito agli USA,
ma guardato con disponibilità anche dagli insorti - per
la logica del "meno peggio" - aveva inaugurato il suo
mandato con proclami piuttosto demagogici, ma tuttavia accompagnati
da qualche segno concreto. Così persino il Subcomandante
Marcos si era deciso ad uscire dalla Selva Lacandona - dopo 17
anni - per spingersi fino a Città del Messico ad incontrare
il Congresso dell'Unione. In me erano ancora forti le sensazioni
ed i ricordi dello scorso anno, quando con una delegazione di
osservatori dei diritti umani ci eravamo spinti fino nei villaggi
più interni, facendoci largo quasi a gomitate tra i soldati
che ci fermavano ogni duecento metri. Un Chiapas smilitarizzato,
non osavo crederlo, ma al tempo stesso il desiderio di vederlo
finalmente libero mi illudeva sempre più. Ci siamo invece
scontrati con una delle più grandi operazioni di "lifting"
collettivo della storia. I militari hanno rimosso i posti di blocco,
è vero, ma, se riesci ad essere più veloce di loro,
li vedi nascondersi - e tentare goffamente di nascondere i loro
elefantiaci mezzi - non appena sentono odore di straniero. L'ordine
è chiaro: ai turisti, e soprattutto a quella razza particolare
di rompiscatole che sono gli osservatori internazionali, il territorio
deve apparire completamente sgombro. La realtà è
che non è stato ritirato nemmeno uno dei 70.000 soldati
che presidiavano la regione, anzi
a detta dei locali pare
siano stati rinforzati i contingenti, perché "ne arrivano
tutti i giorni, ma non si vedono quelli che partono". Gli
indigeni poi sono molti esplicativi: "non si fanno vedere
da voi, ma da noi sì. Vengono a spaventarci, per farci
capire che da non dobbiamo farci illusioni. Se vi fermate fino
a sera, avremo un giorno di pace. Almeno per i bambini
"
Già i bambini! Belli come sempre, ma se li guardi con attenzione
puoi notare il tremore innaturale dei loro arti ed il sobbalzo
ad ogni rumore sospetto; anche a quelli che io non avverto. Così
decidiamo di non limitarci ad incontrare le comunità, ma
ad intervistare tutti i gruppi possibili della società
organizzata: dai politici alle organizzazioni ecclesiali, dai
sostenitori degli insorti zapatisti al nuovo vescovo di San Cristobal,
Mons. Felipe Arizmendi, successore di Mons. Ruiz, che abbiamo
incontrato nella sua nuova casa, da dove, sebbene a distanza,
segue gli sviluppi della situazione e ci ha offerto alcuni suggerimenti.
L'analisi politico-sociale ed economica che ne emerge, conferma
ampiamente il racconto dei nativi: il nuovo corso della storia
in Messico galoppa per sentieri che scendono da molto lontano,
dal profondo nord. Il presidente Fox, non ha di certo ricevuto
solo gli auguri dal suo amico "George", che si è
precipitato ad incontrarlo non appena eletto presidente degli
USA, ma anche il fascicolo con le istruzioni per l'uso. Così
l'antico progetto del "Plan Puebla-Panamá", di
reaganiana memoria, rispunta vent'anni dopo come fosse un'idea
originale ed inedita del presidente messicano. In cosa consista
è presto spiegato: un'area "industriale" estesa
dal Messico a Panamá - cioè tutto il centroamerica,
il giardino degli USA - pullulante di "maquillas", fabbriche
di assemblaggio che vedremo già operanti nel Salvador,
dove donne e ragazzi sfruttati per 10-12 ore al giorno, senza
garanzie sindacali, montano pezzi "roboticamente" costruiti
nella parte meridionale degli USA. Il tutto sotto il controllo
dei rispettivi governi. Il piano ha persino dei risvolti culturali
ed urbanistici: per esso infatti non servono, anzi potrebbero
costituire un problema, persone culturalmente preparate. Così
nel solo Chiapas lo scorso anno su 1400 richieste per la scuola
secondaria ne sono state respinte 1200 ed i 200 ragazzi accolti
sono stati dirottati su studi tecnici. Logico: per il Plan Puebla
Panamá non servono laureati ma operai! Inoltre durante
le manifestazioni dei 1200 esclusi, 16 giovani sono stati arrestati
e tuttora restano in prigione. Anche la regione sta per essere
ridisegnata in funzione delle nuove esigenze: trovandosi sull'asse
naturale tra gli USA ed il centroamerica, stanno per essere costruite
moderne autostrade che la attraverseranno da nord a sud per il
passaggio delle merci. Ciò significa non solo un danno
ambientale e l'esproprio forzato delle terre di proprietà
millenaria degli indigeni, ma anche l'impossibilità di
dare compimento agli Accordi di S. Andres, che il governo precedente
aveva firmato con gli insorti zapatisti già nel 1996. Costoro
reclamavano infatti il rispetto dei diritti riconosciuti agli
indigeni proprio dalla Costituzione messicana: il diritto all'autonomia,
vale a dire a vivere secondo i propri usi e costumi, all'uso delle
risorse naturali presenti nel loro territorio, alla proprietà
collettiva. Per questo si era costituita una commissione parlamentare,
la Cocopa, incaricata di predisporre una legge che desse attuazione
alle norme costituzionali, predisponendo una "Ley indigena"
che dopo cinque anni e numerosi tagli e rifacimenti ha finalmente
superato l'esame del Congresso ed il 15 agosto u.s. è stato
promulgata dal presidente Fox. Ma quale fu la sorpresa, soprattutto
per noi europei ostinati cultori di ideali democratici? La nuova
legislazione risolve il problema dell'incompatibilità tra
il Plan Puebla Panamá e gli Accordi di S. Andres, semplicemente
e spudoratamente, abrogando "per legge" proprio quegli
articoli della Costituzione a cui doveva dare compimento. La cosa
sarebbe impensabile in un qualsiasi ordinamento costituzionale
europeo, ma nulla è impossibile nel continente americano.
Per giunta, in una delle diverse interviste radiofoniche che si
sono occupate della vicenda, un funzionario governativo spiegava
che questo provvedimento è stato preso per difendere la
dignità della donna, giacché secondo lui "uso
e costume degli indigeni è violentare le donne". Ci
sembrò davvero di essere in un altro mondo, ma era solo
un piccolo assaggio di quella mistificazione della realtà
in funzione delle esigenze del sistema, che in queste ore stiamo
sperimentando a livello planetario. Così gli indigeni non
saranno più "garantiti" ma "integrati"
nella società messicana, che fuor di metafora significa
"fatti sparire". Anche tale progetto non è una
novità. Tiene poco conto però dei sostanziali fallimenti
passati e sembra pure sottovalutare le nuove dinamiche solidali
internazionali. Davvero appare troppo ingenua e miope come prospettiva
politica, ma alcuni amici ci spiegavano: "Fox è un
imprenditore, come tale ha fatto bene i suoi affari, ma manca
di una visione politica globale". Ed io, non so come, a migliaia
di chilometri di distanza sentivo aria di casa! La sensazione
la riprovai in Salvador, a proposito del presidente di quest'altro
paese: Francisco Flores. Aveva stupito tutti lo scorso 21 luglio,
quando invitato a Genova al vertice dei "grandi", dichiarò
solennemente: "In Salvador abbiamo vinto la povertà!".
Ora sono i salvadoregni ad indignarsi: "Ma davvero ha detto
così? Qui la situazione della gente peggiora di giorno
in giorno
Forse voleva dire che lui e la sua famiglia, in
Salvador, hanno vinto la povertà". Hanno ragione,
ma forse, a suo modo, non ha nemmeno tutti i torti il presidente:
in Salvador la povertà va progressivamente scomparendo,
trasformandosi in miseria. Nel nostro immaginario collettivo e
occidentale siamo soliti associare l'America Latina alle dittature,
alla violenza degli squadroni della morte, ai desaparecidos o
alla resistenza delle diverse guerriglie popolari, mentre riserviamo
l'esclusiva della fame, quella nera che uccide, all'Africa sub-sahariana.
Così è un Salvador inedito quello che ci si presenta.
Potremmo essere tentati di dare la colpa al Mitch, al terremoto
o alla siccità che ora sta flagellando la regione, ma le
malattie croniche dei bimbi, che a dieci anni ne dimostrano quattro,
sono lì a ricordarci che il grande male è altro
e viene prima. Così decidiamo di andare a fondo e alterniamo
le visite nei diversi pueblos con interviste alle più disparate
organizzazioni e categorie sociali. La prima scoperta, tanto sconcertante
quanto prevedibile, è che il terremoto non è stato
una calamità per tutti. Per la classe dominante infatti
si è rivelato un'autentica benedizione. Diversi scandali
stanno scoppiando in questi giorni per la distribuzione "poco
trasparente" degli aiuti internazionali, da parte del governo;
mentre passano in assoluta sordina gli abusi "legali".
Ad una popolazione che chiedeva pochi colon per restaurare le
proprie casette, il governo ha distribuito lamiere per costruire
baracche (autentici microonde, da cui sto scrivendo), costate
allo stato tre volte più del loro valore, giacché
i fornitori sono gli stessi imprenditori che stanno al potere.
E mentre i giornali - di esclusiva proprietà della destra
- sbandierano la distribuzione gratuita delle sementi, per rimediare,
almeno in parte, alla perdita di due raccolti, i campesinos piangono
perché non hanno i soldi necessari per coprire i costi
che segretamente il governo ha fissato. Anche la costruzione di
nuove strade (rigorosamente in cemento perché non si sono
trovati politici che vendano catrame, ma solo imprenditori edili)
diventerà una maledizione per questa gente: aumenterà
infatti il valore dei terreni e di conseguenza le tasse e il costo
dell'energia elettrica. Cosa c'entri quest'ultima non chiedetemelo:
non l'ho capito neanch'io! Ma come dice la gente: questo è
il paese delle meraviglie! E qui viene il bello: poco prima di
andare a Genova, i leader economico-liberisti di questo paese
si sono rubati perfino il
concime! Un intero bastimento,
mandato dal Giappone perché i contadini potessero tentare
di sanare la terra spaccata dal terremoto e bruciata dalla siccità
se lo sono "pappato"! Giorno dopo giorno, storia dopo
storia, volto dopo volto mi chiedo quale sia il progetto a cui
possa corrispondere tutto ciò. Me lo spiegano i medici
del sindacato Simetrisss e quelli dell'Associazione nazionale:
rendere ancor più insostenibile la situazione delle classi
già disagiate nel paese, per spingere sempre più
gente all'estero, certi peraltro che gli emigrati mandano dollari
in patria. Intanto tra maggio e giugno si è registrata
una fortissima impennata della mortalità infantile, per
diarrea e complicazioni respiratorie. Il governo ha però
assicurato che è normale in quella stagione ed il dott.
Zapata conclude sdegnato: "ne parlano come se fossero manghi
di fine stagione!". Con grande lucidità Gerson Martinez,
parlamentare ed ex comandante del Fmln ci spiega: "Questo
paese da secoli è affetto da due oppressioni: quella militare
e quella economica. La prima l'abbiamo risolta con la guerra,
ma l'altra peggiora di giorno in giorno". Queste sono le
"democrazie" tanto appoggiate dai nostri "democratici"
governi; elogiate perché in questo modo pongono in atto
i dettami del Fondo monetario Internazionale e della Banca Mondiale;
incoraggiate a continuare con sempre maggiore convinzione su questa
strada. Per questo i poveri guardano con timore allo spettro degli
accordi - o meglio delle promesse segrete - di Genova. Per questo
anch'io tornato in Italia mi sento lo stesso eppure diverso. Diverso
perché ora riesco a mantenere un certo distacco emotivo
dalle parole calunniose del presidente del Consiglio che, dimostrando
poca sensibilità umana e scarso rigore politico, paragona
noi "no-global" (come si ostinano a chiamarci) ai terroristi
che hanno compiuto il massacro di New York e Washington, strumentalizzando
così una grossa tragedia a fini meschini di parte; diverso
perché mi sforzo molto di più di andare al nocciolo
delle questioni, guardandole con gli occhi di coloro che molte
volte ho incontrato in questo mese. Forse riesco anche a gestire
meglio i miei sentimenti: per piangere sinceramente con il popolo
statunitense i suoi morti e puntare il dito, allo stesso tempo,
sulle cause ultime dell'ingiustizia strutturale da cui nasce tanto
odio. Davvero penso e grido che non basterà uccidere tutti
i terroristi del mondo: fino a quando ci sarà qualcuno
che avrà fame di pane o dignità non saremo sicuri
e non avremo il diritto di esserlo. Ma proprio per questo sono
ancora più antiliberista di prima: non per scelta ideologica,
ma perché, dopo aver incrociato il volto di un povero,
Dio puoi solo guardarlo con i suoi occhi. Il papa ce lo sta ripetendo
in tutti i modi in queste ore: forse resterà voce inascoltata,
perfino dentro la Chiesa... Ma ora mi appare più chiaro
e ineludibile il monito di Gesù: "Non potete servire
a Dio e a mammona". Non è solo una scelta morale:
per me è ormai una questione di fede.
Alberto
Vitali
|