Mons. Pedro Casaldáliga

 


Parole dal Sud - gennaio

di Pedro Casaldaliga

Ho l'impressione che il nostro tempo sia particolarmente favorevole al genere apocalittico. Non mi riferisco a chi è in attesa della fine del mondo al volgere del millennio. Mi riferisco piuttosto a una percezione apocalittica della quotidianità, comune a tutti: una sorta di "condimento" che dà sapore ai nostri cibi, alle nostre conversazioni, alle nostre insonnie, alle nostre preghiere, a tutta la nostra vita. Si tratta di un clima, di un inquinamento ambientale. Basta accendere la televisione, sentire la radio, aprire un giornale. Il mondo ti si presenta come in preda a un continuo cataclisma: tempeste, maremoti, alluvioni, siccità, massacri, guerre, fame, violenza, insicurezza, paura ... Può persino sembrare che il mondo, un tempo, non fosse così. "Si stava meglio quando si stava peggio", dicono i nostalgici del passato. Certo dobbiamo costatare che oggi c'è più tecnica e più morte; più progresso e più miseria. Questa povera umanità è proprio condannata alla sofferenza e all'assurdo. Se qualche tempo fa abbiamo proclamato "la morte di Dio" (che certamente sta ritornando), niente di strano se oggi si proclama "la morte dell'uomo (e della donna)". Oggi conosciamo, vediamo, sentiamo questa convulsione apocalittica in ogni angolo della terra nel momento stesso in cui avviene. Non c'è più la mediazione della distanza o del silenzio. Non possiamo fuggire. Siamo apocalitticamente bloccati. Sto scrivendo tutto ciò con un sentimento che è un misto di rabbia e di ironia. Ci stiamo abituando a ridurre le tragedie a semplici congiunture. La siccità del Nordeste del Brasile sarebbe un capriccio climatico, l'Africa sarebbe un continente senza futuro, il Centroamerica sarebbe per natura un istmo di convulsioni periodiche, la fame di un terzo dell'umanità o la paralisi di un miliardo di braccia senza lavoro sarebbero il prezzo "giusto" della modernità tecnica ed economica. Siccome la terra ha i suoi limiti, c'è posto solo per qualcuno, c'è ricchezza solo per qualcuno. Ma siccome siamo dei sentimentali, facciamo campagne di solidarietà, possiamo arrivare anche a togliere una parte del debito estero dei paesi impoveriti. Tuttavia, pur olimpicamente generosi, continuiamo ad essere due mondi: il primo e il terzo, lo spreco e la miseria, le armi e la malattia, il profitto e la morte. Tutto bene, tutto male. È chiaro che il mondo ha i suoi limiti, essendo una creatura. La tecnica farà miracoli, ma il mondo non diventerà il paradiso. Comunque molti dei cataclismi, o per lo meno le loro conseguenze, si potrebbero evitare se ci fosse volontà politica, giustizia sociale, distribuzione dei redditi e delle opportunità, previsione scientifica, riforma agraria e urbana, ecologia, solidarietà interna e internazionale, rispetto dei diritti umani e dei popoli. Un mondo che fosse la grande famiglia umana di Dio. La liturgia dell'Avvento ci invitava all'attesa, all'accoglienza, a star svegli "come di giorno" per celebrare la nascita del Nuovo definitivo nel mistero del Natale. Abbiamo appena iniziato l'anno che precede il giubileo che dovrebbe essere di riconciliazione con Dio, con le persone, con la natura. Per fede e per spirito umanitario, dobbiamo evitare il fatalismo apocalittico. Il più importante testo apocalittico della tradizione cristiana, l'Apocalisse di s. Giovanni, non è un libro di terrore ma della grande speranza, della promessa della vittoria dell'Agnello sulla Bestia; è il libro delle palme e della veste bianca del trionfo di quanti passano - in maniera fedele e fraterna - attraverso la "grande tribolazione". Il mondo non è fatto male, è usato male. "Dio vide che tutto era buono". Nel mondo, come anche in noi che siamo creature limitate e fragili, c'è il segno di Dio Vivo e il suo Spirito continua a permeare la creazione con infinita tenerezza.



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