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500 anni: de-colonizzare e de-evangelizzare
(Intervista
a Pedro Casaldaliga)
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Nel momento in cui dai alla luce questo libro, escono varie
altre pubblicazioni. Ci avviciniamo all'anniversario dei 500
anni e abbiamo appena celebrato i vent'anni di Medellin. Si
sono appena compiuti anche i vent'anni dal tuo arrivo in Brasile,
vent'anni di cammino della tua Chiesa di Sao Felix do Araguaia,
e i tuoi sessant'anni. .. Come vedi la congiuntura globale in
cui appare questa tua nuova pubblicazione?
Mi sembra una congiuntura estremamente provocatoria, e allo
stesso tempo salutare. In termini cristiani, tutto ciò che é
salutare rappresenta anche una provocazione. Indubbiamente Medellin
è stato il punto più alto della storia ecclesiale dell'America
Latina. In un certo senso il gran concilio latinoamericano di
Medellin, il nostro concilio più grande, ha rappresentato una
rottura e un gran balzo verso il futuro. Allo stesso tempo,
i "cinquecento anni", ai quali ci stiamo avvicinando, e che
Spagna, Stati Uniti, governi e istituzioni dell'America Latina
e dell'Europa si dispongono a celebrare in modo molto "festivo",
molto acritico, spinti certamente anche da molti interessi -
il grande turismo dei 500 anni, la grande baldoria etnocentrica
dei 500 anni... - tutto questo ci obbliga, come cristiani e
come latinoamericani, a rivedere, a riesaminare, a rifare il
cammino a ritroso, a tornare indietro verso le fonti dell'identità
latinoamericana e anche verso le fonti dell'identità cristiana,
cioè a "de-colonizzare" e a "de-evangelizzare"…
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La celebrazione dei 500 anni dovrà essere festiva o penitenziale?
Può essere le due cose insieme. Io celebro la morte di Cristo
penitenzialmente e festosamente. Deve essere una celebrazione
pasquale. In primo luogo, dobbiamo chiaramente riconoscere tutto
ciò che in questi anni c'è stato e c'è ancora di morte, di negazione,
di proibizione, di schiavitù, di colonialismo, di etnocentrismo,
di riduzionismo.. In secondo luogo, dobbiamo celebrare anche
tutto ciò che in questi 500 anni c'è stato di eroismo, di rischio,
di martirio. .. Chiaramente non parlo solo dei martiri che forse
gli indigeni ci hanno procurato, ma soprattutto dei molti più
martiri che noi abbiamo procurato agli indigeni. Intendo parlare
di tutti "i martiri del Regno" che ci sono stati in questo continente
per difendere la propria cultura, per difendere la libertà,
per difendere la giustizia. E forse per annunciare il vangelo
di Gesù.
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La scoperta dell'America è stata una "scoperta"?
No. Si è trattato in gran parte di un incontro casuale. E' stato
anche uno scontro di culture e di popoli. E' stata un'avidità.
E' stata un'invasione. E stata una conquista. Dobbiamo far sì
che diventi sempre di più un incontro di continenti, un incontro
di popoli. Quando i membri del CIMI (Consiglio Indigenista Missionario-Brasile)
e tutti gli antropologi onesti contestano le politiche dei governi
del continente verso gli indigeni, ciò che si contesta è l'"
integrazione" di queste culture, di questi popoli in una presunta
nazione più grande, in una cultura ipoteticamente più vasta
o migliore. Tuttavia, diciamo anche che potremmo accettare molto
bene una " inter-integrazione", cioè che un continente si incontri
con un altro continente, che determinati popoli si integrino
con altri popoli e si "inter-integrino". L'America Latina può
e deve dare all'Europa molta ecologia, molta natura, molta gratuità,
molta gioia, molto colore, molta ospitalità, molta solidarietà,
molta utopia, molta speranza…
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L'evangelizzazione dell'America è stata una "evangelizzazione"?
E' stata un'evangelizzazione forzata, molto culturalista, molto
impositiva. E stata un'evangelizzazione molto poco evangelica.
E questo perché, servendo il Signore, serviva il Re; portando
il Vangelo portava anche cultura europea, ispanica; credendo
di annunciare il regno di Dio imponeva l'impero. Insomma era
poco lucida teologicamente. Forse le circostanze non hanno permesso
che si facesse di più, ma noi siamo obbligati a criticare la
storia passata alla luce di ciò che la storia presente ci consente,
in modo da correggere il futuro. Si è trattato di un'evangelizzazione
violenta, che ha provocato quegli eclettismi che in seguito
con tanta frequenza e molta facilità abbiamo condannato. Il
mondo indigeno continua ad esistere. Anche il mondo nero continua
ad esistere. Fortunatamente non sono stati completamente distrutti
ed hanno ancora sufficiente vitalità per continuare ad essere
se stessi, anche essendo cristiani, anche essendo - forse "nuovamente"-
evangelizzati.. . L'evangelizzazione dell'America Latina è stata
ambigua. La sua memoria dovrebbe provocare una celebrazione
penitenziale, per arrivare a quell'evangelizzazione coraggiosa
e "nuova" che lo stesso Giovanni Paolo Il chiedeva con riferimento
ai 500 anni.
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Hai detto che tutto questo ci obbliga a "de-colonizzare" e a
"de-evangehzzare". Che cosa significa "decolonizzare"?
"Decolonizzare"
potrebbe significare: tornare alle fonti dell'identità latinoamericana,
lasciare che l'America Latina sia ciò che originariamente è,
permettere che si realizzi come un continente di tutti, fraterno,
con una unità radicale, indigena, nera, creola. .. "Decolonizzare"
potrebbe voler dire lasciare che si realizzi e si liberi questo
continente finora proibito, dipendente, sottomesso ad un debito
estero ingiusto, iniquo, un debito che il popolo latinoamericano
non deve pagare, perché non è stato lui a contrarlo; un debito
che il popolo latinoamericano non può pagare, perché l'ha già
pagato, con le materie prime, con a mano d'opera a basso costo,
attraverso la consegna dei propri beni, del suolo, del sottosuolo...;
un debito estero che è peccato pagare, che è peccato riscuotere...
"Decolonizzare", tornare all'identità latinoamericana, significa
permettere che la grande identità latinoamericana - che è indubbiamente
la somma di molte culture, inizialmente di molti popoli indigeni,
del popolo negro, schiavo, portato in America Latina, e poi
del popolo creolo - possa esprimersi in tutti gli aspetti della
vita culturale, nelle sue produzioni letterarie, artistiche,
nell'educazione, nell'organizzazione politica, amministrativa,
e anche nell'agricoltura... "Decolonizzare" significa permettere
al popolo latinoamericano di esprimersi nel concerto delle nazioni
del mondo come altro, come diverso, a mio modo di vedere con
una identità che in un certo senso unifica tutti questi popoli
e che consente di poter parlare legittimamente di "Grande Patria
": l'intera America Latina e i Caraibi.
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Che cosa significa "de-evangelizzare"?
"De-evangelizzare"
potrebbe significare decolonizzare l'evangelizzazione. Il vangelo
è arrivato in America Latina avvolto, portato, espresso da una
cultura al servizio di un impero, all'inizio quello spagnolo.
Più che un messaggio evangelico limpido, sovraculturale, liberatore...
è giunto un messaggio di importazione culturale che in 500 anni
ha fatto sì che in America Latina non si potesse realizzare
veramente una Chiesa autoctona. Puebla, nel famoso documento
verde, che provvidenzialmente fu respinto in quanto a mio parere
incompleto e deformante, parlava dell "evangelizzazione delle
culture". Questa espressione viene ora ripresa nuovamente in
America Latina, nel Celam, in Vaticano. L'espressione potrebbe
anche essere valida, sempre che non la si riduca a quella forma
di culturalismo che nega il processo storico totale, che non
è solo culturale ma anche politico. Dev'essere un'inculturazione
che entri in pieno nelle culture dei popoli, nella storia di
questi popoli, e nei nuovi processi storici che questi popoli
stanno vivendo: processi culturali, sociali, economici, politici..
. De-evangelizzare ciò che è stato mal evangelizzato, per noi,
in America Latina, può significare solo un punto di partenza
per una piena liberazione socio-politico-economica, culturale,
integrale; può significare solo evangelizzare in modo liberante
i processi storici dei nostri popoli. I processi di liberazione
dei nostri popoli, alla luce della fede, si integrano, fanno
parte, in un certo senso costruiscono, annunciano, preparano,
ricevono, attendono... il grande Processo del Regno. Puebla
parlava legittimamente anche della "civiltà dell'amore", espressione
molto bella, molto stimolante e cristiana, se pienamente intesa.
Tuttavia sia in America Latina che in Europa, questa espressione
è già stata diluita in una specie di irenismo che nega la drammaticità
dei processi storici che noi, qui in America Latina e in tutto
il Terzo Mondo, stiamo vivendo. Alla "civiltà dell'amore" occorrerebbe
aggiungere ciò che con espressione felice il teologo gesuita
spagnolo, basco, salvadoregno Ellacuria, chiamava la "civiltà
della povertà".
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"De-colonizzare" e "de-evangelizzare", allo stesso tempo...
Vorrei esprimerti già da ora un dubbio che avrà già assalito
più di un lettore, dopo quanto hai detto, e che molti altri
esperimenteranno inevitabilmente alla fine di questo libro:
non stai per caso mescolando il religioso al politico? In quanto
hai detto non c'è forse molta politica?
Vorrei rispondere a questa possibile accusa o stranezza, risalendo
al fondamento ultimo, a Dio stesso. (Senza dubbio, in questo
contesto di "de-evangelizzazione" e di ritorno alle fonti della
nostra identità cristiana, possiamo inserire anche la necessità
di rivedere lo stesso Dio, di riesaminare la nostra immagine
di Dio). Il nostro Dio, se non vogliamo ridurlo ad un idolo,
può essere solo Dio e Padre di nostro Signore Gesù Cristo. Paolo
parla dell'umanità, della condizione umana del Dio che è venuto
tra di noi. Io vorrei interpretarlo così. Il nostro Dio è un
Dio che si è fatto uomo, che si è incarnato. Suo Figlio è il
Verbo, Gesù Cristo, Gesù di Nazareth, nato da donna, figlio
di Maria, uomo storico sottoposto ad una cultura, in un tempo
determinato, sotto un impero. . . Il mistero dell'incarnazione,
per noi cristiani, è l'espressione massima della solidarietà
umana di Dio. Gesù Cristo è la solidarietà storica di Dio verso
gli uomini, con ogni persona, con ogni popolo, e con i loro
processi storici. Il nostro è un Dio che si è fatto uomo, umanissimo,
storicamente umanissimo. Per la nostra fede, i diritti umani
sono interessi storici di Dio…Per noi non esistono due storie
umane: una storia profana, laterale rispetto a Dio, e un'altra
storia umana, soprannaturale, di cui Dio avrebbe cura, che Dio
farebbe sua. Senza negare ciò che tradizionalmente i teologi
hanno chiamato "ordine naturale" e "ordine soprannaturale",
"natura" e "grazia", noi confessiamo un'unica storia umana,
perché il Dio salvatore é lo stesso Dio creatore... Questa umanità
di Dio, di Gesù Cristo, che è il Dio fatto uomo, passa per un
processo storico concreto, determinato, fatto di tensioni, di
tentazioni, di conflitti con gli interessi dei grandi del suo
tempo: dell'impero romano, del tempio, di Gerusalemme, dei latifondisti
ebrei, del legalismo che sottometteva il popolo ad una vera
e propria schiavitù spirituale. .Se riesaminiamo la nostra immagine
di Dio, dovremo rivedere anche l'idea di una religione separata
dalla storia (dall'unica storia), separata dagli uomini, dai
popoli, dai loro processi storici, dalla politica. . . Se crediamo
veramente nel Dio di Gesù (non dico in qualche altro Dio) non
è possibile non entrare in politica. E se crediamo in questo
Dio, se accettiamo questo Gesù Cristo, Dio incarnato, uomo conflittuale,
accusato, condannato a morte, appeso ad una croce, interdetto
dai poteri imperiali, religiosi ed economici del suo tempo...,
necessariamente, come Chiesa, come comunità di seguaci di Gesù
Cristo, dovremo anche rivedere, riesaminare, trasformare la
nostra stessa teologia, cioè la sistematizzazione della nostra
fede cristiana, la celebrazione di questa stessa fede che è
la liturgia, l'amministrazione di questa fede cristiana, dell'esperienza
di questa fede, che è la pastorale, e l'esperienza personale,
da parte di ogni cristiano, di questa stessa fede, che è la
spiritualità… In America Latina, in questa congiuntura concreta
che parte da Medellin ed è già sotto il segno di questi 500
anni, si sta vivendo (tra molti conflitti, certamente, la qualcosa
è pur sempre un segno "cristiano") una nuova liturgia, una nuova
teologia, una nuova pastorale, una nuova spiritualità, una santità
in qualche modo nuova, tipica mente latinoamericana.
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Andiamo per punti. Rivedere, riesaminare in primo luogo. La
teologia...
La teologia della liberazione è questo: una nuova sistematizzazione
della fede cristiana, proveniente dall'America Latina, che cerca
di rivedere la teologia cristiana tornando alle fonti della
nostra identità cristiana. Rivedere il Dio nel quale crediamo
significherà prima di tutto e soprattutto superare ogni dicotomia.
Il Dio della Bibbia, in tutte le sue pagine, è un Dio antropomorfico,
è un Dio mescolato alla terra, è un Dio profondamente coinvolto
nella storia. E' anche un Dio che descrive se stesso lungo la
storia di un popolo. Gli ebrei credenti potevano dire a ragione,
entusiasti e grati: non c'è nessun altro Dio più prossimo del
nostro Dio... Anche noi cristiani proclamiamo il nostro Dio
come l'Emmanuele, il Dio con noi; ancora di più, Dio come noi;
ancora di più, Dio come il più povero di noi. Dio fatto uomo,
Dio fatto povero, Dio fatto emarginato, Dio fatto perseguitato,
Dio fattosi scomunicato, Dio fattosi condannato, giustiziato,
morto... A partire da questo, la teologia dovrà riesaminarsi…
E questa intenzione si realizza qui da noi nella teologia della
liberazione. Ho ripetuto molte volte che questa teologia riceve
molto di più dal cammino di tutto il popolo latinoamericano,
credente e oppresso e in via di liberazione, che dalla testa
pensante dei nostri teologi, che potremmo immaginare chiusi
nelle loro stanze con davanti solo i testi biblici e quelli
del magistero. .. Se si prende la parola con un certo humor,
che però mi sembra contenga una gran dose di verità, io direi
che la teologia della liberazione è molto "geopolitica", molto
radicalmente storica. Essa prende le mosse da una terra concreta,
da un continente concreto; parte da un popolo, da alcuni popoli,
che hanno una certa unità continentale e che vivono i loro processi
di indipendenza, di massacro storico, di fame, di schiavitù,
e allo stesso tempo di rivendicazione e di liberazione. E' una
teologia che non vede solo i segni dei tempi - come ci ha insegnato
il Vaticano II - ma anche, come mi piace spesso sottolineare,
i segni dei luoghi. E una teologia che rivalorizza come forse
mai è avvenuto prima - ad eccezione probabilmente dei primi
tre secoli della Chiesa - la voce del popolo come voce di Dio,
il sensus fidei di un popolo, di alcuni popoli. In Europa, almeno
in anni passati, si è lasciato troppo facilmente il teologo
nel suo studio, sulla sua cattedra, con i suoi libri; si è lasciato
troppo facilmente il predicatore nel suo convento, nella sua
parrocchia, sul suo pulpito. Il teologo e il predicatore della
liberazione convivono con il popolo, si intestardiscono a sperimentare
anche la povertà del popolo, a vivere i processi pastorali di
questi popoli, processi che sono contemporaneamente culturali,
politici ed economici.
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E' per questo che la teologia della liberazione si trova di
fronte ad altre teologie che non la comprendono?
Sì. Per cui occorre fare appello al necessario pluralismo. Capisco
perfettamente come mai a volte io non mi intendo con altri vescovi,
con certi settori della Curia romana - ad esempio Ratzinger
- o su alcuni punti con lo stesso Giovanni Paolo II. Questo
non nega assolutamente né la mia fede né la mia comunione ecclesiale.
Se la Chiesa deve essere anche umana, se deve essere anche storica,
allora deve essere anche plurale, nell'unità di una sola fede.
Una sola fede e molte teologie. Sarebbe legittimo affermare
che deve esserci una sola teologia, quando nei 20 secoli di
storia della Chiesa ci sono già state tante teologie? La teologia
di Agostino non è quella di Origene, ed entrambe sono riconosciute.
La teologia di Agostino non quella di Tommaso, e quella di Tommaso
non e quella della liberazione. E tuttavia, tutte queste teologie,
al loro tempo, con le loro peculiarità e le loro mediazioni
storiche e scientifiche, hanno cercato in ogni momento di sistematizzare
la fede. Ma questo legittimo pluralismo non significa che la
teologia della liberazione sia una "teologia in più", la teologia
"per l'America Latina". Non significa che la teologia della
liberazione non abbia - al di la del suo carattere latinoamericano
- qualcosa di permanente e di universale che non è solo per
l'America Latina. Ho detto in qualche occasione, e posso riaffermarlo,
che secondo me l'unica vera teologia cristiana non può che essere
teologia "della liberazione". L'unica vera spiritualità cristiana
non può che essere spiritualità "della liberazione". L'unica
vera teologia "cristiana" è quella teologia che sistematizza
la fede "nel Dio liberatore" così come ci si è manifestato in
Gesù, il Liberatore dal peccato, dalla schiavitù, dalla morte,
sia delle persone che dei popoli. L'unica vera spiritualità
"cristiana" è quella che sperimenta la presenza di questo Dio
che si è manifestato in Gesù Cristo Liberatore, e che stimola,
assimila, propugna e rischia fino alla morte perché lo Spirito
"Liberatore" di questo Dio si espanda in ogni persona, perché
la "Sua Liberazione" si realizzi in ogni popolo.
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Passiamo ad un altro dei punti da sottoporre a revisione, tra
quelli che hai citato: la liturgia.
E' stata la teologia della liberazione - finalmente riconosciuta
dallo stesso Giovanni Paolo Il come utile e necessaria e ormai
maggiorenne - a fornirci una certa libertà di spirito e quella
maturità che rende possibile vivere la nostra stessa liturgia
e la nostra pastorale della spiritualità in un modo che potremmo
definire sistematicamente lucido. Il popolo latinoamericano
reclama la sua religiosità popolare da 500 anni. Spesso, da
allora, questa religiosità é stata disprezzata, considerata
in un primo tempo pagana, poi ambigua, eclettica, e infine anche
alienante da certi settori di sinistra. Nonostante questo, oggi
la si sta riconoscendo sempre più come una spiritualità assolutamente
legittima, latinoamericana, e anche dotata di un grande potenziale
di liberazione. Anche se, certamente, con una comprensibile
percentuale di ambiguità storiche. Secondo quanto affermano
i migliori etnologi e antropologi, la religione è parte essenziale
di una cultura, è il nucleo radicale di una cultura. E qui stiamo
parlando del continente amerindio, profondissimamente religioso.
Gli antropologi dei primi anni di questo secolo, venuti dall'Europa,
arrivarono a dire che in alcune regioni dell'America Latina,
concretamente del Brasile, gli indigeni non avevano religione.
Ma in seguito, dovettero riconoscere che in quegli indigeni
tutto era religione... La religiosità popolare, o "la religione
popolare" - come gli specialisti vogliono che la si chiami in
segno di rispetto, e per superare una certa connotazione dispregiativa
- è vissuta oggi in America Latina in modo abbastanza armonico,
militante e molto liberante. Le celebrazioni della fede sono
sempre più storicamente impegnate: le celebrazioni delle "processioni
della terra", qui in Brasile, le celebrazioni nazionali o continentali
delle Comunità ecclesiali di base in cui l'eucarestia diventa
- ogni volta di più, senza possibilità di dicotomia - celebrazione
della Pasqua di Gesù e della Pasqua del suo popolo, eucarestia
fraterna e sovversiva.
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E la spiritualità?
La nuova santità che noi predichiamo non e poi tanto nuova.
Vuole essere semplicemente "cristiana". Vuole essere la santità
di Gesù stesso, la spiritualità del cristiano che segue Gesù;
cioè vivere la fede, nel proprio luogo e tempo, secondo lo Spirito
di Gesù. Non è Egli il Verbo incarnato? Una spiritualità cristiana,
necessariamente, non potrà essere disincarnata, astorica. E
la storia è politica. Essa dunque dev'essere necessariamente
una spiritualità che superi ogni dicotomia. Per noi non c'è
il cielo da una parte e la terra dall'altra. In questo unire
il cielo e la terra, la liturgia cristiana più tradizionale
canta la "reciprocità" o "scambio" tra il cielo e la terra,
tra Dio e l'uomo, reciprocità e scambio che si realizzano in
Gesù Cristo. Una vera santità cristiana, come quella che intendiamo
conoscere e vivere oggi, qui in America Latina e nel mondo intero,
dovrà necessariamente passare attraverso delle "mediazioni storiche".
Bisognerà assumere i problemi, le sofferenze e i rischi del
proprio popolo, dell'ora storica che questo popolo sta vivendo.
Si contemplerà Dio non solo nella parola scritta e statica della
Bibbia, e nemmeno in una visione idilliaca della natura, ma
prima di tutto e soprattutto nella conflittualità, nella lotta,
nel processo storico. Sì alla Bibbia, e anche alla natura, ma
prima di tutto e soprattutto sì alla storia. Già Agostino ci
ricordava che Dio ha scritto due grandi libri: il libro della
Bibbia e il libro della vita. La migliore corrente biblica attuale
dell'America Latina insiste molto su questo aspetto che è diventato
uno slogan per le nostre comunità cristiane: "la Bibbia e la
vita, la vita e la Bibbia". Carlos Mesters, il famoso biblista
brasiliano, ha saputo tradurre in splendidi libri questa preoccupazione.
Questa santità politica è una santità incarnata, storica, una
santità che opta per i poveri impoveriti, che prende partito
per i poveri, che cerca di situarsi nel loro luogo sociale;
una santità che con i poveri assume i rischi, il conflitto,
la lotta di liberazione dei poveri stessi, che contesta il sistema
di oppressione, di dominio, di privilegio; è una santità che
contempla Dio nel cammino della storia, degli avvenimenti quotidiani.
Le spiritualità tradizionali dicevano di contemplare e poi di
andare a dare, a comunicare agli altri quanto si era contemplato.
Altre spiritualità dicevano: "contemplativi nell'azione". Noi
affermiamo più concretamente che bisogna essere contemplativi
nella liberazione, contemplativi nell'azione specificamente
politica. Non si tratta solo di un'azione di beneficenza, semplicemente
umanitaria o caritativa. Si tratta di un'azione tipicamente
politica. Già Pio XI, se non ricordo male, diceva che l'espressione
più grande dell'amore cristiano è la carità politica, perché
è un amore che raggiunge le persone e i popoli. Raggiunge le
persone in quanto strutturate e strutturanti e raggiunge le
congiunture e le strutture dell'essere e del vivere degli esseri
umani. Inoltre è una santità che sa vivere ecumenicamente la
presenza di Dio e la sua azione salvifica nel mondo. Una santità
normalmente di frontiera. In tutto questo cammino di liberazione
del Dio con noi e del Dio come noi, Dio forse non appare nel
suo complesso un Dio "ecclesiastico", e forse neppure un Dio
"cristiano", ma appare comunque sempre come un Dio umanamente
"liberatore". Quando celebriamo i nostri martiri, ricordiamo
sempre che anche se alcuni di loro forse non erano cristiani,
e anzi si proclamavano atei, sono stati comunque "martiri del
Regno", martiri di questo processo più grande, di questa Causa
più grande, di questo interesse più grande di Dio che anche
la Chiesa deve servire. La Chiesa, tutta la Chiesa, non può
essere che una diaconia, un servizio al Regno di Dio. La Chiesa
non è per se stessa. La Chiesa è per il Regno, nel mondo, nella
speranza e nella preparazione del Regno futuro, nella parusia.
La spiritualità della liberazione, contemporaneamente e per
definizione, sarà una spiritualità necessariamente conflittuale,
incompresa perché contestataria. Perseguitata dai privilegiati,
da tutti i potenti, perché spiritualità rivoluzionaria. D'altra
parte questa conflittualità è un tratto caratteristico dello
stesso Gesù Cristo. La conflittualità tipica della vita di Gesù,
questo atteggiamento fondamentale della sua vita, sarà un atteggiamento
fondamentale della vita del cristiano che voglia vivere la spiritualità
cristiana. Gesù ha vissuto anche la conflittualità con il tempio
e con la sinagoga. Potrebbe sembrare naturale che egli entrasse
in conflitto soprattutto con l'impero romano. Invece possiamo
dire che nella vita di Gesù appare molto più quotidiana, molto
più costante, la conflittualità con la sinagoga e con il tempio,
la conflittualità con la legge e con il culto. Gesù, se così
si può dire, è apparso come il nuovo Dio che recuperava il Dio
antico, che negava il Dio profanato, strumentalizzato, sottomesso
alla legge. Quando si squarcia il velo del tempio da cima a
fondo, si ha l'impressione che si squarci, che si rompa tutta
una concezione di Dio, tutto un modo di vivere il culto, tutta
una legge religiosa e morale che non corrispondeva veramente
a Dio, al vero Dio. Da ciò, la conflittualità di Gesù con il
tempio e con la sinagoga. Nella Chiesa, in ognuno di noi, continua
ad esserci sadduceismo, fariseismo, legalismo... La Chiesa,
come qualunque istituzione umana, sebbene non sia solo un'istituzione
umana, corre il rischio di istituzionalizzarsi eccessivamente,
di ripiegarsi su se stessa, corre il rischio - come hanno detto
i nostri teologi, che saggiamente hanno cercato di metterci
in guardia - di fare a volte affogare il carisma nel potere.
Per questo anche il cristiano d'oggi, come a suo tempo Gesù,
può sperimentare il conflitto, non solo di fronte ai poteri
di questo mondo, ma anche di fronte a ciò che nella Chiesa può
esserci di tempio e di sinagoga.
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In America Latina, il problema più vitale e incandescente non
è semplicemente la relazione tra fede e politica, ma quello
tra fede e rivoluzione. E questo perché i processi storici che
vivono i nostri popoli sono processi rivoluzionari, cioè processi
violenti e traumatici.. . Che dire dei processi rivoluzionari?
Se si dice che la Chiesa deve mettersi in politica (cosa che
oggi ormai viene accettata), e se si dice che la Chiesa deve
optare per i poveri, si dice necessariamente che la Chiesa deve
mettersi nella politica reale che si sta sviluppando in ogni
popolo e in ogni luogo. Si dice che la Chiesa deve optare non
solo per i poveri individualmente considerati, ma anche collettivamente
considerati. Deve optare anche per gli interessi di questi poveri,
per i loro processi. Se avviene un processo rivoluzionario in
Nicaragua, in Guatemala, in EI Salvador, o in Messico, o nelle
Filippine, o in Colombia o in Perù… la Chiesa dovrà necessariamente
entrare in questi processi. Come lo stesso Cristo, che è entrato
nella storia umana. Bisogna entrarvi criticamente, alla luce
di una mediazione più grande. La Chiesa non possiede l'ultima
parola nelle mediazioni socio-politiche. Essa non può pretendere
di avere un programma socio-politico-economico per nessuna società.
Tuttavia, la Chiesa, come luce, come fermento, come lievito,
può e deve entrare in tutti i processi storici. Concretamente,
parlando di una rivoluzione, è evidente che la Chiesa può e
deve entrare in una rivoluzione che trasformi le strutture imperialiste,
oligarchiche, di sfruttamento, di saccheggio, di fame, malattia,
incultura, in strutture di identità culturale nazionale, di
autonomia, di cibo, educazione, salute, casa… Concretamente,
per i cristiani, il grande problema sarà quello della violenza
o della non-violenza. Perché non c'è dubbio che lo stesso Gesù,
che ha portato la pace, che è "il Principe della Pace", che
"è la nostra Pace", come direbbe san Paolo, non è venuto per
principio a portarci la violenza. C'è però una serie di testi
che ci parlano di una certa violenza: "Non sono venuto a portare
la pace ma la violenza"; "Sono venuto a separare i padri dai
figli"; "il regno di Dio soffre (reclama, esige) violenza".
So che si dirà che non si tratta di una violenza rivoluzionaria.
Domando: di che tipo di violenza si tratterà? Mi diranno che
si tratta di una violenza ascetica. Domando: sarà una violenza,
una reazione semplicemente individuale, individualista, che
possa prescindere dal collettivo, dal sociale, dallo strutturale?
Secondo me, è chiaro che un cristiano deve essere contro le
armi, che deve essere per principio contro ogni violenza. Ma
la stessa Chiesa, lungo i secoli, ha riconosciuto alle persone
e ai popoli il diritto alla legittima difesa. Ancora recentemente
i papi, Paolo VI e anche Giovanni Paolo Il in qualche particolare
momento, hanno riconosciuto ai popoli oppressi da una tirannia
prolungata il diritto ad una rivoluzione armata per liberarsi
da questa tirannia, quando non ci fossero altre vie d'uscita
possibili. Se l'umanità evolve, se i diritti dei popoli saranno
rispettati in altro modo, se una futura ONU riuscirà a risolvere
i conflitti tra i popoli dal di dentro di ogni popolo, per via
diplomatica e politica, tanto meglio. Attualmente, come stanno
le cose, le Chiese del Nicaragua, del Guatemala, e di El Salvador...
non possono rifiutarsi di partecipare ai processi rivoluzionari
dei loro popoli, ai processi che quei popoli contadini, indigeni,
oppressi stanno vivendo. La Chiesa del Nicaragua, quella del
Guatemala e di El Salvador non possono sottrarsi ad una chiara
presa di posizione contro l'intervento degli Stati Uniti, contro
la prepotenza e la violenza dell'esercito salvadoregno, sostenuto
fisicamente dagli Stati Uniti, o dall'esercito guatemalteco,
al servizio dell'oligarchia nazionale. La Chiesa in quanto Chiesa,
come istituzione nei suoi documenti, nelle sue celebrazioni,
nelle norme concrete offerte a tutta la comunità, dovrà ricordare
prima di tutto e soprattutto i grandi principi cristiani che
si riferiscono alla morale politica, all'impegno storico dei
cristiani. Evidentemente non ratificherà nessun processo come
se fosse "l'unico processo possibile" per il Regno; non difenderà
nessun partito come se fosse "il partito cristiano"; non dirà
che la democrazia cristiana è "il partito della Chiesa". E questo
un peccato che è già stato commesso nella vecchia Europa, nella
tanto ecclesiastica Italia, e si sta commettendo ancora attualmente
in Centroamerica. Sappiamo tutti che da parte di altissimi settori
della gerarchia ecclesiastica c'è la chiara intenzione che la
democrazia cristiana trionfi in Centroamerica. Duarte è democristiano,
e lo è anche Cerezo. (Mi ha colpito molto - l'ho detto più di
una volta - che Napoleon Duarte abbia inviato alla rivista ufficiale
di Comunione e Liberazione, questo movimento così potente oggi
nella Chiesa, e tanto amato personalmente da Giovanni Paolo
Il, una lettera in cui chiamava "compagni" i membri del movimento,
e che la rivista abbia pubblicato questa lettera in prima pagina,
praticamente come editoriale). Mi sembra che i cristiani, e
la Chiesa in quanto tale, hanno avuto e hanno ancora pochi scrupoli
nel definirsi, quando si tratta di una politica o di un processo
di tipo più conservatore. Hanno avuto e hanno molti scrupoli
quando si tratta di un processo rivoluzionario.
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Che la Chiesa non debba canonizzare un partito, significa che
deve mantenersi neutrale, al di sopra delle parti in lotta,
in una rivoluzione?
No. Non è possibile che le due parti abbiano la stessa ragione,
lo stesso diritto, gli stessi interessi, la stessa maggioranza.
In Centroamerica questo è molto chiaro. Concretamente, in Nicaragua,
non c'è dubbio che il sandinismo, pur con le sue deficienze,
con le sue mediazioni anche marxiste, sia un processo storico
rivoluzionario partito dal popolo nicaraguense, assunto dalla
maggioranza del popolo nicaraguense; un processo sandinista
più che marxista (perché è anche un processo cristiano), che
proviene dalla maggioranza del popolo del Nicaragua e che contesta
l'imperialismo secolare, l'oligarchia secolare, la dittatura
somozista; che rivendica l'autonomia del Nicaragua; che rivendica
una riforma agraria al servizio della maggioranza dei nicaraguensi
(i contadini del Nicaragua); che esige non solo la terra, ma
anche cibo, salute, educazione, per tutto il popolo nicaraguense.
E anche la maggioranza del popolo salvadoregno, la maggioranza
del popolo guatemalteco, sta rivendicando la terra, la salute,
l'educazione... Stanno contestando lo stesso imperialismo, le
stesse oligarchie secolari... Là non è possibile essere neutrali
senza cessare di essere cristiani. Quando ci troviamo di fronte
a questo tipo di movimenti rivoluzionari di liberazione, con
una tale convergenza di obiettivi (riforma agraria, contestazione
dell'imperialismo, liberazione da tante oppressioni secolari,
dalla colonizzazione, recupero della propria identità), a partire
dalla nostra stessa fede, dalla teologia e dalla spiritualità
della liberazione, non possiamo non appoggiarli, anche se naturalmente
in modo critico. Quando sono stato in Nicaragua, anche se ci
sono andato già a partito preso e anzi con passione, alla luce
della mia fede, nella preghiera, cercando di riesaminare le
cose con serenità, ho capito almeno quattro o cinque cose molto
evidenti, che posso così sintetizzare: i vescovi, in quanto
vescovi, in Nicaragua, possono e devono pronunciarsi contro
l'intervento nordamericano; possono e devono rivendicare l'autodeterminazione
del popolo nicaraguense; possono e devono appoggiare il processo
sandinista, per quanto riguarda la riforma agraria, il recupero
dell'identità culturale del popolo nicaraguense, il cibo per
tutti, l'educazione per tutti... Si tratta di beni di base,
fondamentali. E' lì che noi cristiani, che possiamo credere
solo nel Dio e Padre di nostro Signore Gesù Cristo, possiamo
riscontrare che quei diritti umani coincidono con gli interessi
di questo stesso Dio. La Chiesa non può essere neutrale in nessun
luogo. Come dico altrove in questo libro: "nell'amore, nella
fede e nella rivoluzione, la neutralità non è possibile". E
insisto sul fatto che questa neutralità è impossibile non solo
qui nel Terzo Mondo, ma anche nel Primo Mondo. Io, come europeo,
ma anche come vescovo, ho detto molte volte - e voglio tornare
a dirlo con molta sincerità e anche con una certa aggressività
pastorale - che la Chiesa del Primo Mondo (parliamo così, senza
ulteriori sfumature dl Primo e Terzo Mondo) se vuole essere
sincera e solidale, non potrà che vivere nel Primo Mondo optando
realmente per i poveri e per i processi dei poveri del Primo
e del Terzo Mondo, per essere l'unica Chiesa di Gesù Cristo
nel mondo, per confessare l'unica umanità, figlia dell'unico
Dio che riconosciamo come Padre. Se la Chiesa del Primo Mondo
non si fa solidale con le persone e i popoli del Terzo Mondo,
nega Dio, non esercita la carità fraterna. In questo senso -
come dico anche più avanti - oggi, la carità, intesa socialmente,
intesa comunitariamente, intesa collettivamente, prende il nome
di "solidarietà". La poetessa nicaraguense Gioconda Belli dice
che "la solidarietà è la tenerezza dei popoli". Io aggiungerei
che la solidarietà è la carità delle Chiese. Deve esserlo.
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Oggi accettiamo che ci sia salvezza al di fuori della Chiesa;
sappiamo che i movimenti di liberazione si muovono al di fuori
della Chiesa, e a volle sono anche attaccati da essa... Cosa
si potrebbe dire oggi di quel vecchio adagio che recitava "fuori
della Chiesa non c'è salvezza"?
Al di fuori della liberazione - intesa come fatto integrale,
pieno, totale - non c'è Chiesa. Ed è per questo che fuori della
Chiesa liberatrice non c'è Chiesa. La Chiesa è Chiesa solo nella
misura in cui annuncia, celebra, costruisce e attende la Salvezza.
E la Salvezza è Salvezza solo se salva le persone come individui
e come membri di un popolo, di una società. La Salvezza è Salvezza
solo se salva le persone anche storicamente. La Salvezza diventerà
piena nell'escatologia, nella parusia, ma la Salvezza avviene
in questo modo. Gesù non è nostro Salvatore solo oltre la morte.
Gesù è nostro Salvatore perché già prima della morte ci salva
da ogni peccato, da ogni schiavitù (la schiavitù è il peccato
organizzato) e ci salverà anche dalla morte. "Fuori della Salvezza
non c'è Chiesa". Fuori della Liberazione, così intesa, non può
esserci Chiesa. La Chiesa o è liberatrice o non è Chiesa di
Gesù Cristo, il Liberatore.
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Concludiamo con due domande globali. A partire da questi 500
anni, quali potrebbero essere i punti di interesse più importanti
per l'America Latina?
Ho parlato di recupero dell'identità del continente. In primo
luogo, occorre riconoscere il continente latinoamericano, tutto
il continente americano, come un continente "amerindio". Quindi
l'identità di tutti i popoli indigeni. I loro pieni diritti.
I loro territori. Le loro culture, e all'interno delle loro
culture, le rispettive lingue (la lingua è il 50% della cultura
di un popolo; fino a che un popolo continua ad usare la propria
lingua continua ad essere "quel" popolo). Occorre riconoscere
anche i diritti e l'identità del popolo nero, in tutto il continente.
Portato come schiavo, più diluito nel continente, ma che rappresenta
pur sempre un contingente numerico molto significa (il Brasile,
secondo paese nero del mondo, ha circa cinquanta milioni di
neri). Occorre riconoscere questa specie di "identità eclettica",
se così si può dire, del continente latinoamericano, che è indigeno,
nero, creolo. L'America Latina ha un volto. Ha un'anima. E'
lei. E' altra. Può e deve completare l'umanità. In secondo luogo,
occorre permettere che l'America Latina abbia un'esperienza
autoctona di rivoluzione sociale, politica, economica. Che l'America
Latina viva il suo socialismo, e perfino il suo marxismo laddove
ritenga di doverlo vivere. Lo stesso Che e Mariategui, solo
per fare due nomi significativi, gloriosi, dell'America Latina,
sarebbero già un esempio. La stessa Cuba, pur dibattendosi ancora
nelle conseguenze dello strangolamento storico che ha vissuto,
e anche ammettendo i suoi errori, e in seguito il Nicaragua
con il suo processo sandinista, stanno insegnando fino a che
punto lo stesso marxismo - non diciamo, in termini più generali,
la stessa - rivoluzione - possano essere vissuti in maniera
autoctona in America Latina, imparando anche dalle deficienze,
errori, limitazioni di questi primi processi. La democrazia
in America Latina - anche nel mondo, ma ora stiamo parlando
dell'America Latina - deve essere un "altra democrazia". L'ho
detto molte volte, e lo ripeto nuovamente: probabilmente dopo
"amore" il termine più prostituito nel mondo è quello di "democrazia".
Dire democrazia oggi non significa quasi più niente. Anzi spesso,
fatalmente, significa la negazione stessa della democrazia.
Perché non è una democrazia popolare. Perché non è una democrazia
realmente partecipativa. Perché non è un governo del popolo
al servizio del popolo. Essa finisce per essere ancora il governo
minoritario, il governo oligarchico, "in nome del popolo", al
servizio di alcune minoranze. In tale luogo l'America Latina
può e deve esigere, in occasione di questi500 anni, un nuovo
diritto internazionale, un nuovo diritto dei popoli. Perché
un popolo deve essere considerato maggiore o migliore di un
altro popolo? Perché gli Stati Uniti - potremmo parlare anche
della Russia se ci riferissimo al resto del mondo, o del Giappone
o della Germania, imperi più recenti, per non parlare più dell'impero
spagnolo o di quello portoghese - possono permettersi il lusso
di invadere decine di volte l'America Centrale? Perché l'ONU
e le Nazioni a livello mondiale assistono a queste violazioni
con tanta passività? D'altra parte, questo carattere autoctono
della politica, della cultura, dell'economia, che esigiamo nel
nostro processo rivoluzionario, dobbiamo esigerla anche dalla
Chiesa. L'unica umanità che esiste nei vari continenti, è qui
umanità amerindia, afroamericana, creola. L'unica Chiesa di
Gesù Cristo che esiste su tutta la terra, esiste qui, deve esistere
qui "in modo latinoamericano" per essere "la Chiesa del Verbo
Incarnato, la Chiesa di Gesù di Nazareth", una Chiesa per questi
popoli, per questo popolo, per questa ora...
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Per finire: quali potrebbero essere i grandi interessi delta
Chiesa dell'America Latina, a partire da questa congiuntura
dei 500 anni?
Rendere possibile, con gioia e con azioni di grazie, il processo
della teologia della liberazione. Rendere possibile e stimolare,
con gioia e con azioni di grazie, il processo della spiritualità
della liberazione. Canonizzare, se non nella "gloria del Bernini"
- che forse non è necessaria - però certamente nel pubblico
riconoscimento, questa pleiade di martiri che l'America Latina
sta dando alla Chiesa e al mondo da secoli, ma soprattutto in
questi ultimi anni; martiri con un nome solenne riconosciuto,
come San Romero d'America, e migliaia di martiri anonimi, come
gli indigeni, i contadini, gli operai, gli operatori di pastorale,
i difensori dei diritti umani in America Centrale e nei diversi
paesi del continente.. . Rendere possibile una liturgia autoctona,
tipicamente latinoamericana. Stimolare la pastorale latinoamericana.
Riconoscere l'aspetto autoctono delle conferenze episcopali.
"Rifare" il Celam (Conferenza episcopale latinoamericana), quel
Celam che è stato fonte di tante speranze, di tanta testimonianza,
di tanta coraggiosa profezia, e che ultimamente è passato ad
essere per molti o un Celam semplicemente scomodo, o un Celam
appena tollerato. Che diventi realmente una sorta di comunione
delle varie conferenze episcopali del continente latinoamericano...
In questi giorni stavo pensando ancora una volta ai 500 anni.
Immaginavo anche una serie di sonetti che farei, che sto già
facendo, così, in cammino, come tutte le mie poesie. Sarebbero
cinque primi sonetti, a Colombo, alle caravelle. .. E poi ancora
cinque sonetti, al conquistatore anonimo, al missionario anonimo,
all'indio anonimo, al negro anonimo, alla madre anonima. E infine
un sonetto libero alla Grande Patria. Il nostro amato teologo,
il nostro grande teologo Gustavo Gutierrez, pubblicherà quest'anno
un libro su san Bartolomeo de Las Casas, come amo chiamarlo
io. Per questo libro ho appena composto un sonetto. Eccolo:
A BARTOLOME' DE LAS CASAS
I Poveri ti hanno giocato la partita
di una Chiesa più grande, di un Dio più vero:
contro il battesimo sull'indio morto
il battesimo primario della vita.
Encomendero * della Buona Notizia,
la Corte e Salamanca hai sostituito.
E questo tuo cuore appassionato
ha cinquecento anni di testimone.
Cinquecento anni saranno, veggente,
e oggi più che mai ruggisce il Continente
come un vulcano di ferite e di braci ardenti.
Torna e insegnaci ad evangelizzare,
libero da caravelle tutto il mare,
santo padre d'America, Las Casas!
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* Colui che aveva una Concessione di indigeni da sfruttare.
(tratto da: Pedro Casaldaliga. "In cerca di Giustizia e libertà",
EMI - traduzione dallo spagnolo di Cinzia Landi)