"La
carità non abbia finzioni" (Rm 12,9): è duro il monito che Paolo
rivolge ai cristiani di Roma, ma suppone un vissuto comunitario
che già aveva sperimentato la fatica di tradurre in gesti concreti
e costanti il modello di fraternità proposto da Gesù. Vera carità
è dunque, secondo l'apostolo, solo quella che "ama gli altri con
affetto fraterno", che è "lieta nella speranza, forte nella tribolazione,
perseverante nella preghiera, premurosa nell'ospitalità" e "sollecita
per le necessità" di ogni fratello, che deve essere "stimato"
non già per quanto possiede ma per quello che è. La carità richiede
dunque un grande ed attento esercizio di discernimento, perché
non tutto ciò che è buono è anche utile, ma solo ciò che è utile
giova al bene degli altri. Al contrario, una carità svogliata
e superficiale, fatta solo per mettersi a posto la coscienza o
per non essere mal giudicati…; una carità che offre non ciò che
effettivamente serve, ma quello che è più comodo e immediato dare,
senza interrogarsi su quali siano i veri bisogni dell'altro…;
e ancora, una carità che nemmeno ipotizza la necessità di non
dare quando ciò sminuisse la dignità di chi riceve… non sarebbe
nemmeno degna di essere chiamata con questo nome, essendo piuttosto
un offesa al prossimo e un insulto a Dio. Queste considerazioni
ci hanno spinto, nelle scorse settimane, a sospendere momentaneamente
la distribuzione degli abiti presso il guardaroba parrocchiale
e soprattutto ad invitare i fedeli, al termine delle Messe, a
non dare l'elemosina a quei nomadi che stazionano permanentemente
alle porte della chiesa, importunando spesso le persone più anziane.
Lo abbiamo fatto, non già per mancanza di carità, ma proprio perché
siamo convinti che la carità sia una cosa seria e sentiamo il
dovere di fermarci un poco a riflettere su quali nuove e più efficaci
iniziative possiamo intraprendere nell'esercizio di questo servizio.
Inoltre, il fatto di esserci resi conto che molto di quanto veniva
distribuito non andava a persone effettivamente bisognose, ma
a gruppi organizzati che girano tutte le parrocchie della città
raccogliendo vestiti e alimenti da vendere puntualmente sulle
bancarelle abusive di alcuni mercati, ci ha indotti a ripensare
le modalità della distribuzione, per poter assicurare le doverose
garanzie a quanti offrono per i veri poveri. Infine abbiamo preso
in seria considerazione - e voluto rilanciare - l'invito della
Caritas romana a non dare soldi a quanti questuano alle porte
delle chiese o ai semafori (nomadi, nordafricani e persone dell'est
europeo) soprattutto se bambini, perché, trattandosi spesso di
nuove forme di schiavitù gestite da organizzazioni malavitose,
si contribuirebbe indirettamente e involontariamente, al loro
sfruttamento... Cosa completamente diversa è invece comprare da
chi, con dignità e senza prepotenza, vende piccole mercanzie ai
bordi delle strade, soprattutto nel caso dei cosiddetti giornali
di strada. Lo stesso dicasi per i "più classici" barboni, persone
senza fissa dimora che questuano per fame, a differenza dei tossicodipendenti,
perennemente alla ricerca di denaro per procurarsi la droga. La
carità insomma va' differenziata ed anche a noi, come al samaritano
della parabola, chiede di fermarci… di perdere qualche istante
del nostro prezioso tempo (in realtà: quanto ne perdiamo? Dio
poi ce lo da tutto gratis!) per guardare negli occhi il prossimo
e scoprire quali siano le sue vere necessità. Non sempre infatti
corrispondono a quanto ci viene immediatamente richiesto, e tanto
meno a quello che ci è più comodo fare per toglierceli dai piedi.
A volte, loro stessi - persi nella confusione di una vita ai limiti
della sostenibilità fisica e psichica - nemmeno si rendono conto
di cosa abbiano effettivamente bisogno, e quindi è sempre più
necessario valutare caso per caso. Ma a questo punto, non di rado,
sorge la prima e infastidita obiezione: "Già la vita è complicata
di suo… manca solo di complicarsela anche per fare la carità!".
Succede… succede perché, per quanto tutti ci rendiamo conto che
un po' di generosità non faccia male - se non altro perché ce
lo hanno insegnato fin da bambini - non tutti però sono altrettanto
disposti a mettersi in discussione e a faticare… se non per quello
che, in un modo o nell'altro, torni a proprio vantaggio. Siamo
cioè disposti a fare molti sacrifici - e giustamente! - per studiare,
perché questo ci darà una posizione. Siamo addirittura creativi
nel perseguire tutte le strade che portino ad una buona e veloce
carriera. Magari siamo anche pronti ad impegnarci per migliorare
le strutture sociali ed economiche in cui viviamo. Ma "per carità!
La carità, è già tanto se la facciamo… soprattutto in un mondo
egoista come questo!"... Persino in ambito cristiano è diventato
comune pensare alla carità come a qualche cosa di semplicemente
meritorio, non già a ritenerla un dovere. Il male è proibito,
ma il bene sembra essere un optional: se lo fai tanto meglio,
guadagni punti per il paradiso; ma se non lo fai non è comunque
peccato (e che fine hanno fatto i "peccati di omissione"?!). Strano
davvero, perché il messaggio di Gesù va' in tutt'altra direzione:
basti pensare alla parabola del giudizio universale di Mt 25 o
allo stile costantemente richiesto ai suoi discepoli!… Il cristiano
non è semplicemente invitato, di tanto in tanto, a fare un po'
di elemosina: questa la praticavano anche i farisei. Il cristiano
è chiamato ad essere "sale della terra e luce del mondo" (Mt 5,13),
cioè a portare la Parola trasformatrice di Gesù dentro tutte le
realtà terrestri, mediante l'esercizio della carità. Non c'è niente
di umano che non riguardi anche Dio, e quindi non c'è alcuna dimensione
umana a cui Dio non abbia riservato una sua specifica parola.
Perciò la fede - e quindi la carità, suo modo ordinario di esprimersi
- comprende tra le dimensioni che le sono proprie anche quella
sociale e politica, di cui ogni cristiano deve, a suo modo, farsi
carico. E qui le obiezioni si moltiplicano… in maniera esponenziale!
Vuoi per il desiderio sincero, ma equivoco, di preservare la fede
dalle contraddizioni e dagli inquinamenti di cui spesso sono contaminati
questi specifici ambiti umani; vuoi per la tentazione già presente
nell'Antico Testamento (2Sam 7) di relegare Dio in uno spazio
dorato, ma circoscritto, per poter gestire tutti gli altri settori
della vita a proprio uso e consumo… o forse, più semplicemente,
per non aver compreso appieno entrambe queste realtà. Al riguardo,
il vescovo sudafricano e premio Nobel per la pace, Desmond Tutu
ammoniva: "Coloro che dicono che la religione non ha niente a
che vedere con la politica non sanno cos'è la religione". Ed il
Sinodo 47° della Diocesi di Milano (l'ultimo e perciò quello più
normativo per la nostra vita diocesana e parrocchiale) all'art.
126 recita: "§ 1. Il realismo tenace, con cui la carità cerca
il bene di ogni uomo, la impegna anche in campo sociale e politico…
§ 4. In ogni comunità cristiana, perciò, in particolare mediante
la predicazione e la catechesi, nella fedeltà a quanto proposto
dalla dottrina sociale della Chiesa, si formino i fedeli a vivere
lo stretto rapporto che esiste tra carità e impegno politico…".
In ossequio a questa disposizione, anche nella nostra parrocchia
da alcuni mesi si è formata una commissione socio-politica con
l'intenzione non già di svolgere attività politiche in senso partitico,
ma di aiutare l'intera comunità ad assumersi le proprie responsabilità
nella gestione del bene comune, a giudicare e a contribuire alle
decisioni più importanti della vita del nostro Paese nella prospettiva
della dottrina sociale della Chiesa e a vivere una carità il più
possibile incarnata nella società e nel mondo di oggi. Non è facile
e ne siamo consapevoli: il mondo, ma anche tanti cristiani, vedono
di buon occhio la Chiesa fino a quando si limita a fare l'elemosina
per alleviare alcune situazioni di povertà, ma non tollerano che,
in nome della carità e della profezia che le sono proprie, alzi
il velo sulle ingiustizie che sono la causa di tali povertà. E'
una storia già vista nell'esperienza di tutti i profeti, di Gesù
e di tanti santi, fino ai grandi testimoni del nostro tempo. Mons.
Helder Camara, vescovo di Recife in Brasile, diceva: "Quando aiuto
i poveri mi chiamano santo, ma quando indico le cause della povertà
mi chiamano comunista". E Mons. Romero, l'arcivescovo martire
di San Salvador, commentando in un'omelia la lettera di Giacomo
(2,1-5), gli faceva eco: "È inconcepibile che qualcuno si dica
cristiano e non assu-ma, come Cristo, un'opzione preferenziale
per i poveri. E' uno scandalo che i cristiani di oggi critichino
la Chiesa per-ché pensa "in favore" dei poveri. Questo non è cristianesi-mo!...
Molti, carissimi fratelli, credono che quando la Chie-sa dice
"in favore dei poveri", stia diventando comunista, stia facendo
politica, sia opportunista. Non è così, perché questa è stata
la dottrina di sempre. La lettura di oggi non è stata scritta
nel 1979: San Giacomo scrisse venti secoli fa! Quel che succede,
invece, è che noi, cristiani di oggi, ci sia-mo dimenticati di
quali siano le letture chiamate a sostenere e indirizzare la vita
dei cristiani. Quando diciamo "in favore dei poveri", non intendiamo
badate bene indirizzarci in modo parziale verso una sola classe
sociale: "Quel che noi diciamo - afferma la III Conferenza Generale
dell'Episcopato latinoamericano riunita a Puebla - vuole essere
un invito rivolto a tutte le classi sociali, senza distinzione
di ricchi e di poveri. A tutti diciamo: "Prendiamo sul serio la
causa dei poveri, come se fosse la nostra stessa causa, o ancor
più (come in ef-fetti poi è), la causa stessa di Gesù Cristo.
Perché nel giorno del giudizio finale Egli dichiarerà salvi solamente
coloro che ai poveri si sono dedicati avendo fede in lui: "Tutto
ciò che avete fatto a uno di questi poveretti - emarginati, ciechi,
zoppi, sordi, muti - lo avete fatto a me" (Mt 25,40)". Siamo dunque
in buona compagnia. Una carità senza finzioni ha molestato, continua
a molestare e molesterà fino alla fine dei secoli la coscienza
di quanti ne preferirebbero una "più ragionevole", "più pratica"
e "meno intellettuale". Ma corrisponde, allo stesso tempo, alla
pretesa di un Dio che non si accontenta di essere amato soltanto
con il cuore, ma vuole esserlo con tutte le nostre facoltà, testa
compresa: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con
tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua
mente e il prossimo tuo come te stesso" (Lc 10,27)… Per noi poi
resta valida la risposta data da Pietro e dagli apostoli al sommo
sacerdote e al Sinedrio: "Bisogna obbedire a Dio piuttosto che
agli uomini" (At 5,29).
Alberto
Vitali
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