Non
vi nascondo che quando ho letto il tema, che i nostri amici delle
ACLI ci hanno proposto per questa sera, ho avuto un sussulto,
pensando che fosse almeno tanto suggestivo quanto difficile.
E
questo perché ad una lettura immediata di certi passi biblici
- neppure secondari - appare tutt'altro che scontato che la Bibbia
possa costituire un ponte tra i popoli e le culture.
Sono
passi però con i quali dobbiamo fare i conti:
-
anzitutto, per una questione di onestà intellettuale: non
sarebbe corretto ignorarli semplicemente perché sembrano
contraddire la nostra tesi
e per questa strada non si andrebbe
nemmeno troppo lontano;
- poi, per la necessità di affrontare e smentire certe
letture strumentali e tendenziose, che speravamo definitivamente
superate, e che invece rispuntano qua e là, insidiose,
ancora ai nostri giorni;
- infine e soprattutto, perché - in maniera un po' paradossale
- ci offrono una buona occasione per inquadrare il nostro argomento.
La
xenofobia di una parte di Israele
Partirei
perciò da un testo che la Bibbia colloca in un momento
cruciale dell'esperienza dell'Esodo, nelle steppe di Moab: sono
gli ultimi giorni della vita di Mosè, che - cosciente di
non potere varcare i confini della Terra Promessa - si congeda
dal popolo con alcune raccomandazioni. E' il suo Testamento spirituale,
raccolto nel Deuteronomio, il grande libro dell'Alleanza e quindi
- appunto - un testo tutt'altro che marginale:
Dt
7,1-6;16 passim Dice Mosè: "Quando il Signore tuo
Dio ti avrà introdotto nel paese che vai a prendere in
possesso e ne avrà scacciate davanti a te molte nazioni
tu le voterai allo sterminio; non farai con esse alleanza né
farai loro grazia. Non ti imparenterai con loro
Ma voi vi
comporterete con loro così: demolirete i loro altari, spezzerete
le loro stele, taglierete i loro pali sacri, brucerete nel fuoco
i loro idoli. Tu infatti sei un popolo consacrato al Signore tuo
Dio; il Signore tuo Dio ti ha scelto per essere il suo popolo
privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra
Sterminerai
dunque tutti i popoli che il Signore Dio tuo sta per consegnare
a te; il tuo occhio non li compianga; non servire i loro dèi,
perché ciò è una trappola per te".
Bello
chiaro; e non si discute!
Come
dicevamo, è un testo collocato al termine dell'Esodo, quindi
riferito all'ca. al 1200 a.C.
Negli
8 secoli successivi succede di tutto: dall'esperienza delle Tribù
guidate da leader carismatici (i Giudici) al Regno di Davide e
Salomone
a quelli dei loro successori, tanto al sud - in
Giudea - quanto nel nord di Israele.
Per
tutto questo tempo, Israele avrà rapporti più o
meno felici con i popoli vicini; ma il confronto-scontro avverrà
anche in Patria, perché - lungi dall'averli sterminati
tutti - Israeliti e Cananei, condivideranno per sempre la stessa
terra. Anzi, proprio la città per eccellenza, Gerusalemme,
continuerà ad avere più abitanti Gebusei, che nemmeno
Israeliti.
Sono
secoli in cui la fede di Israele si sviluppa grazie anche al sorge
della grande Profezia
fino e oltre le catastrofi dell'Esilio:
prima a Ninive, per il regno del nord, poi a Babilonia, per quello
di Giuda.
Tutto
sembra finito
ma nel 539 a.C. il re dei persiani, Ciro,
sconfigge i babilonesi e secondo una nuova concezione della politica
permette ai popoli sottomessi di riprendere le proprie tradizioni
religiose. Anche gli ebrei tentano quindi - tra mille difficoltà
- di riorganizzarsi; e verso il 400 a.C., a Gerusalemme, lo scriba
e sacerdote Esdra, con mano pesante, impone nuove regole per salvaguardare
l'identità della fragile Comunità, appena ricostituita.
Tra
queste, spicca il triste capitolo dello scioglimento dei cosiddetti
"matrimoni misti":
Esd
9.10 passim Dice Esdra: "Terminate queste cose, sono venuti
a trovarmi i capi per dirmi: "Il popolo d'Israele, i sacerdoti
e i leviti non si sono separati dalle popolazioni locali
ma hanno preso in moglie le loro figlie per sé e per i
loro figli: così hanno profanato la stirpe santa con le
popolazioni locali
"
"Allora
Secania
disse a Esdra: "Noi siamo stati infedeli verso
il nostro Dio, sposando donne straniere, prese dalle popolazioni
del luogo. Orbene
facciamo questa alleanza davanti al nostro
Dio: rimanderemo tutte queste donne e i figli nati da esse, secondo
il tuo consiglio, mio signore, e il consiglio di quelli che tremano
davanti al comando del nostro Dio. Si farà secondo la legge!"
Anche
qui, bello chiaro. Donne e figli ripudiati! E in termini di sussistenza,
sappiamo bene cosa comportasse questo abbandono!
Con
una novità: a questo punto, la xenofobia dei settori dominanti
in Israele non è più semplicemente una questione
di opportunità politica e religiosa
ma si radica
in una mutata concezione teologica: ormai è l'dea stessa
di "stirpe santa" ad impedire i matrimoni con gli stranieri.
Vale
a dire che il concetto di "popolo santo di Dio" non
viene più definito, anzitutto, in senso religioso: a partire
cioè dal comandamento dell'adorazione esclusiva di JHWH
("non avrai altri dèi di fronte a me" ); ma in
senso "etnico": come presa di distanza, senza compromessi,
da tutti gli stranieri.
Una
prima considerazione
Capite
bene allora che se volessimo fare una lettura fondamentalista
della Bibbia, dovremmo chiudere qui la serata. E non mancano purtroppo
quelli che oggi la stanno praticando.
Beninteso:
non mi riferisco all'attuale situazione politica della Palestina-Israele;
quanto piuttosto a tutti quelli che, ritenendosi il nuovo popolo
eletto - in senso politico o religioso - pretendono di fondare
su questi testi i più moderni e pericolosissimi fondamentalismi;
con cui giustificano ogni forma di xenofobia ed esclusione.
Per
nostra fortuna, però, la Bibbia non è un libro "statico",
ma "dinamico"
vivace, così come lo era
Israele!
In
altre parole: le Scritture di Israele non sono "l'esposizione"
di una teoria, ma il "racconto" di una storia - e quindi
di un'evoluzione - che invita il lettore a restare a sua volta
con i piedi ben piantati nel proprio tempo, accettandone tutte
le sfide e le contraddizioni
capace
di riconoscere ed accettare anche le contraddizioni presenti nella
Bibbia stessa, per arrivare a comprendere come, non "nonostante
esse", ma proprio "grazie ad esse", Dio ha fatto
crescere e maturare il suo popolo.
Ed è persino commovente cogliere la sincerità con
cui la Bibbia ha conservato e tramandato tutto questo.
Un
esegeta tedesco contemporaneo, Erich Zenger, a proposito delle
contraddizioni, evidentissime, presenti in alcuni testi del Pentateuco
(talora persino sull'immagine stessa di Dio: pensiamo, ad esempio,
alla contrapposizione tra l'immagine del Dio "guerriero",
tipica della tradizione deuteronomista e quella del Dio "pacifista"
della tradizione sacerdotale), dice che non è possibile
che i redattori finali non se ne siano resi conto e le spiega
parlando del Pentateuco come di "un'opera di compromesso"
. Compromesso tra le varie concezioni teologiche delle diverse
anime del giudaismo.
In
sintesi: la Bibbia non intende consegnarci un elenco di "verità"
definite, eterne e immutabili o di "leggi" da rispettare
a tutti i costi; quanto piuttosto vuole raccontarci l'esperienza,
affascinante e sofferta, fatta di passaggi e di rotture, attraverso
la quale un popolo "in carne ed ossa" - non virtuale
o ideale - ha maturato la propria fede.
L'universalismo di Israele
E
questo è significativo anche per l'argomento che stiamo
trattando, perché la prima e più forte reazione
alla xenofobia e all'intolleranza religiosa presente nei testi
cui abbiamo accennato, la ritroviamo proprio in altre pagine dell'Antico
Testamento, o meglio - come si preferisce dire oggi - del Primo
Testamento.
Non
è un caso che proprio quando un filone del giudaismo -
da Esdra ai Maccabei - era ferocemente impegnato a tentare di
isolare la Comunità, per preservarla dagli influssi esterni
(prima dai costumi cananaici, poi dall'ellenismo; sia con la legge,
che con le armi)
in altri settori della stessa Comunità
vedeva la luce un testo stupendo come il libro di Rut.
Rut
Così,
mentre in Israele imperversa l'imposizione di ripudiare le "pericolose"
donne straniere, questo testo racconta che Rut, straniera e per
di più moabita (appartenente cioè ad una stirpe
nata dall'esecrabile peccato delle figlie di Lot; che per avere
una discendenza avevano fatto ubriacare il padre
), è
la sola che si prende cura della povera suocera israelita, Noemi,
come lei vedova e senza più figli; e per questo riceve
da Dio la grazia non soltanto di sposare un ricco possidente ebreo,
ma addirittura l'onore di diventare bisnonna del grande re Davide!
Noi
cristiani aggiungeremmo: "
e perciò antenata
di Gesù!". Ricordata persino nella genealogia maschilista
del Vangelo di Matteo; dove appare in compagnia di altre tre sole
donne: anche loro straniere (Tamara e Raab, cananee; e Betsabea,
molto probabilmente hittita).
Teologia
della Creazione
Ed
è ancora in questo periodo che - nella già citata
redazione finale del Pentateuco - giunge a maturazione la teologia
sottesa ai testi della Creazione.
E'
interessante notare come in un periodo di contrapposizioni e chiusure
nazionalistiche come questo, non si racconti che all'inizio Dio
avesse creato molti popoli (osservazione che avrebbe avuto una
sua plausibilità) ma si parli di un'unica coppia originaria,
da cui - amici o nemici; compatrioti o stranieri - tutti discendono
con l'obbligo conseguente di riconoscersi fratelli!
Ed
è ancor più interessante che alle grandi Alleanze
di Dio con Israele, mediante Abramo e Mosé, il racconto
della Genesi ne faccia precedere due - una con Adamo e l'altra
con Noé - per tutta l'umanità; la seconda in particolare
che - stipulata dopo il diluvio - viene dichiarata valida per
sempre, nonostante tutti i futuri, prevedibili, peccati degli
uomini.
Come
vedete, c'è un totale ribaltamento di prospettiva, in gran
parte dovuto alla predicazione dei Profeti e all'esperienza dell'Esilio.
Pensiamo,
ad esempio, al testo di Isaia 25: "Il Signore preparerà,
per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande,
un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati.
Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia
di tutti i popoli e la coltre che copriva tutte le genti"
.
L'universalismo
è stato dunque, per la fede di Israele, un lenta e tormentata
conquista, andata di pari passo con la presa di coscienza del
Monoteismo: non più "il nostro Dio, contro gli dei
degli altri popoli", ma "un solo Dio per tutta la terra"
ma proprio per questo è diventato un elemento tanto forte
e irrinunciabile, da resistere anche nei momenti più bui
dei secoli successivi all'Esilio.
Le
origini "pagane"
C'è
un secondo aspetto, molto meno apparente, ma altrettanto interessante
ai fini del nostro tema: quello della composizione della tradizione.
Non
possiamo ripercorrere ora le tappe della formazione dei testi,
nemmeno per sommi capi; ma possiamo dire che l'esegesi è
ormai concorde nel rinvenirne gli elementi fondanti, in tutta
una serie di piccoli racconti, legati ai santuari locali o alle
tradizioni nomadiche.
Così
se le tradizioni riguardanti Abramo erano conservate nei santuari
del sud (Mamre), quelle su Giacobbe nei santuari della zona montagnosa
del centro-nord (Betel); dove pure vanno cercate le origini delle
tradizioni su Giuseppe e l'Esodo.
Anche,
il culto di Jahweh, prima che diventasse la religione propria
di Israele, era già praticato in un antichissimo santuario
del sud, mai identificato, e chiamato genericamente il "monte
di Dio"
Ma
pensiamo anche a Melchisedech, re Salem; a Ietro, suocero di Mosé;
al veggente Balaam
tutti "pagani", a cui la Bibbia
riconosce però un vero rapporto con Dio.
Poco
alla volta, cioè, Israele è arrivato a comprendere
che queste diverse esperienze della divinità, erano in
realtà manifestazioni del medesimo Dio, che in tempi diversi,
si è rivelato a persone e gruppi etnici differenti, per
costruire con tutti e con ciascuno una storia universale.
Degno
di nota è il fatto che - per quanto si trattasse di popoli
e santuari "pagani" - Israele, quasi senza rendersene
conto, assimilò la loro fede; e molte forme di culto, ormai
tipicamente bibliche - compreso l'agnello pasquale e i pani azzimi
- trovano la loro preistoria proprio nei culti di quelle popolazioni.
Di più: gli studi biblici, hanno evidenziato, ormai da
tempo, gli stretti parallelismi di struttura che intercorrono
tra alcuni testi fondamentali della religione di Israele e quelli
di altri popoli dell'antico Oriente.
Tra
questi il già citato Deuteronomio, che è soprattutto
"Legge", la cui struttura nei capitoli centrali - dal
5 al 28 - può essere confrontata con quella del codice
di Hammurabi.
E
sempre in Deuteronomio 5-28, la Torah può essere intesa
anche a partire dalla forma della "stipulazione di un patto"
o di un contratto, rifacendosi al modello tipico del trattato
di vassallaggio degli Hittiti.
Analogo
discorso, infine, si può fare a proposito del Codice di
Esodo 20-23 , che elaborato nelle scuole degli scribi israelitici
- appartenenti però alla tradizione delle scuole cananee,
a loro volta analoghe a quelle siriane e mesopotamiche - ebbe
un origine certamente profana e tale rimase fin verso l'VIII secolo,
quando assunse un valore religioso, venendo inserito nella tradizione
del Sinai.
Riprenderò
questo aspetto nella conclusione.
Ci
sarebbe un terzo e ultimo capitolo, quello della Sapienza, ma
credo che su questo ci parlerà - e molto bene - Brunetto.
Il Nuovo Testamento
Quanto
al Nuovo Testamento, le dichiarazione più forti, per quanto
riguarda il nostro tema, le troviamo in San Paolo.
Pur
venendo dal contesto giudaico cui abbiamo accennato
abituato
perciò a dividere il mondo secondo lo schema rigido di
"noi e gli altri", "compatrioti e stranieri",
"eletti e pagani", scrivendo agli Efesini, dice: "Cristo
infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un
popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo,
cioè l'inimicizia" .
In
Cristo, cioè, Dio ha realizzato quel progetto di Ecumene
Universale che, in realtà, sottostava già al grande
disegno della Creazione e che troverà pieno compimento
nel mondo futuro. Pensiamo, a questo proposito, al testo dell'Apocalisse,
che abbiamo letto nella liturgia del giorno dei Santi: "Dopo
ciò, apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva
contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano
in piedi davanti al trono e davanti all'Agnello" (Ap 7,9)
Sono
affermazioni, già di per sé, forti e chiare; ma
l'atteggiamento di Gesù mi sembra ancora più interessante.
Gesù
è il missionario per eccellenza, l'Inviato dal Padre a
portare la Bella Notizia della vicinanza del Regno di Dio; con
tutto ciò che esso comporta, a partire dall'urgenza della
conversione.
Ebbene,
vorrà significare qualcosa che a nessuno degli stranieri
e dei pagani incontrati - fossero essi cananei, samaritani o romani
- Gesù abbia mai chiesto di cambiare religione!
La
conversione che egli predicava, era piuttosto di naturale etica:
di apertura, umile e fiduciosa, nei confronti di Dio, non di carattere
dogmatico.
Anzi:
Gesù è persino arrivato al paradosso di indicare
quale modello di "carità" un samaritano (che
rappresentava l'emblema stesso dell'apostasia) ; ancora, quale
modello di "fede riconoscente" (in greco "eucaristica")
un altro samaritano, per di più lebbroso ; e ad affermare
di non aver mai trovato una fede così grande come quella
di un soldato romano
quindi pagano .
La
chiave del suo comportamento credo si trovi nel dialogo con la
donna samaritana: un testo che, a mio modesto parere, la nostra
tradizione non ha mai tenuto nella giusta considerazione; né
dal punto di vista morale, né da quello teologico.
Alla
donna, che vuole sapere quale sia la "vera religione",
se quella dei samaritani o quella dei Giudei (in realtà
adoravano lo stesso Dio, ma qualche secolo prima c'era stato uno
scisma), Gesù risponde:
"Credimi,
donna, è giunto il momento in cui né su questo monte,
né in Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate quel
che non conoscete, noi adoriamo quello che conosciamo, perché
la salvezza viene dai Giudei. Ma è giunto il momento, ed
è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in
spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori.
Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo
in spirito e verità" .
Da
buon giudeo, Gesù non ha bisogno di rinnegare la propria
tradizione, ma è proprio questo a dare le vertigini ad
ogni religione ben istituzionalizzata, perché - evidentemente
- secondo lui si può restare radicati nella propria tradizione
e fare, allo stesso tempo, un salto in avanti.
Secondo
Gesù, cioè, a fare la differenza, non è l'appartenenza
religiosa, ma il tipo di rapporto che si vive con Dio. Dio cerca
adoratori che lo "adorino in spirito e verità"
(cioè "con amore e sincerità") e non meri
difensori di supposte verità. Forse oggi verrebbe tacciato
anche lui di relativismo, ma dal vangelo appare fin troppo chiaramente
quanto preferisca un buon samaritano o un buon pagano piuttosto
che un fariseo come quello della parabola.
In
definitiva, qualsiasi religione, quando aiuta davvero a creare
un rapporto sincero con Dio ha raggiunto il suo scopo; e perciò
è buona.
Ma
anche la più "vera" della religioni, quando spinge
a chiudersi nell'arroganza delle proprie certezze, nella pretesa
di possedere l'"esclusiva" della verità e diventa
così un ostacolo, nei confronti di Dio e dei fratelli,
ha fallito.
Perciò
Gesù non è affatto preoccupato che i suoi interlocutori
cambino "religione": preferisce piuttosto che cambino
"atteggiamento": anzitutto verso Dio e di conseguenza
verso gli altri.
Questo
sì, abbatte le frontiere e le contrapposizioni, tanto da
far dire ad un ebreo e fariseo tosto, come Paolo, nella lettera
ai Colossesi: "Qui non c'è più Greco o Giudeo,
circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero,
ma Cristo è tutto in tutti" .
In
lui sono definitivamente gettate le basi per nuovi possibili ponti,
che Dio stesso ci invita a costruire: un invito che in verità
- tenendo conto delle reticenze degli umani e delle loro rappresentanze
religiose - assume spesso assai più le sembianze di una
sfida.
Conclusione
Termino
con una intuizione, sul filo dell'ortodossia.
Se
è vero quanto abbiamo detto circa il cammino attraverso
il quale Israele ha maturato la propria fede, facendo tesoro e
sintesi delle esperienze e delle tradizioni religiose degli altri,
allora questo ci offre uno spaccato sullo stile di Dio, sul suo
"metodo di lavoro" nella storia: dalla pluralità
verso l'unità.
Non
si tratta di un processo di omologazione, ma di arricchimento,
che spinge a completarsi a vicenda.
E
se questo è stato il metodo del passato, credo ci siano
buone ragioni per sospettare che lo sia anche in futuro: così
come da diverse esperienze religiose locali è maturata
la fede di un grande popolo, dalle diverse tradizioni religiose
attuali potrà maturare, poco alla volta, una grande coscienza
di fede universale.
Non
tanto nel senso di "uniformare" le diverse concezioni
teologiche, che non è nello stile di Dio appiattire la
"Convivialità delle differenze" (per dirla con
don Tonino Bello); quanto piuttosto di spingerle verso una grande
comunione spirituale: dello spirito e della verità, appunto!
Certo,
dai tempi delle steppe di Moab ai giorni di Gesù, era passata
molta acqua sotto i ponti del Giordano. Israele aveva fatto un
grande cammino; non tutti però l'avevano percorso e perciò
non tutti poterono accettare la sfida del rabbí di Nazareth.
Ora,
ne è passata quasi il doppio. Anche la Chiesa di Gesù
ha fatto un cammino: e, ancora una volta, non tutti l'hanno percorso.
Così, se oggi sono molti quelli che vanno per la strada
di un Ecumenismo davvero universale, grazie anche all'impulso
di Giovanni Paolo II (pensiamo a cosa ha significato l'Incontro
di Preghiera delle Religioni, del 27 ottobre 1986, ad Assisi)
non
mancano però quelli che vorrebbero portare indietro le
lancette della storia; tornando a marcare il territorio, con i
paletti delle proprie verità, assolute e irrinunciabili.
Per
questi tali credo resti valido il monito di Gamaliele:
"Se
infatti questa teoria o questa attività è di origine
umana, verrà distrutta; ma se essa viene da Dio, non riuscirete
a sconfiggerli; non vi accada di trovarvi a combattere contro
Dio!" .
Alberto
Vitali
(relazione
tenuta a Lecco, in occasione dell'omonio convegno organizzato
dalle ACLI provinciali lecchesi, il 5 novembre 2007)
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