Quando
Daniele, l'amico direttore di Viator, mi ha chiesto di scrivere
questo articolo, credo abbia letto immediatamente sul mio volto
l'imbarazzo e il desiderio di non farlo. Non farlo, perché
l'argomento è difficile e forte è la paura di cadere
nel qualunquismo, nelle chiacchiere che spesso riempiono i media
e le nostre giornate; non farlo anche per rispetto e discrezione.
Ma allo stesso tempo, e paradossalmente, ho avvertito la contraddizione
di questo mio atteggiamento con l'unica idea che in quei giorni
ero riuscito ad accarezzare: la nostra sola salvezza sta nel saperci
ascoltare e parlare. Non nel parlarci addosso, banale e incapace
di ascolto, ma nel raccontarci, nel metterci a confronto, nel
cercare insieme di capire e di capirci. Non importa se quanto
abbiamo da condividere sia poco o se il più delle volte
si tratti solo di domande e incertezze: nella misura in cui fa
parte della nostra vita è comunque prezioso ed è
la sola possibilità che ci resta. Già, perché
se di fronte a fatti di cronaca come quelli degli ultimi tempi
- dall'uccisione di una suora a Chiavenna, alla tragedia di Novi
ligure fino a quella di Caslino - parlare è certamente
rischioso, tacere potrebbe essere un alibi, una rimozione, un
tentativo di liquidare tutto come fossero casi isolati, episodi
dalle cause oscure e misteriose, per evitare di metterci in discussione.
A monte, mi sembra, stia una questione: vogliamo essere società
o solo un insieme di individui, al massimo piccoli nuclei, che
abitano spazi comuni e interagiscono solo per necessità
di sopravvivenza? Il bene comune ci sta veramente a cuore o ce
ne occupiamo solo nella misura in cui un suo eccessivo turbamento
potrebbe intaccare la nostra tranquillità? Don Milani,
il priore di Barbiana, al motto fascista "me ne frego"
ha opposto, e insegnato ai suoi giovani, un categorico "I
care", mi interessa, mi riguarda! Se ci basta pensare al
nostro piccolo orto, le risposte abbondano al supermercato delle
banalità, ma se invece aspiriamo a qualcosa di più,
allora guardiamoci in faccia e mettiamoci insieme, perché
nessuno può farcela da solo. In ciò l'umiltà
è più preziosa dell'oro. Per questo ho voluto ascoltare,
ascoltare molto. Ho ascoltato genitori che sottolineano come oggi
giorno il ruolo educativo della famiglia è di gran lunga
ridimensionato, rispetto a qualche decade fa, a vantaggio di altre
"agenzie" più o meno educative: scuola, gruppi
sportivi, compagnie, televisione
ed è sicuramente
vero. Altri, al contrario, sostengono che la famiglia resta il
luogo privilegiato dell'educazione dei figli: "non è
possibile che un genitore attento non si accorga del disagio di
un ragazzo
attraverso le alterazioni del suo comportamento
e della serie infinita di messaggi che, sebbene in modo velato,
trasmette". E certamente hanno ragione anche loro. Li unisce,
mi sembra, un bisogno di esorcizzare il peso della responsabilità:
"sicuramente hanno sbagliato quei genitori, ma se dovesse
capitare anche a me, il prevenirlo andrebbe oltre le mie possibilità".
Manca così la capacità di prendersi a cuore il problema
più generale: posso accontentarmi che questo non avvenga
in casa mia, se poi succede in quella del mio vicino o del compagno
di mio figlio? Ho ascoltato i media, e li c'è da perdersi.
Improbabili sociologi, pseudo-psicologi, tuttologi di ogni specie:
per loro c'è sempre un Marilyn Manson, coi suoi messaggi
eversivi, a spiegare le cause delle devianze dei giovani: ma quando
le amiche rivelano che ad Erica piacciono i Luna Pop, la tesi
si sgonfia. Non mancano tutori dell'etica pubblica a condannare
l'invito di Eminem a Sanremo, ma nessuno a chiedersi perché
una società come la nostra abbia bisogno di rappresentarsi
in questa violenza; nessuno a chiedersi come possa nascere il
bisogno di essere trasgressivi contro una società tanto
"liberale" come la nostra. Ho ascoltato i ragazzi, e
qui ho provato timore e tristezza: giudizi spietati contro questi
coetanei e auspici di condanne severe. Pare svanita ogni traccia
di quella solidarietà generazionale che in un passato,
neanche lontano, aveva caratterizzato, forse troppo, gli adulti
di oggi. "Bisogno di ordine che tradisce smarrimento, per
mancanza di riferimenti sicuri", assicurano i bene informati.
Già, ma per essere retti bisogna diventare cattivi? O la
misericordia porta al disordine? Un male non può essere
curato con uno peggiore, o aggirato offrendo soluzioni fittizie:
ho visto giovani arruolarsi - e magari passare da un esercito
all'altro - per delegare ad altri il peso della propria libertà.
Certo è più facile obbedire che decidere, condannare
che comprendere, giudicare che sollevare, ma allora è giunto
il tempo in cui coinvolgerci personalmente - secondo il ruolo
che ci siamo scelti - per educare e lasciarci educare ad un rinnovato
senso di responsabilità collettiva. Alla domanda di Caino:
"sono forse il custode di mio fratello?", Dio risponde
lungo tutta la storia biblica: "si, sei proprio tu!".
Ho ascoltato gli uomini di Chiesa richiamare all'infinito il valore
del modello tradizionale di famiglia e anche loro hanno ragione,
nessuno lo discute, ma non fingiamo di ignorare che queste tragedie
sono avvenute in famiglie assolutamente normali, i cui figli frequentavano
le scuole cattoliche e l'oratorio e i genitori impegnati in parrocchia:
è evidente che neanche noi abbiamo la formula giusta. Ho
ascoltato anche i politici, che sembrano più preoccupati
di compiacere i propri elettori che di proporre percorsi a promozione
del "ben-essere" sociale a cui sono proposti. Gli uni
a predicare il ritorno ai valori di una improbabile cultura cristiana-europea,
di cui si è persa traccia dalla frammentazione culturale
seguita all'illuminismo, gli altri a combattere ogni forma di
censura, senza però proporre nulla in concreto. Infine,
mi capita spesso, ma soprattutto quando ho bisogno di una guida
sicura, ho ascoltato la parola di Gesù. Là dove
gli riferiscono il caso di "quei galilei, il cui sangue Pilato
aveva mescolato con quello dei loro sacrifici" (Lc 13,1-5).
Gesù non si sofferma sull'episodio, ma invita tutti a prendere
spunto da questi fatti di cronaca per ragionare sulla propria
vita, sui propri modelli sociali e scoprire cosa in essi non va,
perché altrimenti "perirete tutti allo stesso modo".
Prendendo allora solo lo spunto dalla gravità dei fatti
di cui siamo indiretti testimoni, e ragionando sul bisogno di
ordine e morale che emerge in modo piuttosto scomposto tra noi,
mi sembra che proprio questa potrebbe essere una pista feconda.
L'uomo ha bisogno di una guida, è vero; è certo
che servono regole di riferimento, una morale religiosa o un'etica
laica (pensiamo ad esempio a Kant). Ma povero quell'uomo che obbedisce
a leggi senza un progetto, che ha bisogno di seguire qualcosa
perché non sa dove andare, che delega al dovere la sua
libertà. In realtà la morale e l'etica si fondano
sui valori che sono chiamate a promuovere, e questi a loro volta
sul valore supremo che è l'amore. Non c'è etica
senza mistica, non c'è morale senza pathos. Parafrasando
il titolo di un libro di uno dei più grandi teologi del
novecento, H. U. Von Balthasar, possiamo dire "solo l'amore
è credibile". L'amore è lo spazio esistenziale
dove i valori eterni si incarnano nella nostra esperienza e guidano
la nostra azione. Solo l'amore, vissuto come esperienza spirituale
ed emotiva, libera dalle paure, riempie il vuoto, motiva all'azione,
spinge a prendersi cura degli altri e del bene comune. Nessuna
imposizione può sostituire l'amore; senza l'amore ogni
morale è una tirannide e in ogni momento è pronta
a rivelare il suo limite. Per questo don Milani insegnava "I
care", perché se l'altro non ti sta a cuore come te
stesso, il suo bene come il tuo, la società come la tua
casa, non potrà esserci legge, né polizia, né
punizione che potrà farti prendere cura di essi. Chi non
si sente accolto, come potrà accogliere? Chi non si sente
amato, come potrà amare? Chi non prova il gusto delle cose
vere come potrà custodirle? Quando i beni materiali solo
apparentemente colmano il vuoto delle persone, riempiendo quello
spazio destinato ad accogliere sentimenti, interessi, emozioni,
questi si cercano altrove, in modo scomposto e a volte patologico.
Non a caso Gesù provoca tutti a ripensare il proprio modo
di vivere. Così se la chiesa non insegnerà anzitutto
ad accogliere e abbracciare ogni persona, a partire da quelli
che ha sempre in diverso modo emarginato: divorziati, gay, immigrati
di altre confessioni religiose
può risparmiarsi la
fatica di predicare i valori eterni: non funziona. E se i politici
non si danno da fare perché sia vera la fraternità
tra i popoli possono risparmiarsi qualsiasi demagogia sulla libertà
e l'uguaglianza: non avremo un'era di pace. E allora per questo
Gesù ci chiama a conversione, a passare dall'ordine dei
doveri a quello dell'amore: "se non vi convertirete (si,
anche noi che crediamo di essere normali, di non averne bisogno)
perirete tutti allo stesso modo!".
Alberto
Vitali
|